Testo integrale con note e bibliografia
Abstract.
La parcellizzazione della prestazione lavorativa nella digital economy e la ‘smaterializzazione’ del datore di lavoro dell’Industry 4.0 hanno inesorabilmente sancito la crasi fra le categorie classiche del diritto del lavoro e la fenomenologia del lavoro on demand. La gravitazione nell’economia digitale di fenomeni contrattuali che a fronte di una veste formale “privatistica” occultano un rapporto di lavoro sovente sostanzialmente riconducibile all’area della subordinazione pongono diversi interrogativi che questo articolo si propone di evidenziare. Il saggio traccerà, brevemente il contesto giuridico in cui è si è sviluppato il diritto del lavoro e l’amalgamarsi degli input giuridico-dottrinari, in una prospettiva attenta a cogliere dove la “rivoluzione” digitale abbia disarticolato il prisma dell’autonomia della materia e quali effetti ha determinato questa inversione di prerogative.
The fragmentation of work performance in the digital economy and the ‘dematerialization’ of the employer in the 4.0 Industry have inexorably sanctioned the crasis between the classic categories of labour law and the phenomenology of work on demand. The gravitation in the digital economy of contractual phenomena which, against a “private” formal form, conceal an employment relationship, pose various questions which this article proposes to highlight. The essay will briefly outline the legal context in which labour law has developed and the amalgamation of legal-doctrinaire inputs, in a perspective that is attentive to grasping where the digital “revolution” has disarticulated the prism of the autonomy of the labour law and which effects have been determinate by this inversion of prerogatives.
SOMMARIO: 1. Diritto del lavoro e diritto privato, consanguineità o antagonismo? – 2. L’innovazione dirompente della gig economy nel diritto del lavoro – 3. Gli effetti dell’innovazione dirompente sul diritto del lavoro: la ‘privatizzazione’ del paradigma contrattuale – 4. Il lavoratore come contraente debole: spunti per una ricostruzione alternativa dei rapporti della gig economy – 5. L’attuale quadro normativo: molti input, ma nessuna risposta legislativa definitiva al lavoro della gig economy – 6. Conclusioni.
1. Diritto del lavoro e diritto privato: consanguineità o antagonismo?
Il rapporto fra diritto privato e diritto del lavoro, come codificato dal legislatore e riconosciuto dai giudici costituzionali ‹‹che ne confermano l’elemento di consanguineità››, ha visto divenire, con la digital economy, sempre più evanescente a livello definitorio e sempre più aspra nel «soffio moderno della vita pratica» la storica contrapposizione fra le due materie. Nella contemporaneità in cui si plasmano gli attuali processi produttivi, le trasformazioni tecnologiche sono state foriere dell’apertura di nuovi spazi virtuali di intermediazione digitale. Da più parti definita come una rivoluzione, la dinamica della ‘quarta rivoluzione industriale’, caratterizzata dal notevole uso dell’informatica, dell’intelligenza artificiale, della robotica e dalla gestione di enormi quantità di dati, i c.d. big data, ha sottoposto le relazioni lavorative e le tutele ad esse preposte alle tensioni di un necessario ripensamento normativo. A tal riguardo J. Rifkin ha proposto una acuta osservazione approfondendo il tema dell’ascesa del «primo nuovo paradigma economico» dall’avvento del capitalismo nel XIX secolo, e della prevalenza, quindi, del c.d. ‘commons’ collaborativo, un’economia della condivisione fondata «sull’internet delle cose» e sempre meno fondata sui lavoratori.
Rispetto a questa ricostruzione, il dato incontrovertibile di interesse in questa sede poggia sull’instabilità apportata dalla tecnologia al mercato del lavoro, e alla conseguente organizzazione delle imprese, e sull’edulcorazione dei sistemi giuridici del diritto del lavoro, consolidatosi su un modello che aveva come riferimento l’impresa fordista caratterizzata da una struttura aziendale gerarchica; una ‹‹concezione dei tempi e dei luoghi di lavoro come elementi misurabili e coessenziali alla prestazione, con una idea della dimensione collettiva del rapporto come fisiologicamente, se non ontologicamente, connessa a quella individuale›. Un paradigma che, invece, oggi, appare profondamente acutizzato per quanto concerne il potere conformativo della prestazione e profondamente disarticolato e diluito nelle micro- task, dall’avvento delle Internet platform: l’obbiettivo di questo saggio è, allora, proprio rilevare de iure condendo gli elementi patologici della depauperazione dei principi giuslavoristici in favore della concezione privatistica del contratto di lavoro.
