testo integrale con note e bibliografia

1.L’evoluzione giusnaturalistica del diritto del lavoro in Italia

Il diritto del lavoro è eternamente oscillante tra una legislazione orientata ad una riduzione delle tutele dei lavoratori in nome della occupazione e del perseguimento degli equilibri economico-finanziari dello Stato ed una normativa più incline ad un allargamento delle prospettive di tutela. Non mi sembra molto convincente l’orientamento di quella dottrina proteso per una lettura economicistica degli istituti giuslavoristici , dal momento che economia, politica e diritto non sono monadi privi di canali comunicativi, ma sono realtà interpretabili con diversi opzioni culturali che si compenetrano tra loro nei vari momenti della redazione di un testo legislativo, della stesura di un parere pro-veritate, della redazione di un atto giudiziario o della adozione di una decisione giudiziale. Esiste una pluralità di opzioni economicistiche che si traduce in determinate prospettive politiche e giuridiche.
Sicuramente nel periodo 2011-2015 la iniziativa legislativa cristallizzata nella riforma Fornero e nel c.d. Jobs Act in nome della necessità di risanare le finanze e di dare una spinta alla occupazione ha ritenuto opportuno ridimensionare le tutele dei lavoratori: il simbolo di tali opzioni legislative è stata la forte limitazione e/o abolizione dell’istituto della reintegrazione come rimedio ordinario nella ipotesi di illegittimità del licenziamento e l’allargamento delle ipotesi di contratto a termine. Se si aiuta la impresa ad avere meno rischi e meno oneri economici in materia di rapporti di lavoro, è plausibile che le imprese siano più propense ad investire i propri utili effettuando nuovi investimenti ed accrescendo i posti di lavoro: questo è il presupposto politico-economico di tale opzione legislativa che, tuttavia, non ha mai trovato grandi riscontri nelle realtà economiche del globo.
La sentenza della Corte Costituzionale n. 150 del 2020 che ha abrogato il vincolo per il giudice del lavoro di procedere ad un indennizzo forfettizzato in base alla sola anzianità di servizio in materia di licenziamenti, la sentenza n. 125 del 22 maggio 2022 della Corte Costituzionale che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della distinzione tra insussistenza e manifesta insussistenza del fatto con riferimento al licenziamento per giustificato motivo oggettivo, la sentenza della Corte Costituzionale n°183 del 22 luglio 2022 che nel dichiarare inammissibile il ricorso del Tribunale di Roma circa l’entità della indennità risarcitoria (fino a sei mensilità nelle imprese con meno di quindici dipendenti) e che invita però il Parlamento a rivedere la norma affermando che, diversamente, la stessa Corte dovrà intervenire sono espressioni chiare di una reazione della giurisprudenza costituzionale ad una tendenza legislativa che aveva sposato una opzione decisamente riduzionista delle prospettive di tutela dei lavoratori in violazione degli artt. 1, 4 e 35 della Costituzione.
Un processo similare è avvento nella giurisprudenza di merito e di legittimità. La interpretazione iniziale dell’art. 18, co. 4, Stat. Lav., riformato dalla L. n. 92/2012, limitava la tutela reintegratoria alle sole ipotesi in cui il giudice accertava l’illegittimità del licenziamento disciplinare “per insussistenza del fatto contestato ovvero perché il fatto rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili”. In tutte le “altre ipotesi” operava la tutela indennitaria (comma 5 dell’art. 18 citato).
Per un decennio la giurisprudenza formatasi in materia di licenziamento disciplinare si è attestata su alcuni punti fermi. “L’insussistenza del fatto contestato, che rende applicabile la tutela reintegratoria … comprende anche l’ipotesi del fatto sussistente ma privo del carattere di illiceità”. Nella ipotesi di sproporzione tra sanzione e infrazione va riconosciuta la tutela risarcitoria se la condotta dimostrata non coincida con alcuna delle fattispecie per le quali i contratti collettivi o i codici disciplinari applicabili prevedono una sanzione conservativa, ricadendo la proporzionalità tra le «altre ipotesi» di cui all’art. 18, comma 5, per le quali è prevista la tutela indennitaria”.
