Testo Integrale con note e bibliografia

Testo della sentenza

Abstract
The essay analyzes some of the changes that we commonly label “sharing economy”, with particular respect to the “gig economy” , corresponding to the so named – depending on the case – “work on demand via app” or “crowdwork”.
In the first part of the study, the author focuses on its implications on competition law, regarding the Italian legislation and case law as well as the position of the European Court of Justice. The analysis, completed by the comparison with other European countries’ case law, shows that the mere existence of a platform that enables service providers to connect with their clients does not justify the disapplication of the legislation that regulates a particular service. Otherwise, the behavior of the platform would be qualified as unfair competition.
In the second part, the author moves on the questions concerning labor law and workers protection. In case the platform is conceived as the one which organizes and profits from a certain service – that is, an economic subject (that must apply the law as all other employers do) and not a mere marketplace – this might imply the application of labor law protections. The problem is often to prove before the Court that the parties established a stable working relationship, which puts the one who provides the service (required via app) under the authority of the platform. The author shows how the different legal systems may comply with the difficulties to define the employment relationships in the contest of the current digital era.

1.«Marketplace-like platforms»: luoghi d’incontro fra utenti delle communities. – 2. Piattaforme e regole del mercato: il divieto di concorrenza sleale. – 2.1. Il caso italiano. – 2.2. Il quadro europeo e comparato. – 3. L’esercizio del potere dietro lo “schermo” della community digitale. Alcuni problemi applicativi della disciplina lavoristica. – 3.1. I poteri della piattaforma. – 3.2. Gli utenti-prestatori come lavoratori – 4. Conclusioni.

 