In questo contesto, l’assurgere delle piattaforme digitali a vere e proprie fonti di creazione di nuovi rapporti di lavoro che tramite il ruolo di intermediarie nel mercato, dissimulano, invece, la loro funzione di datrici di lavoro, è un elemento fondamentale della corrosione del metodo giuslavoristico. Esse accrescono l’esternalizzazione produttiva in virtù di un’area digitalizzata extraterritoriale.
Ma quale disciplina regolatoria ha normato queste forme ‘ibride’, prodotte dalla forza destrutturante della digitalizzazione del rapporto di lavoro? E in quale ambito specialistico- giuridico dovrebbe essere inquadrata questa inedita fenomenologia del lavoro?
Se il diritto del lavoro ha storicamente sedimentato la sua identità in quello privato con riguardo alle sue tematiche fondamentali quali la costituzione del contratto e del rapporto8 e se è vero che nel corso del secolo precedente con il diritto del contratto, dell’impresa e della responsabilità, ha snellito il suo significato originario (di rapporti fra individui disciplinati nel c.c.) a favore di uno tecnico (di strumento spendibile nei rapporti fra soggetti privati quanto fra soggetti pubblici), è pur vero che questo si è tradotto, nell’ultimo decennio, nella riduzione degli stessi soggetti a partner di relazioni paritarie, incompatibilmente con l’impostazione giuslavoristica. E «se nel discorso giuridico è sempre ben chiaro che il diritto del lavoro potesse (e dovesse) esprimere anche una razionalità nella disciplina dei rapporti di scambio aventi ad oggetto una prestazione di lavoro», le considerazioni inerenti la capacità di «contrastare la competizione al ribasso tra gli individui nell’accesso all’occupazione» sono, oggi più che mai, attuali sebbene non propriamente pacifiche.
Ciò che oggi, infatti, è profondamente messo in discussione è la tenuta dell’impianto giuslavoristico, così come storicamente calibrato e temperato, a fronte della dirompente disarticolazione delle sue categorie fondamentali apportata dall’inaridimento della sua
«funzione compensativa e di riequilibrio di potere nell’ambito della relazione individuale e collettiva» determinata dalla resilienza e - rectius - dalla, riacquistata, forza cogente della moderna lex mercatoria.
E’, probabilmente, la ratio stessa sottesa all’introduzione del diritto del lavoro come materia autonoma e disciplina inderogabile ad essere posta in discussione: la celebre funzione del diritto del lavoro che, come equilibratore delle asimmetriche posizioni tra lavoratore e datore di lavoro, eleva gli interessi individuali a interessi collettivi, che sembra oggi cedere il passo alla trattativa privata fra lavoratore e piattaforma, in nome dell’autonomia formale delle parti.
2. L’innovazione dirompente della gig economy nel diritto del lavoro.
Il diritto del lavoro, storicamente posto al di fuori dal libro IV del codice civile - contenente il diritto ‘comune’ delle obbligazioni e delle loro fonti - poiché dotato di una propria autonomia ontologica tale da contrapporsi fortemente all’impostazione privatistica, subisce oggi più che mai la pressione corrosiva dell’avvento della gig economy con il suo effetto destruens di disarticolazione del complesso rapporto di lavoro tradizionale e, di conseguenza, dell’individuazione dei soggetti che agiscono al suo interno. In questa prospettiva non sono mancate ricostruzioni dottrinarie che prendono atto del segnale c.d. ‘disruptive’ della tecnologia economica, elemento di quella scomposizione del classico management aziendale in rilevanti settori del mercato mondiale. Il concetto di “disruptive technology” è stato correlato alla radicale e repentina deformazione delle modalità con cui operare nel mercato, come verificatosi negli ultimi decenni, quando intere aree di business tradizionale si sono dissolte per effetto della c.d. «innovazione dirompente».