Se il fatto contestato, inteso in senso giuridico, sussiste, la tutela reintegratoria poteva trovare applicazione soltanto in presenza di un’espressa “valutazione di proporzionalità fra sanzione conservativa e fatto in addebito tipizzata dalla contrattazione collettiva”. Diversamente, in tutti gli altri al lavoratore spettava, soltanto la tutela indennitaria, “non ravvisandosi … una disparità di trattamento - connessa alla tipizzazione o meno operata dalle parti collettive delle condotte di rilievo disciplinare - bensì l’espressione di una libera scelta del legislatore, fondata sulla valorizzazione dell’autonomia collettiva in materia” .
Con la sentenza della Suprema Corte n. 11665/2022, seguita dalle successive , la Corte di Cassazione ha profondamente modificato il quadro descritto, affidando al giudice, nei casi in cui “la fattispecie punita con una sanzione conservativa sia delineata dalla norma collettiva attraverso una clausola generale”, il compito di “riempire di contenuto la clausola utilizzando standard conformi ai valori dell’ordinamento ed esistenti nella realtà sociale in modo tale da poterne definire i contorni di maggiore o minore gravità”. Secondo la Cassazione, “la tecnica dell’individuazione di fattispecie generali poi specificate in via esemplificativa … o ancora la catalogazione di una serie di condotte tipizzate accompagnata da una previsione più generale e di chiusura, non preclude al giudice di svolgere quell’attività di interpretazione integrativa del precetto normativo sempre al fine di individuare quale sia la tutela in concreto applicabile”.
In questo quadro di reazione giusnaturalista occorre ricordare le sentenze della giurisprudenza di merito del Tribunale di Torino e del Tribunale di Milano , avallate dalle recentissime sentenze della Cassazione del 2.10.2023 che, nel valorizzare la portata precettiva dell’art. 36 Cost, hanno in sostanza nullificato le norme obbligatorie dei contratti collettivi che disciplinano il lavoro dei vigilanti sottoscritti da alcune organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative.
Ancora ultimamente la Corte Costituzionale nel proseguire il processo demolitorio delle norme più problematiche del “Jobs Act” attraverso la sentenza n. 128/2024 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 3, comma 2, del Dlgs n. 23 del 4 marzo 2015, nella parte in cui il legislatore non ha previsto che la tutela reintegratoria debba essere applicata anche nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo. Si tratta di quei casi in cui non sia stato possibile dimostrare innanzi al Giudice l’insussistenza del fatto materiale allegato dal datore di lavoro, rispetto alla quale continua a rimanere estranea qualsiasi tipo di valutazione in relazione al ricollocamento del lavoratore.
Il principio della necessaria causalità, secondo i giudici, richiede necessariamente che il fatto materiale allegato dal datore di lavoro risulti essere effettivamente sussistente. In altre parole la radicale irrilevanza dell’insussistenza del fatto materiale viene a creare un vero e proprio difetto di sistematicità. Questa situazione rende irragionevole che si venga a creare una netta differenza con l’ipotesi parallela che porta al licenziamento senza giusta causa. Attraverso una seconda sentenza, la n.129/2024 , la Corte costituzionale ha ritenuto che non fosse fondata la legittimità costituzionale di un licenziamento disciplinare che si fosse basato direttamente su un fatto contestato, quando la contrattazione collettiva prevede, invece, una sanzione conservativa. È necessario, quindi, secondo la Corte Costituzionale ammettere la tutela reintegratoria attenuata in quelle ipotesi nelle quali la regolamentazione pattizia preveda unicamente particolari inadempienze del lavoratore passibili semplicemente di una sanzione conservativa.
Una parte della dottrina ha criticato questo approccio della giurisprudenza lamentando la formazione nel nostro ordinamento di un Giudice demiurgo, una sorta di Giudice legislatore sganciato da ogni vincolo legislativo e costituzionale.
Si tratta di una lettura delle dinamiche giurisprudenziali non condivisibile, in quanto, a fronte di un evidente tentativo del legislatore di optare per una determinata prospettiva politico-economica della disciplina lavoristica, si è affermato un orientamento teso a rimettere l’ ordinamento lavoristico nel suo alveo corretto di tutela e garanzia di diritti e di valori insopprimibili collegati ad una dimensione più conforme alla Costituzione. Dopo anni di impostazione lavoristica di tipo ragionieristico, si sta affermando un diritto del lavoro più orientato alla tutela dei valori costituzionali , un diritto del lavoro meno giuspositivistico.