1. «Marketplace-like platforms»: luoghi d’incontro fra utenti delle communities

«Guida quando vuoi tu. Cerca le opportunità di guadagno nelle vicinanze» : la pagina internet della nota multinazionale “Uber” si rivolge in questi termini ai potenziali autisti della comunità digitale, idealmente composta dagli utenti – clienti e guidatori – iscritti alla piattaforma. Analogamente, sul sito di “Deliveroo” si legge che gli eventuali “riders” potranno esercitare liberamente l’attività di consegna a domicilio, programmando il proprio tempo in anticipo ; così come “Foodora”, società che presta sul mercato servizi simili, presenta la piattaforma come uno strumento utilizzabile per combinare possibilità di guadagno e piacere di muoversi in bicicletta .
Gli esempi potrebbero continuare, ed includere non solo servizi di trasporto o consegna a domicilio, ma anche l’esecuzione di prestazioni di vario genere (ad es., “TaskRabbit”) . Nella sua complessità, le varie opzioni offerte dalla gig o on demand economy – l’economia dei lavoretti su richiesta del cliente – sono parte dell’articolato scenario in cui si va sviluppando la sharing economy , una modalità di produzione della ricchezza che si caratterizza per la contemporanea presenza di alcuni elementi (non tutti propri esclusivamente della stessa, c.d. economia della condivisione): la creazione di mercati digitali per lo scambio di beni e servizi; la tendenza a sfruttare qualsivoglia potenzialità economica delle attività umane; la centralità assunta dalla rete di contatti, o comunità digitale; la difficoltà di distinguere in modo netto le posizioni di cliente e prestatore all’interno della stessa; l’indeterminatezza della separazione fra lavoro dipendente e autonomo .
Nella generalità dei casi, comunque, ogni piattaforma di “work on demand via app” (o anche, spesso, di “crowdwork”) asserisce di consistere «puramente in un’applicazione informatica» atta a favorire l’incontro fra domanda e offerta di servizi; questi ultimi sarebbero realizzati liberamente, previa accettazione della richiesta sull’apposita app , «dagli utenti riuniti in un gruppo chiuso definito community» . D’altra parte, in quanto membri di tale comunità, e non dipendenti della piattaforma, i prestatori normalmente adoperano mezzi propri, non godono di alcun rimborso per le spese sostenute, né dei trattamenti economici tipici del lavoro dipendente, della tutela previdenziale, o delle garanzie in materia di salute e sicurezza. Costoro sarebbero, in definitiva, niente altro che microimprenditori di se stessi , agevolati dall’utilizzo della piattaforma come “mercato” digitale e niente affatto diretti dalla stessa .
Per citare a questo proposito un esempio fra i più noti , si consideri che, nel corso delle vicende giudiziarie che hanno interessato Uber, tale piattaforma si è descritta come un sistema di pura intermediazione fra domanda e offerta di servizi di trasporto urbano di persone (v. infra, par. 2). Secondo la difesa della società californiana, non si tratterebbe di un gestore di un determinato servizio di taxi o noleggio con conducente, bensì di un «marketplace» nel quale le persone possono liberamente accordarsi sullo svolgimento di una prestazione le une in favore delle altre .
Muovendo dal caso Uber come prototipo di una molteplicità di applicazioni similari , è possibile osservare l’economia on demand via app da un particolare angolo visuale, fra i moltissimi adottati ed adottabili, e domandarsi quali siano le implicazioni giuridiche di un soggetto economico che si configura non come tale, ma come una piattaforma “marketplace-like” . In altre parole, ci si può domandare se la piattaforma sia sempre e comunque un luogo neutro d’incontro fra soggetti economici o un sistema che cerca di neutralizzare le regole che sovraintendono il funzionamento dei mercati e della produzione di ricchezza.
Nel rispondere a tale interrogativo, due sono i profili da prendere in considerazione in prima battuta, se non altro per la rispettiva rilevanza economica e sociale.
Da un lato, le regole della concorrenza. Infatti, le descritte piattaforme, oltre ad indurre un abbassamento degli introiti per gli operatori tradizionalmente presenti nel settore, per evidenti ragioni di maggiore rapidità e trasparenza degli scambi , potrebbero costituire meccanismi capaci di una sistematica violazione delle discipline di legge che, in vari ordinamenti, vietano la concorrenza sleale. Ciò si può verificare qualora la legge imponga il rispetto di determinati standard qualitativi e autorizzativi agli operatori di un determinato settore: le piattaforme potrebbero essere escluse dal novero dei soggetti obbligati, se si accetta l’idea che esse non fornirebbero, di per sé, alcun servizio (v. infra, par. n. 2.).
Dall’altro, gli obblighi e i costi legati all’applicazione della disciplina lavoristica: dalla qualificazione del rapporto fra utenti-prestatori e piattaforma come rapporto di lavoro (subordinato o meno) potrebbe discendere una serie di obblighi e di oneri economici . Occorre pertanto stabilire – verificato che il surplus di ricchezza goduto dalle piattaforme deriva (anche) dallo sfruttamento di una forza lavoro adoperata al di fuori dagli schemi tradizionali – se sussistano strumenti per ricondurre il lavoro su piattaforma all’interno delle relazioni contrattuali regolate dal diritto del lavoro (v. infra, par. n. 3).

 