Lo sviluppo dell’organizzazione di impresa «da tecnostruttura integrata che assicurava la concentrazione del processo di produzione, è divenuta una rete di unità autonome o semi- autonome tra loro legate da forme elastiche di coordinamento». Da questa prospettiva, O. Mazzotta evidenziava come la frammentazione dell’organizzazione produttiva è migrata dal decentramento produttivo in vista delle rigidità imposte dallo Statuto dei lavoratori ad un fenomeno relazionale tra centro e periferia, di integrazione e disarticolazione del ciclo produttivo tale da necessitare una incessante qualificazione del concetto impresa e - si parva licet - anche dei lavoratori di essa dipendenti. Le relazioni di lavoro, tramite la fluidità dell’organizzazione dei fattori produttivi e la duttilità delle trasformazioni in atto, hanno condotto a forme spurie di impresa, come possono sotto diversi aspetti considerarsi le Internet platform. Talvolta queste forme sono state tipizzate con dei contratti di rete, altre volte sono rimaste completamente informali, trasmettendo la loro ‘informalità’ ai rapporti giuridici che quotidianamente intessono. In questo panorama prettamente economico, il soggetto giuridico che ha subito il maggior detrimento dalla disruptive innovation, dall’innovazione dirompente, risulta proprio il prestatore di lavoro on demand. Se per secoli i rapporti di lavoro si sono basati prevalentemente sulla necessaria prossimità fisica, l’approccio della tecnologia ha permesso la “prossimità relazionale”. Non è, cioè, più necessario, per il prestatore, essere inserito in un luogo e in un orario di lavoro, internamente ad una struttura verticistica e gerarchica di impresa, poiché le “architetture liquide” della società post-moderna «sono iscritte nell’orizzonte di un mondo che sta ampliando a rete le sue frontiere di conoscenza, relazione e scambio». Di talché la concezione della subordinazione, fondante per il diritto del lavoro, con la sua differente nozione tecnico-funzionale o socio-economica ha mutato
«l’atteggiamento nei confronti del diritto privato, con un bipolarismo dotato di una forte vis attractiva».
E’ infatti la dimensione giuslavoristica e di relazioni industriali che nella gig economy ha concorso a svelare, più di quanto abbiano consentito le discipline tecniche e informatiche, la necessità di un superamento dei paradigmi del diritto del lavoro classico a fronte del ritorno di una energica espansione dell’ottica privatistica sui rapporti industriali, incentivando così
«un diritto piegato alle esigenze del mercato che attraverso l’uso degli strumenti contrattuali tipici del diritto privato si mostra flessibile e malleabile». E’ bene notare come il cambiamento si sia concretizzato non solo e non soltanto nei modelli di organizzazione del lavoro all’interno dei contesti produttivi ma, ancor più incisivamente, nelle stesse categorie costituenti: nella nozione di impresa, di lavoro e anche in quella di contratto. Questo è sicuramente un dato rilevante se si considerano gli effetti della recrudescenza dell’espansione del diritto privato in materie fin ora protette dai ‘dogmi’ del diritto del lavoro, rispetto alle nuove logiche reticolari di produzione che hanno sancito la frantumazione della teoria classica dei contratti di lavoro, della costruzione verticale dell’impresa e del controllo così come concepiti dall’usuale interpretazione giuslavoristica. Il mutamento di paradigma prospettato dall’Industria 4.0 sembra mettere a dura prova la tenuta delle categorie intorno alle quali si sono definite le nozioni codicistiche di ‘subordinazione’ e di ‘impresa’. La stessa nozione giuridica di subordinazione, soggetta ormai alla pressione di non possedere più le qualità per intercettare e rappresentare l’attuale quadro lavorativo che ha da tempo superato le logiche fordiste, si scontra con nuove caratteristiche della figura del prestatore di lavoro. La possibilità per il lavoratore dipendente on demand di lavorare in autonomia all’interno del sistema produttivo, sia a progetto che per un risultato, esprime la profonda alterazione circa i modi, i tempi e i luoghi della prestazione di lavoro fra il contemporaneo stadio di sviluppo tecnologico e il sistema normativo che dovrebbe abilitarlo sul piano delle relazioni contrattuali. Alla centralità economica del consumatore finale o del cliente nei processi di produzione, con la conseguente variazione prospettica del concetto di servizi, non è infatti seguito un intervento legislativo in grado di cogliere la portata sistemica del radicale cambiamento