E non si può non apprezzare questo ritorno ad una ispirazione giusnaturalistica del diritto del lavoro che pone al centro del perimetro ermeneutico dell’interprete le norme costituzionali.
Non si comprende per quale ragione una interpretazione costituzionalmente orientata delle norme lavoristiche oppure la pubblicazione di plurime sentenze della Corte Costituzionale che demoliscono alcune norme della riforma Fornero e del Jobs Act possano ritenersi espressione di una forma di giurisprudenza creativa: semplicemente sono state introdotte nel nostro ordinamento norme con una precisa caratterizzazione politico-economica ma del tutto prive della necessaria copertura costituzionale e comunitaria. Ben hanno fatto la magistratura di merito e di legittimità e la Corte Costituzionale a rilevare tali incongruenze ed a sanzionarle.
Non bisogna dimenticare, infatti, che il diritto di lavoro è un diritto privato connotato da specialità, dal momento che i rapporti di lavoro non sono riconducibili a fattispecie di scambio: la posizione del prestatore di lavoro non è assimilabile semplicemente a quella di un titolare di un diritto di credito avente ad oggetto la retribuzione. Il prestatore di lavoro, attraverso il lavoro reso all'interno dell'impresa, da intendere come formazione sociale nei sensi dell'art. 2 Cost., realizza non solo l'utilità economica promessa dal datore ma anche i valori individuali e familiari indicati nell'art. 2 della Cost. e nel successivo art. 36

2.I collaboratori etero-organizzati: l’approccio parmenideo

In questo processo di costituzionalizzazione degli interventi normativi degli ultimi anni spicca la elaborazione giurisprudenziale in materia di riders e di collaborazioni etero-organizzate per la quale viene in rilievo l’istituto della subordinazione.
La subordinazione si caratterizza come l’assoggettamento al potere direttivo organizzativo e disciplinare del datore di lavoro. Il lavoratore non è libero di orientare la sua attività come crede, ma deve uniformarsi ed adattarsi a determinate prescrizioni provenienti dal datore di lavoro. Il lavoratore non è tenuto ad una obbligazione di risultato, ma ad una obbligazione di mezzi.
Nel leggere alcuni scritti ed anche alcuni provvedimenti legislativi parrebbe che la subordinazione non sia una realtà così diffusa nella realtà lavorativa.
Ed invece partendo da un qualsiasi osservatorio giurisprudenziale si può ben affermare che la evoluzione tecnologica, proprio in ragione della sua intrinseca capacità di annichilire la sfera di riservatezza dell’essere umano, ha, invece, comportato un allargamento considerevole dei rapporti di lavoro subordinato.
Nella consapevolezza della sussistenza di un settore caratterizzato da un abuso delle forme convenzionali di collaborazione il legislatore è intervenuto nel 2015 statuendo con l’art. 2 del d.lgs. 15 giugno 2015, n. 811 che ai collaboratori etero-organizzati si applica la disciplina del lavoro subordinato.
Il legislatore non opera una elencazione degli istituti della subordinazione da applicare al lavoro etero-organizzato: questo dato non può non essere interpretato nell’ottica secondo cui tutta la disciplina del lavoro subordinato ( anche quella previdenziale) vada applicata a tali forme di collaborazione. Ed allora ci si chiede come sia possibile configurare in termini di lavoro autonomo un qualcosa cui occorre applicare tutta la disciplina del lavoro subordinato; come sia possibile applicare la disciplina integrale della subordinazione ad una fattispecie che non presenta gli elementi costitutivi della subordinazione. Per quale ragione la collaborazione etero-organizzata disciplinata dall’art. 2 citato è dogmaticamente inquadrabile come lavoro autonomo se, in via generale, alla stessa si applica la disciplina della subordinazione ? Tale assunto sembrerebbe incompatibile con il principio di non contraddizione. Non sarebbe meglio concludere che il legislatore ha semplicemente preso atto della sussistenza nella realtà fenomenologica di una ipotesi di rapporto di lavoro subordinato?