2. Piattaforme e regole del mercato: il divieto di concorrenza sleale

2.1. Il caso italiano

Come premesso, uno dei problemi posti dai nuovi mercati, consistenti in piattaforme digitali, è quello del rispetto delle regole interne al mercato stesso.
Nell’ordinamento italiano, l’art. 2598, comma 3, c.c., stabilisce, con una clausola generale, che siano qualificabili come concorrenza sleale – pertanto, vietati – tutti i comportamenti di chi si avvalga di mezzi direttamente o indirettamente non conformi ai principi della correttezza professionale e idonei a danneggiare l’attività economica altrui. Secondo l’interpretazione dominante – per quanto qui interessa in relazione all’economia delle piattaforme – si può avere una violazione dei principi posti a tutela della concorrenza ogni qualvolta, in base ad una valutazione da compiersi caso per caso , la violazione di norme atte a regolare una determinata attività si risolva in un vantaggio economico , tale da danneggiare i soggetti concorrenti sul medesimo mercato di beni o servizi .
Recentemente, in alcune città italiane i soggetti rappresentativi dei tassisti locali hanno promosso procedimenti cautelari ex art. 700 c.p.c. contro la società Uber International Holding BV per violazione dell’art. 2598, comma 3, c.c.
I comportamenti di concorrenza sleale, vietati dalla norma, sarebbero stati ravvisabili nell’illegittimo vantaggio economico derivante dal mancato rispetto delle disposizioni dettate in materia di trasporto pubblico non di linea dalla l. n. 21/1992, disciplina che subordina l’esercizio del servizio di taxi per trasporto di persone al possesso di un’apposita licenza (ottenibile in base a svariati requisiti previsti dalla legge) fornita dell’amministrazione comunale, ente responsabile altresì della fissazione delle tariffe .
Da ultimo, il Tribunale di Torino ha ritenuto, in relazione al servizio offerto da Uber Pop , che, poiché la società non si limita a fungere da intermediario digitale, ma dirige, invece, l’organizzazione dei servizi di trasporto non di linea con scopo di lucro, essa si ponga in concorrenza con i fornitori del servizio di radio taxi, in relazione alla medesima utenza. Inoltre, il fatto di violare la disciplina pubblicistica ha comportato, a parere del giudice, un risparmio di costi tale (sia per la mancanza delle necessarie autorizzazioni che per il non rispetto delle tariffe comunali e delle regole fiscali italiane) da indurre un abbassamento dei prezzi significativo e da costituire condotta di concorrenza sleale.
A proposito dell’omogeneità della clientela, elemento essenziale per considerare i servizi in concorrenza fra loro, si osserva che la difesa della società sosteneva che il servizio prestato dai guidatori iscritti a Uber Pop non si rivolgesse a un’utenza indifferenziata, ma a una community creata ad hoc, in quanto la piattaforma sarebbe stata un servizio di matching e di condivisione di mezzi di trasporto privato. A supporto di tale ricostruzione, gli “occasionali” guidatori sarebbero figurati come liberi utenti della community, in grado di attivare o meno la app, così come di accettare o rifiutare le richieste; la società si sarebbe poi limitata ad incassare gli importi e versarli sul conto del guidatore, trattenendo una quota dovuta per descritto servizio digitale.