della posizione del lavoratore, delegando così la soluzione di una serie di problematiche di matrice giuslavoristica alla connotazione civilistica. La mancanza di un’annessione dei cambiamenti intervenuti nella catena di creazione del valore, che incidono irrimediabilmente sul discorso giuslavoristico, alle relazioni industriali del mondo del lavoro ha lasciato infatti prosperare l’ottica sinallagmatica di scambio fra parti private propria del diritto civile generale, a scapito di quella più garantistica prospettiva di riequilibrio del potere contrattuale delle parti, propria del diritto del lavoro. D’altronde serve rilevare che la stessa economia collaborativa della condivisione rappresenta una perfezionata espressione delle relazioni di prossimità: se il valore non viene più prodotto solo dalla macchina e quindi dal dipendente che la conduce, ma è piuttosto prodotto dall’apporto della persona stessa, non nella sua dimensione strumentale, si rischia di ingenerare una profonda crisi della concezione della natura della prestazione regolata e definita dal contratto di lavoro. Si tende, infatti, ad incidere profondamente sulla idea per la quale lo scambio negoziale avviene tra salario e tempo di lavoro del prestatore, aprendo il perimetro di un rapporto che può essere regolato non soltanto - o non più - dal diritto del lavoro, ma che confluisce nell’autonomia privatistica delle parti che, ai sensi dell’art. 1322 c.c., «possono liberamente determinare il contenuto del contratto nei limiti imposti dalla legge» e pertanto «possono pure concludere contratti che non appartengono ai tipi aventi una disciplina particolare, purché siano diretti a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico». Contratti, quindi, ed è questo che più rileva, che non trovano un pieno riconoscimento nella dicotomia autonomia- subordinazione del diritto del lavoro, ma che risultano comunque meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico.
L’affermazione nella prassi di una rinnovata libertà contrattuale ha permesso il proliferare di specie atipiche di contratti in grado di regolare privatisticamente rapporti contrattuali di eziologia lavoristica, con conseguenze critiche. Nonostante, come sottolineava P. Ichino «il distacco del diritto del lavoro dal diritto civile non può che essere considerato strutturale e definitivo», tuttavia «con uno straordinario rovesciamento di prospettiva», si assiste negli ultimi anni ad una soggezione della «razionalità giuridica a quella economica, valutando i diritti solo nella prospettiva dell’efficienza e dei costi».
3. Gli effetti dell’innovazione dirompente sul diritto del lavoro: la ‘privatizzazione’ del paradigma contrattuale.
Esempi emblematici di questa tendenza all’interpolazione del paradigma contrattual- civilistico nei rapporti di lavoro nella gig economy sono quelli riguardanti i c.d. riders di Foodora o i c.d. drivers di Uber. E la prima considerazione da porsi non può che riguardare le conseguenze dell’assunzione degli effetti dell’innovazione dirompente sul contratto di lavoro, in altri termini il risultato dell’obbligazione assunta dal rider o dal driver.
Posta la - ormai unanimemente riconosciuta - necessità di utilizzare il lavoro altrui per le finalità perseguite dall’organizzazione produttiva, serve rilevare come la prestazione di un servizio di trasporto, nell’ipotesi in cui tale scopo fosse conseguito mediante la classica assunzione diretta di personale, nulla garantirebbe al datore di lavoro di poter raggiungere il risultato cui è finalizzata l’attività, dal momento che l’obbligazione di lavorare non è un’obbligazione di risultato, ma di mezzi e di diligenza. Al contrario, la medesima esigenza risulta soddisfatta attraverso l’utilizzo di un contratto commerciale che ha, così, consentito a chi fruisce della prestazione indiretta di lavoro di garantirsi l’obbiettivo (la pronta consegna a domicilio o il trasporto più veloce) dedotto nel contratto. Se forse è necessario evidenziare come non risulti auspicabile l’applicazione del tipico contratto a tempo indeterminato a queste tipologie di lavoro, soprattutto poiché la stabilità che convenzionalmente si suole riferire al contratto a tempo indeterminato non è di per sé sufficiente a garantire la stabilità di un rapporto, forme di tutela di questi lavoratori si rendono comunque necessarie. A contrario, infatti, sarebbe sufficiente a garantire, in diversa misura, le condizioni e le tutele tipiche del contratto di diritto del lavoro a prescindere della sua natura di tempo indeterminato.