Parmenide affermava: “L'essere è e non può non essere; il non essere non è e non può essere”.
Le persone nascono e muoiono; sorgono e muoiono gli stati, le imprese, le città, le stelle. Noi stessi cambiamo costantemente: terminiamo gli studi, andiamo via di casa, formiamo una famiglia, rimaniamo single per tutta la vita, conosciamo nuovi amori. Nulla permane identico a sé stesso. Allo stesso modo le esperienze che ciascuno di noi fa si esauriscono e ritornano nel nulla dal quale erano emerse prima di esistere. Parmenide riteneva che mettersi sulla strada del divenire, che sarebbe la via attestata dalle esperienze , equivale a infilarsi in un vicolo cieco, perché significa ammettere che esiste il non essere, quella cosa dalla quale tutte le cose e gli eventi si originano e alla quale tutto ritorna.
Ma il non essere non può essere qualcosa. Il non essere non esiste. L’esperienza ci attesta che le cose nascono e muoiono, escono dal nulla, si attestano momentaneamente nell’essere e poi svaniscono, ritornando nel nulla. Se fosse così, noi dovremmo fare esperienza del nulla, ma non è possibile fare esperienza di qualcosa che non esiste.
Severino sostiene in un suo famoso scritto che gli uomini non fanno esperienza del nulla, ma che fanno esperienza dell’apparire e dello scomparire di oggetti, persone, eventi, ossia di quanto è dentro all’orizzonte della esperienza. Il nulla non lo vediamo da nessuna parte. Noi facciamo esperienza dell’apparire di stati successivi che si concludono nell’apparire nel nostro orizzonte della cenere.
Orbene nella realtà giuslavoristica esiste una entità eterna in continua evoluzione che è la subordinazione, ma che non muore mai. Ci sono vari rapporti di lavoro che presentano delle caratteristiche diverse ma che sono pur sempre rapporti di lavoro subordinato: si pensi al lavoro giornalistico, al lavoro dirigenziale, al lavoro dei medici. Ci sono degli autori che parlano di subordinazione attenuata, senza mai rinnegare la cornice ontologica della subordinazione.
Nel corso degli anni vi è stata una impressionante evoluzione tecnologica che ha modificato gli assetti dei rapporti di lavoro, ma la entità della subordinazione rimane sempre la stessa.
In dottrina più di un autore ha parlato di forza irresistibile della subordinazione : si è detto che negli ultimi anni si è registrata negli operatori del diritto la tendenza a favorire una soluzione squisitamente giudiziale, ideologicamente connotata della questione qualificatoria, in spregio delle fattispecie normative, della libertà e della volontà negoziale.
Tale tesi appare alquanto forzata, in quanto non esiste alcuna forma di innamoramento per la subordinazione. La subordinazione ha una connotazione squisitamente oggettiva; è una entità molto diffusa nella realtà dei rapporti di lavoro: non è un istituto calato forzosamente dall’alto nella realtà fenomenologica dagli operatori del diritto, ma è un quid che va semplicemente riconosciuto e disciplinato e non obnubilato.
A tal proposito la tendenza legislativa che legittima la estensione di alcuni istituti tipici della subordinazione a realtà classificate aprioristicamente come rapporti di lavoro autonomo non appare la via dogmaticamente più corretta. Tale tendenza normativa sicuramente lodevole, in quanto comporta un miglioramento d elle condizioni economiche e normative di alcuni lavoratori sicuramente non comporterà l’annichilimento di una realtà oggettiva, in quanto il lavoratore ha sempre la possibilità di chiedere in via giudiziale l’accertamento in concreto della sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato.

3.La fattispecie dei riders: forme di tutela

La attività del ciclofattorino è sicuramente una attività astrattamente sussumibile nello schema del rapporto di lavoro subordinato e nello schema del lavoro autonomo: senza farsi trasportare da ansie qualificatorie, occorre sicuramente sempre valutare il singolo caso concreto senza condizionamenti di sorta da parte di posizioni assiomatiche.