Diversamente, il giudice torinese ha ritenuto che Uber offra un servizio di trasporto pubblico non di linea, perché, a prescindere dal meccanismo con cui avviene la richiesta, che passa per l’iscrizione alla community (anziché per il più classico – del tutto equivalente – ricorso a personale addetto alle telefonate), Uber provvede al trasporto a fronte del pagamento di un corrispettivo in danaro a chiunque lo richieda. Pertanto, non si differenzia dai servizi di radio taxi e coinvolge la medesima utenza. Completa il ragionamento la considerazione che i guidatori siano selezionati a seguito di una determinata procedura e che la società organizzi le condizioni economiche e materiali del servizio, oltre che supervisionare l’attività degli autisti mediante il gradimento da questi ottenuto presso l’utenza, riservandosi la facoltà, nel caso esso sia scarso, di escluderli dalla piattaforma.
Ciò che più interessa della pronuncia, il cui ragionamento è peraltro simile a quanto già espresso dal Tribunale di Milano due anni prima , sono i passaggi con cui si disconosce l’esistenza di una qualsivoglia comunità specifica atta alla condivisione di determinate risorse – caratteristica, ad esempio, dei servizi di car sharing – e l’affermazione che Uber è «l’organizzatore, il gestore, la causa ed il mezzo attraverso cui l’autista pone in essere la sua prestazione».
C’è da dire, rispetto a questo scenario, che un altro modo per impostare il problema sarebbe domandarsi se il servizio offerto dalla società – posto che non è riconducibile alla mera intermediazione – debba intendersi di trasporto pubblico o privato. Infatti, se è chiaro che legge n. 21/1992 si riferisce alla prima ipotesi, non è però stato definito in modo esplicito se il servizio offerto da Uber rappresenti una forma di trasporto pubblico; ciò è da intendere, si badi, non nel senso di servizio svolto da un soggetto pubblico, bensì (come per il noleggio con conducente) di trasporto destinato al pubblico ed a soddisfare interessi della collettività (sebbene svolto da un privato) . Ad avviso di chi scrive, la qualificazione in tal senso non è problematica; può esserlo, semmai, l’ormai datata disciplina autorizzatoria cui soggiacciono i servizi pubblici di trasporto, che a detta di molti – comprese l’Autorità garante per la concorrenza e per il mercato, l’Autorità di Regolazione dei Trasporti e la Corte costituzionale – meriterebbe di essere modificata ed adeguata alla realtà economica, tecnologica e sociale odierna .
Il che non sposta, comunque, i termini della questione rispetto alla violazione del divieto di concorrenza sleale, quali che siano i contenuti della disciplina cui i fornitori di un servizio urbano di trasporto – organizzato o meno tramite piattaforma elettronica – debbano (o dovranno, nell’ipotesi di un intervento legislativo) fare riferimento.