Sono nate, invece, fuori dall’ambito di dipendenza lavorativa e quindi escluse dalla
«geometria dell’eccezione lavoristica al principio generale civilistico», forme contrattuali di collaborazione fondate sulla corresponsabilità o anche sulla compartecipazione dei risultati o degli utili secondo forme più o meno esplicite di partecipazione economica e/o di partecipazione ai processi decisionali anche laddove un tempo sarebbero sorti unicamente rapporti di lavoro dipendente. Questo fenomeno ha potuto svilupparsi perché la digital economy ha necessitato, come bilanciamento della liberazione del lavoratore «dalla necessità di inserirsi in un’organizzazione imprenditoriale capace di organizzare e valorizzare la sua attività», un assoggettamento serrato alla competitività, al libero mercato e al principio della sostituibilità ovvero, rappresentato in altri termini, una rinuncia alla sua qualificazione come lavoratore subordinato e quindi come lavoratore protetto dall’ordinamento quale contraente debole implicato in un rapporto asimmetrico.
4. Il lavoratore come contraente debole: spunti per una ricostruzione alternativa dei rapporti nella gig economy
Dalla prospettiva della giurisprudenza costituzionale, la configurabilità dei lavoratori come
«soggetti deboli (scil., del rapporto di lavoro) viene in rilievo, essenzialmente, con riferimento all’affermazione costituzionale del diritto al lavoro, oltre che nella disciplina dei rapporti sussistenti tra il lavoratore ed il datore di lavoro». «La situazione giuridica del lavoratore è disegnata all’interno della legge n. 300 del 1970, c.d. Statuto dei lavoratori, che la Corte ha riconosciuto avere una forte valenza espansiva». Forza espansiva oggi edulcorata e attualmente insufficiente ad avocare a sé le nuove sperimentazioni lavorative della digital economy che, pertanto, rischiano di restare rovinosamente escluse dalla solida protezione giuridica accordata ai lavoratori subordinati, a suo tempo, avallata da diverse pronunce della Corte costituzionale.
Di conseguenza, nella gig economy, quella sperequazione di forza contrattuale fra le parti, riconosciuta e affermata dalla dottrina e dal testo costituzionale, risulta non essere più accompagnata da una regolazione pervasiva, ma delegata unicamente all’autonomia contrattuale delle parti che regolano - più o meno - liberamente i propri interessi, provvedendo alla costituzione, modifica, estinzione di rapporti giuridici a contenuto patrimoniale, tradizionalmente inquadrati come rapporti di lavoro. Concretamente questo si è tradotto in un complessivo allentamento degli elementi caratterizzanti il vincolo di subordinazione giuridica tradizionale.
Inoltre, da questo punto di vista, deve essere notato che i criteri di qualificazione del rapporto come subordinato - il potere di direzione e di controllo sulle attività del prestatore e la dipendenza spazio-temporale dovuta al mancato possesso del capitale e dei mezzi di produzione - rimangono esteriormente difficilmente percepibili in un ambito come quello della gig economy di pressoché totale disponibilità dei lavoratori e/o di un loro impiego in una logica di cogestione dei processi produttivi, poiché difficilmente percepibile è «la linea di separazione tra personale e professionale».
La difficoltà nel cogliere il coordinamento fra l’organizzazione d’impresa e il prestatore, a causa delle qualità parcellizzate e informatizzate del rapporto, avvalora così la tendenza alla qualificazione dello stesso come un rapporto individuale fra privati regolato dall’autonomia delle parti, piuttosto che di soggetti qualitativamente diversi come storicamente (ri)conosciuti dal diritto del lavoro, rendendo inefficaci o addirittura inapplicabili le tecniche protettive tradizionali. Considerare le relazioni in questione come relazioni di stampo privatistico implica che, in questi rapporti, una parte, il creditore, è propensa o indifferente al rischio, mentre l’altra parte, il debitore - che ne è tipicamente avverso ed è interessato ad un contenuto assicurativo del rapporto - viene interamente caricato di questo rischio. Nella disciplina privatistica non è necessario imporre un contenuto assicurativo e di tutela con una norma inderogabile, dal momento che la diversa propensione al rischio dei due soggetti li indurrà fisiologicamente a negoziare la loro distribuzione ottimale. Ma i rapporti di lavoro non sono
- e non dovrebbero - essere regolati dalla medesima dinamica, poiché sperequato è il potere contrattuale delle parti.