Dopo un inizio decisamente oscillante, la questione della qualificazione del lavoro tramite piattaforma ha avuto un primo assestamento con la sentenza n. 1663 della Corte di Cassazione del 2020 , che ha ricondotto il rapporto dei riders all’art. 2, D.Lgs. n. 81/2015, in base all’accertamento della c.d. “etero-organizzazione”, individuata nella “effettiva integrazione funzionale del lavoratore nella organizzazione produttiva del committente”. Per la Corte di Cassazione il lavoratore etero-organizzato è giuridicamente inquadrabile nell’ambito del lavoro autonomo, anche se occorre applicare la disciplina del lavoro subordinato , realizzandosi così una forma di tutela rafforzata finalizzata a rimediare alla particolare situazione di debolezza contrattuale in cui verserebbero tali collaboratori .
La Corte di Cassazione, nella sentenza del caso Foodora, con un obiter dictum, ha affermato che l’art. 2, comma 1, è una “norma di disciplina” che non crea una nuova fattispecie. La norma in questione applica la disciplina del lavoro subordinato in quanto opera una riconduzione di tale fattispecie nell’ambito del lavoro subordinato. La ratio della norma è “anti fraudolenta”.
Il legislatore, in sostanza, senza creare un nuovo tipo contrattuale rispetto al contratto di lavoro autonomo e subordinato, ha ritenuto di intensificare le tutele di quelle collaborazioni continuative nelle quali la prestazione resa dal collaboratore non è solo coordinata, ma organizzata dal committente. Il dato della etero-organizzazione viene assunto dal legislatore (art. 2, comma 1) come fattispecie di riferimento per l’applicazione della disciplina del lavoro subordinato.
La Corte di Cassazione ha rilevato che “quando l’etero-organizzazione accompagnata dalla personalità e dalla continuità della prestazione rende il collaboratore comparabile ad un lavoro dipendente, si impone una protezione equivalente e quindi il rimedio dell’applicazione integrale della disciplina del lavoro subordinato”
La ratio della norma in questione è insita nell’esistenza di “un’ampia area grigia, passibile di una utilizzazione abusiva” venutasi a creare “a seguito della abrogazione del lavoro a progetto, con la contestuale salvezza del vecchio art. 409, n. 3 c.p.c.”. La norma persegue una finalità protettiva di situazioni di debolezza di una delle parti contrattuali.
L’affermazione della Suprema Corte secondo cui “non possono escludersi situazioni in cui l’applicazione integrale della disciplina della subordinazione sia ontologicamente incompatibile con la fattispecie da regolare” appare poco persuasiva in assenza di indicazioni legislative in merito alla selezione della disciplina da applicare. L’art. 2, al comma 2, lett. a), introduce una deroga al rinvio generalizzato alla disciplina del rapporto di lavoro subordinato: “la disposizione di cui al comma 1 non trova applicazione con riferimento: a) alle collaborazioni per le quali gli accordi collettivi nazionali stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale prevedono discipline specifiche riguardanti il trattamento economico e normativo, in ragione delle particolari esigenze produttive ed organizzative del relativo settore”.
La deroga opera, dunque, alle seguenti condizioni: a) gli accordi collettivi devono essere stipulati dalle associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale “in modo da garantire la loro forza e genuinità”; b) gli accordi devono prevedere “discipline specifiche riguardanti il trattamento economico e normativo”, ossia “regole ad hoc relative ai trattamenti economici e normativi dovuti ai collaboratori”; c) gli accordi devono essere giustificati da “particolari esigenze produttive ed organizzative del relativo settore”.
Sicuramente, dal punto di vista pratico, resta qualche perplessità, soprattutto dopo l’intervento della giurisprudenza di legittimità sull’art. 2. L’applicazione dell’intera disciplina del lavoro subordinato, ribadita dalla stessa Cassazione, rende sicuramente più difficile per le organizzazioni sindacali stipulare accordi che “deroghino in peius” a quella stessa disciplina, così come intervenire per privare del tutto o quasi i lavoratori interessati dalle tutele che hanno ormai acquisito in virtù della disposizione legislativa. Ed allora potrebbe essere auspicabile che l’intervento dell’autonomia collettiva si ponga in “termini di adeguamento e di integrazione” della disciplina del rapporto di lavoro subordinato. In definitiva, al di là dell’enfasi del dettato normativo sulla piena derogabilità, la norma in concreto, sino ad ora, ha avuto poche applicazioni: interessante a tal proposito appare l’accordo collettivo dei c.d. “shoppers”.