2.2. Il quadro europeo e comparato

Vale la pena sottolineare come, più in generale, numerosi ordinamenti europei abbiano affrontato lo stesso problema di tutela della concorrenza in relazione ai servizi di trasporto, giungendo a conclusioni sostanzialmente analoghe: in Francia il Conseil constitutionnel ha precisato che le sanzioni che vietano l’esercizio di un’attività di trasporto di passeggeri senza rispettare le regole previste dalla legge in materia di trasporto sono conformi alla Costituzione ; in Germania, successivamente a varie pronunce che ordinavano la sospensione dell’attività, Uber ha iniziato ad uniformarsi alle regole dei trasporti ; in Belgio e Olanda il servizio è stato vietato .
In tale contesto, la Corte di giustizia è stata chiamata a pronunciarsi su quattro casi in cui la questione verteva sulla qualificazione del servizio offerto dalla società, uno dei quali (belga) giudicato irricevibile e due tuttora pendenti (tedesco e francese) ; il quarto (spagnolo) è stato invece deciso dalla Corte.
In modo non dissimile da quanto osservato dal Tribunale torinese, la Corte di Giustizia ha statuito che un servizio come quello offerto da Uber non si risolva semplicemente in un’attività di intermediazione, poiché il soggetto che la svolge è allo stesso tempo colui che offre ed organizza il servizio di trasporto, reso accessibile tramite l’applicazione (punto 37 della decisione).
All’origine di tale pronuncia vi era stata un’associazione professionale di tassisti della città di Barcellona, Elite Taxi, che aveva presentato ricorso (presso il Juzgado de lo Mercantil di Barcellona) chiedendo di accertare che le attività poste in essere da Uber violassero la regolamentazione vigente (per la mancanza delle autorizzazioni dovute ai sensi del regolamento dei servizi taxi della città, emesso il 22 luglio 2004) e costituissero, pertanto, condotte di concorrenza sleale in base alla legge spagnola (l. n. 3/1991).
Per stabilire se la società Uber fosse tenuta al rispetto della disciplina dettata in materia di trasporto – ipotesi per cui l’art. 58 TFUE consente agli Stati membri di prevedere restrizioni rispetto al principio della libera prestazione dei servizi (di cui al precedente art. 56 TFUE) – occorreva qualificare il tipo di servizio offerto da Uber sul mercato . Il giudice del rinvio, pertanto, doveva rispondere alla domanda se l’art. 56 TFUE, letto congiuntamente alle direttive 2006/123 (c.d. direttiva Bolkestein), 98/34 e 2000/31, dovesse essere interpretato nel senso che un servizio come quello offerto da Uber potesse qualificarsi come di trasporto e ricadere, pertanto, nell’eccezione prevista dall’art. 58 TFUE.
Infatti, poiché la regolamentazione dei servizi di trasporto, in mancanza di regole comuni ex art. 91 TFUE, spetta ai singoli Stati membri, tale settore è escluso dal campo di applicazione della direttiva 2006/123/CE, che ha liberalizzato i servizi del mercato interno in attuazione dell’art. 56 TFUE. Quanto ai servizi di intermediazione elettronica, ad essi si applicano tanto quest’ultima direttiva quanto la predetta dir. 2000/31/CE, entrambe volte ad arginare la facoltà degli Stati membri di predisporre regimi autorizzativi o comunque di limitare la circolazione dei servizi della società dell’informazione.
Secondo le conclusioni dell’Avvocato Generale (Maciej Szpunzar, 11 maggio 2017), né l’attività di Uber si risolve principalmente nel matching elettronico fra cliente e autista, né tale elemento assume un valore economico autonomo rispetto al sevizio di trasporto, che rappresenta il vero asset dominante .
Seguendo l’orientamento espresso dall’AG, la decisione della Corte si è fondata in larga misura sulla circostanza che «il servizio d’intermediazione della Uber si basa sulla selezione di conducenti non professionisti» (punto 39 della decisione), che utilizzano il proprio veicolo, e ai quali tale società fornisce un’applicazione essenziale all’incontro fra guidatori e clienti, nonché per la gestione del servizio: è emerso che mediante la app «la Uber fissa (…) il prezzo massimo della corsa, che tale società riceve tale somma dal cliente prima di versarne una parte al conducente non professionista del veicolo e che essa esercita un determinato controllo sulla qualità dei veicoli e dei loro conducenti nonché sul comportamento di questi ultimi, che può portare, se del caso, alla loro esclusione» (punto 39).
È un servizio di trasporto, e non di intermediazione, insomma, perché coordina, controlla e disciplina il comportamento degli autisti. In effetti, il ragionamento porta spontaneamente a domandarsi – questione approfondita nel paragrafo seguente – se, più che agevolare l’autonoma “employability” , Uber utilizzi (seppur in modo peculiare) forza lavoro dipendente.