La criticità di tale approccio si cela in relazione ai modelli preposti dalla moderna economia del lavoro che provano come l’asimmetria informativa circa l’entità del rischio connesso alle caratteristiche giuridiche e personali del singolo prestatore non consenta di determinare un’allocazione ottimale del rischio né tantomeno di abilitare correttamente le parti nel contesto giuridico ed economico odierno. La conseguenza sul piano economico è, anche, quella di traslare il rischio dell’inutilitas della prestazione sul soggetto titolare del contratto di lavoro che in questo caso non ne è però il fruitore andando così ad allocare tale costo economico altrove. In un’ottica, invece, di protezione sociale e di corretta applicazione dei disposti normativi e costituzionali sarebbe opportuno valutare la possibilità di attribuire maggiori tutele alle presunte collaborazioni del lavoro on demand caratterizzate da forme inedite di dipendenza se non necessariamente economica, quantomeno organizzativa piuttosto che relegare questi rapporti alla contrattazione autonoma fra privati.
5. L’attuale quadro normativo: molti input, ma nessuna risposta legislativa definitiva al lavoro della gig economy.
Per rispondere al fenomeno dell’attrazione nel paradigma civilistico dei rapporti di lavoro della gig economy, si rende dunque necessario in primis uno sviluppo di «imputazione delle tutele», più che di una «definizione degli elementi qualificatori essenziali di una ipotesi negoziale tipica».
L’impostazione dell’attuale e ultima legislatura pare avvalorare la necessità di confermare i rapporti nell’ambito della divisione binaria tra lavoro autonomo e subordinato, non optando, cioè, per categorie intermedie di articolazione tipologica, neppure privatistiche o atipiche. Anzi, se è possibile intravedere una qualche tendenza in materia è possibile coglierla nel decreto 81 del 2015, e parimenti nel c.d. ‘Decreto Dignità’ convertito con legge n. 96 del 9 agosto 2018, recante disposizioni urgenti per la dignità dei lavoratori e delle imprese, in relazione alla formula contrattuale del lavoro subordinato. Quest’ultimo, il c.d. ‘Decreto Dignità’ il quale, tralasciando incerte e premature considerazioni in ordine agli effetti, sicuramente meno roboanti rispetto a quelli preconizzati, raccoglie il merito di aver posto - quantomeno preliminarmente e per la prima volta - l’attenzione anche sul tema delle prestazioni di lavoro fornite tramite piattaforma digitale. Non sono mancate, infatti, bozze del Decreto in oggetto ove era stata paventata l’introduzione ex lege di «un accesso alle tutele per il tramite della riconduzione dei rapporti intercorrenti tra piattaforma e lavoratori nell’alveo applicativo del diritto del lavoro subordinato» tramite una previsione che, pur non incidendo direttamente sull’art. 2094 c.c., ne avrebbe dovuto (ormai il condizionale passato è d’obbligo) specificare o integrare i contenuti. Questa previsione che, sebbene il rischio di
«potenziali effetti attrattivi» per altri settori, avrebbe potuto porre le fondamenta giuridiche della gig economy, in materia giuslavoristica, fornendo un ‘pacchetto’ di tutele e diritti base al fine di arginare l’uso abusivo e/o elusivo della disciplina di diritto del lavoro a fronte dello schema contrattual-privatistico.
In quest’ottica non stupisce infatti che, a fronte delle prime inflessibili pronunce di merito che hanno escluso la subordinazione dei prestatori on demand in virtù della tradizionale interpretazione dei canoni ermeneutici in tema, il legislatore abbia optato (perlomeno inizialmente) per una scelta di carattere sistematico tesa ad allargare la nozione di subordinazione così da includervi, de facto, i digital workers e rispondere alle poliedriche istanze generate dal lavoro tramite piattaforma.
Si tratta, fra l’altro, di un tentativo non nuovo al nostro panorama legislativo che ha visto la proposta dell’estensione dell’ambito applicativo delle discipline relative ai rapporti di lavoro subordinato anche con il d.d.l. n. 4283/2017. «In tale proposta, l’intento estensivo sarebbe stato perseguito tramite una disciplina di specificazione e ampliamento dell’ambito applicativo dell’art. 2 comma 1 del d. lgs. 81/2015» (articolo, quest’ultimo, che non ha riscosso un particolare apprezzamento neppure dalle bozze del c.d. ‘Decreto Dignità’ che inizialmente pare ne prevedessero la espressa abrogazione).