A seguito della pronuncia della Cassazione si è affermata una elaborazione giurisprudenziale maggiormente condivisibile che ha operato una qualificazione del lavoro dei riders su piattaforma digitale in termini di subordinazione.
I giudici fondano l’accertamento della eterodirezione sulla base del potere direttivo esercitato dalla società tramite la piattaforma.
Nella quasi totalità dei casi esaminati dalla giurisprudenza, infatti, la prenotazione dello slot non è libera, in quanto deve avvenire all’interno delle finestre temporali predeterminate dalla piattaforma in giorni specifici della settimana decisi dalla stessa; la scelta dell’ordine da consegnare (quale esercente e per quale cliente) viene effettuata dall’algoritmo senza alcuna facoltà di selezione da parte del rider secondo criteri che il lavoratore non ha alcuna possibilità di verificare; una volta ricevuto l’ordine, il rider è assoggettato a puntuali indicazioni su come procedere, indicazioni che vengono fornite in tempo reale dall’app, il cui utilizzo continua ad essere obbligatorio anche nella fase esecutiva della consegna: il percorso da seguire, il luogo di consegna, l’esatta sequenza di tutti i singoli gesti in cui si scompone l’attività fino alla consegna, nonché le modalità di gestione del denaro incassato. Sicuramente il rider è libero di seguire un percorso diverso, ma il compenso viene comunque calcolato in base al percorso suggerito dall’app che diviene così obbligatorio. Il mancato rispetto delle indicazioni impartite impedisce di procedere nella sequenza presente sull’app e quindi di formalizzare la conclusione della consegna e creare le condizioni per ricevere l’ordine successivo. All’esercizio del potere direttivo conformativo della prestazione si affianca un penetrante potere di controllo reso possibile dalla piattaforma informatica che registra gli slot prenotati, le informazioni del profilo del corriere, tutte le consegne accettate ed evase, le richieste di riassegnazione e il punteggio. La attività del rider è supervisionata dal sistema di geolocalizzazione del corriere stesso mentre è online ed esegue la prestazione.
Inoltre sussiste un vero e proprio potere disciplinare che si esprime concretamente nell’adozione del sistema del punteggio di eccellenza ( c.d. rating) che, determinando l’ordine temporale di accesso alla prenotazione degli slot, incide sulla maggiore o minore possibilità di lavorare e di guadagnare.
Appare evidente la differenza rispetto al lavoro autonomo, ove il controllo del committente si presenta focalizzato sul risultato richiesto al prestatore, che è libero di raggiungere con modalità di sua scelta, senza alcuna ingerenza in termini di interventi correttivi o inibitivi da parte del primo.
Per tali ragioni risulta preferibile l’inquadramento nell’ambito dell’art. 2094 c.c.
Spesso in dottrina si parla della necessità di modernizzare il paradigma dell'art. 2094 c.c. al fine di renderlo applicabile alle modalità di svolgimento di attività lavorativa consentite e rese possibili dall'evoluzione tecnologica che ha sicuramente causato la disgregazione del posto di lavoro e dei suoi luoghi fisici. Non c’è nessuna novità categoriale da elaborare: le nuove tecnologie, infatti, hanno reso sempre più stringenti e penetranti le forme di controllo e di direzione delle attività del lavoratore da parte del datore di lavoro. A tal proposito si può ben parlare di una progressiva dilatazione della fattispecie della subordinazione nel mondo dei rapporti di lavoro.
Infatti, se nel momento genetico del rapporto di collaborazione i riders hanno la possibilità di decidere liberamente di obbligarsi allo svolgimento delle prestazioni di consegna delle varie pietanze a domicilio, tuttavia gli stessi non possono organizzare tempi e modi della propria prestazione in maniera autonoma, ma sono soggetti alle direttive provenienti dall'applicazione che condizionano la prestazione sino ad annichilire del tutto la autonomia del lavoratore ed a configurare in concreto le modalità di esecuzione nell'esclusivo interesse della stessa società che aveva il controllo totale della applicazione. Non vale poi ad escludere la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato il fatto che i ciclofattorini non osservino un orario di lavoro a tempo pieno. In disparte la considerazione che occorre includere nella nozione di orario retribuibile anche le ore nelle quali i riders risultano semplicemente connessi, va sottolineato come il fatto che l'attività non sia svolta con orario a tempo pieno non muta la natura continuativa della prestazione e, comunque, non è determinante al fine di escludere la qualificazione del rapporto di lavoro come subordinato.