 

3. L’esercizio del potere dietro lo “schermo” della community digitale. Alcuni problemi applicativi della disciplina lavoristica

3.1. I poteri della piattaforma

Proprio l’esercizio del potere di controllo nella gestione di servizi come quello offerto da Uber inducono ad interrogarsi sulla qualificazione della piattaforma come datore di lavoro nonché, parallelamente, su quella dei guidatori come dipendenti della stessa .
E chiaro come uno dei principali problemi d’inquadramento legati alla recente evoluzione tecnologica sia la «diversificazione dei lavori e la difficoltà di individuare criteri distintivi adeguati» . Posto che «in realtà i lavori su piattaforma digitale presentano caratteri diversi anche nelle relazioni tra loro e nel grado di dipendenza o di autonomia rispetto alla piattaforma» , non è possibile descrivere la relazione fra quest’ultima e i prestatori in modo unitario.
Diversi sono i modelli di business presenti sul mercato, diverse sono le interazioni fra utenti-prestatori e piattaforme digitali, anche all’interno di ciascuno di essi . L’interprete, pertanto, non potrà che adoperare una logica casistica; nel farlo, perché sia possibile identificare la capacità della piattaforma di “dominare” (dirigere o perlomeno eteroorganizzare) l’esecuzione della prestazione, dovrà sforzarsi di prescindere dal filtro della community e della tecnologia digitale , ossia dalla circostanza di «trasferire a un algoritmo il ruolo di datore di lavoro, o almeno alcune funzioni di esso» .
Per queste ragioni, alcuni autori hanno opportunamente sottolineato che «il funzionamento delle piattaforme di trasporto solleva notevoli problemi se analizzato attraverso la tradizionale lente (contrattuale) del diritto del lavoro» , in specie perché, come già evidenziato in precedenza (v. supra, par. n. 2), dette piattaforme si pongono come intermediari estranei alla relazione fra cliente e utente che svolge il servizio, ossia come soggetti che non entrano in contatto con la prestazione. Tuttavia, gli stessi autori hanno altresì proposto un approccio “funzionale” al problema, partendo dall’identificazione, appunto, delle funzioni caratteristiche della figura datoriale – stipulare e risolvere il contratto di lavoro; ricevere la prestazione; rendere possibile l’adempimento; retribuire il prestatore; gestire e controllare l’organizzazione del lavoro ; sopportare il rischio d’impresa – e riscontrandone la sussistenza nelle modalità operative di varie tipologie di piattaforme . Applicando lo schema all’esempio fornito dal caso esemplare rappresentato dalla piattaforma Uber, quest’ultima sembrerebbe cumulare tutte le citate funzioni: la sua formale “assenza” rispetto al rapporto fra cliente e guidatore non esclude affatto che, in realtà, essa gestisca la relazione contrattuale con gli utenti-prestatori disponendo di poteri analoghi a quelli di ogni (altro) datore di lavoro .
A margine di questa categorizzazione, utile e condivisibile, preme però osservare che nel passaggio dall’individuazione di tale sfera di poteri alla qualificazione dei rapporti fra utenti e piattaforme in termini lavoristici sorgono almeno due problemi.
Per un verso, occorre stabilire se la relazione contrattuale fra utente-prestatore e piattaforma sia tale da obbligare le parti, reciprocamente, a offrire e svolgere la prestazione in modo stabile; mancando tale corrispettività, in effetti, sembra difficile inquadrare la relazione contrattuale fra le parti come un rapporto di durata. Il primo problema è quindi stabilire se vi sia, contrariamente alle apparenze, una relazione negoziale di durata fra le parti, e non solo la fornitura di un servizio digitale da parte di una piattaforma estranea alle transazioni con i clienti.
Per l’altro, non sembra che l’assunzione del rischio d’impresa possa rientrare fra gli elementi definitori, rappresentando più un corollario che un requisito. Infatti, sebbene si convenga che non è corretto confondere la possibilità per il prestatore di lavorare (sempre) più ore e di mettere a disposizione il proprio mezzo con l’esistenza di una qualsivoglia capacità manageriale in capo allo stesso (la quale ne giustificherebbe una descrizione in termini di “microimprenditore di se stesso”), è vero altresì che la caratteristica del lavoro on demand via app, per cui il prestatore formalmente decide quanto lavorare ed adopera mezzi propri nell’esecuzione della prestazione, riesce a segnare due punti con un colpo solo: allontana la possibilità di qualificare il rapporto di lavoro come subordinato e sposta sul prestatore costi e rischi che, nelle attività economiche di tipo tradizionale, graverebbero sull’imprenditore .
Il modello di business realizzato da Uber, non a caso descritto da molti come «il più spregiudicato» , non crea forse «nulla di nuovo» . Piuttosto, si converrà che la classica questione sottostante al lavoro “falsamente autonomo” trova terreno fertile nel nuovo contesto digitale, in cui si rende più semplice l’esclusione dell’allocazione tradizionale del rischio e dei doveri fra le parti a tutto svantaggio del contraente dipendente (perlomeno in senso economico ) dalla piattaforma, senza che a ciò si accompagni, per quest’ultimo, alcuna reale autonomia nella gestione del rapporto . Il secondo problema è quindi quello di definire come si configuri la relazione contrattuale fra le parti: vale a dire, muoversi sul terreno della distinzione fra autonomia e subordinazione.
Una volta riconosciuto che la piattaforma non è un mercato, ma il gestore di un servizio, tutto sta, in altre parole, nello stabilire se essa sia committente di prestatori autonomi o datore di lavoratori subordinati . Come si avrà modo di approfondire in seguito (v. amplius, infra, par. n. 3.2.), a seconda delle condizioni di contratto stipulate fra i componenti delle communities, è possibile che le piattaforme esercitino, in certi casi, veri e propri poteri di direzione (da cui la corrispondente subordinazione del prestatore ex art. 2094 c.c.) o comunque di eteroorganizzazione della prestazione (art. 2, comma 1, d.lgs. n. 81/2015) .