Allo stato dell’arte, appare dunque che la prospettiva attraverso cui analizzare la genesi del lavoro digitale, sia rimasta quella volta a promuovere interventi di ‘flessibilizzazione’ della disciplina al fine dichiarato di ridurre la rigidità tipologica del lavoro subordinato e scongiurare la fuga dal diritto del lavoro; una fuga che ha, però, come destinazione esplicita la contrattazione paritaria fra privati.
Una soluzione auspicabile potrebbe, dunque, essere quella di un’estensione ‘transtipica’ degli effetti connessi al rapporto di lavoro subordinato che avrebbe il pregio sia di essere un’impostazione valorizzabile nel contesto della platform economy sia di evitare l’estensione delle regole prettamente civilistiche a rapporti, occultati, di lavoro. Il meccanismo di «attrazione di fattispecie aliene nell’ambito della disciplina del lavoro subordinato» avrebbe di fatti il merito di accrescere le tutele per questi lavoratori, la cui autonomia è solo formale. Occorre, infine, rilevare, come la dilatazione dell’impianto privatistico in ambiti genuinamente lavoristici non sia un problema solo di forma poiché l’applicazione dell’autonomia negoziale, a fronte di posizioni giuridiche differenti, perde l’obiettivo di riferimento, con il rischio di trascurare quell’impegno a consentire il pieno sviluppo dell’istanza solidaristica, previsto dal nostro ordinamento, per i lavoratori come ‘soggetti deboli’. Quest’ultima asserzione emerge con riferimento all’affermazione costituzionale del diritto al lavoro che sarebbe scarsamente perseguibile in un’ottica di parità e sinallagmaticità delle parti poiché non più ponderata dall’intervento attivo e riequilibrante del legislatore tramite la disciplina di diritto del lavoro.
6. Conclusioni.
Il fenomeno della gig economy supera la normale dualità del lavoro subordinato-autonomo, poiché si spinge su un’altra dicotomia, quella fra lavoro e rapporto privato fra le parti. In una prospettiva di progresso e garantismo sociale, individuale e collettivo del lavoratore, come persona, appare necessario assicurarsi che «le condizioni dell’esistenza non precipitino mai al di sotto di un certo standard». In questa visione appare doversi osteggiare l’applicazione dell’impostazione privatistica ai rapporti di lavoro e, pertanto, essa merita di esser fortemente osteggiata in ragione di quella «accresciuta dignità che riceve lo svolgimento della persona» e «del ruolo attivo dell’individuo» nei confronti della società, che detiene il compito istituzionale di rimuovere «quei fattori che storicamente sono stati discriminanti», poiché rilevare e superare le disparità di fatto è un altro impegno cui è chiamata a dare risposta l’esperienza del diritto del lavoro, coerentemente con il dettato costituzionale. Questi elementi rischiano di proliferare incontrollati se delegati all’autonomia contrattuale di parti che non risultano così libere, paritarie e autonome, sia economicamente che giuridicamente, rispetto a come appaiono formalmente, sul piano sostanziale.
L’asimmetria di potere informativo e contrattuale, annessa alla presenza di una forza lavoro disponibile sette giorni su sette e per ventiquattro ore al giorno, come una delle conseguenze dirette della ‘privatizzazione’ dei rapporti di lavoro, ha condotto la più attenta dottrina a parlare di «vita messa al lavoro» e di «impossibilità di distinguere tempi di lavoro e di riposo». Ed è proprio in relazione a questi fenomeni che si esplica la necessità di interrogarsi sulla gravitazione nell’economia digitale di status giuridici che mostrano le contraddizioni di una veste formale privatistica, ma di un rapporto sostanziale riconducibile all’area della subordinazione.
Merita, inoltre e in chiusura, menzionare le parole-monito lasciateci alla memoria da G. Giugni sulla tendenza alla c.d. burocratizzazione del rapporto di lavoro, che sembra realizzare unicamente il risultato di «un terreno neutro, che sarà il terreno del governo giudiziale del rapporto di lavoro».