Su tale aspetto, infatti, va ricordato che “ il concetto di subordinazione di cui all'art. 2094 c.c. non postula necessariamente una continuità giornaliera della prestazione lavorativa, potendo le parti esprimere una volontà, anche con comportamenti di fatto concludenti, di svolgimento del rapporto con modalità che prevedano una prestazione scadenzata con tempi alternati o diversamente articolati rispetto alla prestazione giornaliera o anche con messa in disponibilità del lavoratore a richiesta del datore di lavoro “ e che tale “ modalità temporale di svolgimento della prestazione, ove sussistente, non esclude quindi l'esistenza di un rapporto a tempo indeterminato, sia pure con diversi effetti sulla regolamentazione del corrispettivo spettante anche con riguardo agli istituti indiretti, dovendo tale corrispettivo essere parametrato alle giornate effettivamente lavorate, in assenza di diversa regolamentazione contrattuale delle parti”
Tale orientamento non viene condiviso dalla giurisprudenza maggioritaria. A tal proposito appare opportuno citare alcuni stralci della recentissima sentenza del Tribunale di Milano emessa in data 11.06.2024 con riferimento alla opposizione alla ordinanza ex art. 28 dello Statuto dei lavoratori del 28.09.2023.
Il Giudice di Milano a proposito dell’art. 2 citato afferma che “ … la determinazione delle modalità esecutive della prestazione diviene rilevante al fine di ritenere che quella forma di collaborazione personale non sia caratterizzata dalla autonomia e debba pertanto essere assimilata alla subordinazione. Al tempo stesso, avendo poi specificato che la disposizione si applica anche qualora le modalità di esecuzione siano organizzate mediante piattaforme anche digitali, la norma dà proprio la misura della determinazione da parte del committente, il quale, con l’accesso alla piattaforma, non lascia alcuno spazio alla autonomia del collaboratore che dovrà pedissequamente seguire ogni passaggio procedimentale per potere rendere la prestazione.
E’ proprio ciò che è accaduto ai lavoratori che le OOSS qui rappresentano, con conseguente applicazione della norma che dispone l’assimilazione della fattispecie alle regole della subordinazione. E’ bene chiarire che quanto previsto dal legislatore in questo caso – con riferimento alle conseguenze in caso di sua violazione - non è affatto dissimile da quanto era accaduto con il lavoro a progetto in caso di mancanza o genericità del progetto: in quello, si prevedeva la conversione in rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato ai sensi dell’art. 61 L. 276/2003. La legge 81/2015 come modificata usa una terminologia diversa (“si applica la disciplina”) ma non è affatto diversa nelle conseguenze.
Quella norma non dilata affatto l’ambito della subordinazione, la quale rimane ancorata alle specifiche connotazioni che la giurisprudenza ha previsto negli ultimi 50 anni; ma ne dispone l’estensione degli effetti e della sua regolamentazione. Più chiaramente il legislatore nella sua discrezionalità normativa ha ritenuto di potere estendere le garanzie ed i diritti propri della subordinazione a forme di lavoro solo in parte diverse, ma che hanno bisogno di analoga tutela in quanto in qualche modo assimilabili al rapporto di lavoro subordinato. Il legislatore infatti non potrebbe ampliare l’ambito della subordinazione senza sottoporsi ad un giudizio di probabile incostituzionalità, come già avvenuto con la sentenza n. 115 del 31.3.94, la quale peraltro aveva affermato il principio senza pervenire ad una dichiarazione di incostituzionalità della norma”.
La impostazione maggioritaria della dottrina e della giurisprudenza di merito non appare convincente, in quanto una lettura parmenidea della subordinazione dovrebbe portare l’interprete a configurare il lavoro subordinato come una realtà mutevole e poliforme.