 

3.2. Gli utenti-prestatori come lavoratori

Se in certi casi è possibile ravvisare, nel modo in cui la piattaforma gestisce un determinato servizio offerto al pubblico (formalmente, alla community), l’esercizio di prerogative tipicamente datoriali (direzione, controllo e disciplina), l’altra faccia della medaglia è l’esistenza di un insieme di obblighi giuridici tale da escludere che la relazione contrattuale fra utente-prestatore e piattaforma sia descrivibile in termini di saltuario e paritario incontro fra independent contractors.
Il che potrebbe condurre, perlomeno nell’ordinamento italiano, ad una serie di scenari differenti. Ove ne risultasse un rapporto di subordinazione, si aprirebbe, com’è evidente, la «porta» di accesso all’applicazione della disciplina posta a tutela del lavoro subordinato . Dopo la riforma intervenuta con il Jobs Act, nel caso in cui fosse ravvisabile perlomeno un’eteroorganizzazione del lavoro (esclusivamente personale), si potrebbe comunque pervenire all’applicazione di tale disciplina a sensi dell’art. 2, d.lgs. n. 81/2015 (salve le ipotesi eventualmente escluse dalla contrattazione collettiva); infine, ove si riscontrasse il mero coordinamento di una collaborazione continuata, si dovrebbe far riferimento alle collaborazioni coordinate e continuative, identificate dall’art. 409 c.p.c. e costituenti un’ipotesi di lavoro autonomo, benché descrivibile come “parasubordinato” .
La qualificazione in termini di lavoro subordinato è possibile, notoriamente, solo nel caso in cui il servizio offerto dall’utente-prestatore sia effettivamente eterodiretto dalla piattaforma, in modo da garantire al datore non tanto un risultato quanto la possibilità di coordinare il servizio offerto e di obbligare il prestatore a conformarsi all’organizzazione datoriale .
A questo proposito, si può forse osservare che, sa un lato, il metodo sussuntivo (per la riconduzione al lavoro subordinato) può essere di difficile impiego pratico-interpretativo, per l’evidente difficoltà di provare l’esistenza dell’eterodirezione da parte di un soggetto, la piattaforma, che si atteggia da (fino a prova contraria, lo potrebbe essere) estraneo rispetto all’esecuzione della prestazione; dall’altro, neppure quello tipologico sembra risolvere il problema . Adoperando gli indici di subordinazione classici, quali orario di lavoro, proprietà del mezzo, abbigliamento indicante la ditta etc., si finirebbe per usare proprio quegli elementi che molte piattaforme escludono esplicitamente, ad arte, dal proprio modello organizzativo, attente come sono – in questo agevolate dal nuovo scenario tecnologico – a evitare precisamente, ad esempio, che la proprietà del mezzo, l’abbigliamento o gli orari dei conducenti possano ricondurre alla qualificazione in termini di lavoro subordinato .
Viceversa, l’identificazione di un potere di coordinamento e direzione dell’attività da parte della piattaforma potrebbe prescindere da tali estrinsecazioni e dipendere da altri indici, in quanto è ben possibile che ciò si realizzi anche con modalità differenti da quelle adoperate nell’organizzazione del lavoro tradizionale. Nel caso di Uber, a prescindere dal possesso del mezzo e dall’uso della app per accettare le corse, il fatto che il conducente segua un percorso predeterminato dall’algoritmo e che il servizio di trasporto sia sottoposto al controllo del Gps e del rating potrebbero indurre a ritenere che vi sia un sufficiente grado di coordinamento dell’attività da parte della piattaforma; ciò tanto più in un contesto socio-economico nel quale si va delineando un certo «superamento della concezione classica di lavoratore come subalterno alla tecnica e alla conoscenza imprenditoriale» per il lavoro subordinato in generale.