A dispetto delle osservazioni di una parte della dottrina che parla apertamente di “ignoranza” da parte di alcuni giudici della esistenza degli artt. 47 bis e segg, del D. Lgs. n. 81/2015 che disciplina la prestazione del rider autonomo , la giurisprudenza e la dottrina più convincenti osserva che la facoltà del lavoratore di scegliere se lavorare o meno non esclude la configurabilità della subordinazione. E ciò troverebbe conferma addirittura sul piano normativo e segnatamente negli artt. 13 e segg. del D. Lgs. n. 81/2015 in tema di contratto di lavoro intermittente senza obbligo di riposta alla chiamata. L’esistenza di tale fattispecie dimostra che per il legislatore è ipotizzabile un rapporto di lavoro subordinato caratterizzato dalla discontinuità della prestazione, rimessa sia alla volontà del datore di lavoro che chiama al lavoro il prestatore solo quando ne ha bisogno sia del lavoratore che, in assenza di obbligo di disponibilità, può rifiutare di rendere la prestazione senza alcuna conseguenza.
Ciò comporta che ad ogni accettazione di rendere la prestazione corrisponde l’instaurazione di un singolo rapporto di lavoro che si esaurisce assieme al turno corrispondente
Nel caso di specie dunque non trova applicazione la disciplina del part-time come ipotizzato da una certa giurisprudenza . Il rapporto di lavoro del rider è un rapporto di lavoro subordinato assimilabile alla figura del lavoro intermittente.
Il legislatore ha espressamente previsto nel 2003 il contratto intermittente come contratto di tipo subordinato il quale si caratterizza per la discontinuità della prestazione e ciò a prescindere dal fatto che la discontinuità dipenda da parte datoriale (chiamata al bisogno) o da scelte del lavoratore (rifiuto della chiamata se non assunto con l'obbligo di disponibilità e quindi assenza dall’obbligatorietà di rendere la prestazione). Se per scelta dell’uno o dell’altro non si lavora, non esiste alcun rapporto di lavoro né autonomo né subordinato: in sostanza se non si lavora non si viene retribuiti. Non vi è alcuno scambio di ore di lavoro per un salario. Seguendo invece il ragionamento delle piattaforme il concreto contenuto della prestazione scomparirebbe e resterebbe solo la forma astratta di un ipotetico contratto a prestazione intermittente che risulterebbe ontologicamente autonomo perché la prestazione è intermittente.
Tale impostazione non appare condivisibile, ed infatti la Suprema Corte ha sposato un’altra tesi, ad esempio, in tema di addetti alla ricezione delle scommesse nelle sale corse delle agenzie ippiche riconducendo allo schema della subordinazione rapporti caratterizzati dall’inserimento nell'assetto organizzativo aziendale ma svolti mediante chiamata, con mera facoltà di aderire del lavoratore.
Nel tradurre tali principi alla realtà giuridica concreta ed ipotizzando un recesso illegittimo della parte datoriale, il ciclofattorino potrebbe ottenere la reintegrazione sul posto di lavoro anche in ragione della estensione delle ipotesi di reintegrazione avallata dalle recenti sentenze della Corte Costituzionale. Il ciclofattorino con riferimento al periodo antecedente al licenziamento avrebbe diritto al pagamento delle ore in concreto lavoratore sulla base del criterio del log-in e del log-out. La ricostituzione del rapporto di lavoro dovrebbe assestarsi non secondo un criterio di lavoro full-time ( le parti hanno espressamente concordato un contratto di lavoro secondo il quale devono essere retribuite solo le ore lavorate secondo i criteri ermeneutici indicati), ma secondo un contratto di lavoro a tempo indeterminato caratterizzato da una retribuzione parametrata con riferimento all’orario lavorato in concreto secondo i criteri specificati. Accedendo a questa ricostruzione dogmatica ne conseguirebbe che il risarcimento del danno nella ipotesi di reintegrazione sarebbe da calcolare sulla base di una media degli importi mensili percepiti nell’anno precedente al recesso ( la c.d. retribuzione utile ai fini del tfr). In sostanza le retribuzioni e i contributi dovrebbero essere sempre corrisposti in relazione alle ore in concreto lavorate, perchè questa è la volontà manifestata dalle parti.

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