Ciò che viene normalmente obiettato a questo proposito è che le facoltà di accettazione della corsa o di disconnessione escluderebbero l’assunzione di obblighi assimilabili a quelli della subordinazione vera e propria (ma non è detto che questo valga anche, si potrebbe supporre, per l’eteroorganizzazione ). Tuttavia, è innegabile che, ove vi sia un obbligo di accettazione della maggioranza delle corse (80% per Uber, come visto sopra), con possibilità di esclusione dei conducenti dalla piattaforma in ragione anche della disponibilità mostrata dagli stessi, diventa forse sofistico riferirsi alla libertà della parte: ragionando per assurdo, anche il lavoratore subordinato può ben rifiutare l’esecuzione della prestazione e rischiare il proprio licenziamento.
Proprio l’obbligo di disponibilità degli autisti, assieme alla considerazione che questi non contrattano le condizioni della corsa con il cliente, ha portato l’Employment Tribunal of London, in una decisione confermata dall’Employment Appeal Tribunal a qualificarli come workers ai sensi dell’art. 230, 3, b, Employment Right Act, ritenendo che costoro forniscano il lavoro attraverso cui l’organizzazione eroga i propri servizi e guadagna i propri profitti (punto 92 della decisione) e che l’obbligo di accettare la maggioranza delle corse, essenziale ai fini del funzionamento dell’attività di Uber (punto 121), identifichi un vincolo giuridico fra le parti più intenso di quanto non avvenga con gli zero hours contracts .
Nel caso inglese, l’esistenza della categoria dei workers, distinta da quella degli employees (lavoratori subordinati), ha consentito l’applicazione di alcune garanzie minime in materia di salario e orario di lavoro, senza dover affrontare la difficile prova della subordinazione. In base al diritto inglese – per semplificare – l’employee si obbliga a svolgere personalmente la prestazione, sotto stretto controllo del datore e in un contesto di mutuality per cui il datore si obbliga a domandare il lavoro e il lavoratore a prestarlo. Quest’ultimo elemento è quello che manca, normalmente, nel caso dei “casual workers” e che, per inciso, potrebbe rendere difficile la qualificazione del rapporto negli ordinamenti che non contemplano una categoria intermedia come quella dei workers .
Vero è anche che non sempre i giudici nazionali ravvisano ipotesi di lavoro subordinato nel lavoro su piattaforma, anche perché molto dipende dalle condizioni generali del contratto, differenti caso per caso, dalla capacità delle parti di descrivere efficacemente la realtà dei fatti e dalla sensibilità degli operatori del diritto al mutato contesto economico, tecnologico e sociale .
In molti casi, colui che presta un servizio via app deve autoimporsi un’aderenza stringente alle indicazioni della piattaforma, se intende assicurarsi di continuare a far parte della community o comunque di ricevere commesse in modo stabile, benché formalmente non sia tenuto ad accettarle e benché la piattaforma non si impegni esplicitamente ad offrirle. Se il prestatore svolge i servizi richiesti a queste condizioni, ciò verosimilmente lo impegnerà sul piano umano e sociale a tal punto da far sì che dalla relazione con la piattaforma scaturisca la propria fonte di guadagno principale, oltre a legarlo continuativamente alle esigenze e alle mutevoli condizioni del mercato in cui opera la app . Circostanza che, similmente a quanto osservato in passato in relazione al falso lavoro autonomo , potrebbe generare una situazione di dipendenza forse ancora più estrema di quanto non avvenga per un normale lavoratore subordinato, per due motivi.
In primo luogo, perché lasciata puramente e semplicemente alla dipendenza di fatto di una parte nei confronti dell’altra: dipendenza che, però, non assume di per sé rilievo giuridico e alla quale non corrispondono limiti sul grado di “influenza” che la piattaforma può esercitare sul prestatore. Secondariamente, perché slegata dall’apparato di oneri e costi tipici del lavoro subordinato, circostanza che rende ancora più precaria l’esistenza, anche sul piano economico, del prestatore impiegato nel contesto della gig economy.
Nella giurisprudenza d’oltre oceano, esposta da più tempo a tali trasformazioni, ai tradizionali indici del control test – che tendono ad identificare un rapporto subordinato (spesso con esiti opposti in situazioni analoghe) qualora il datore dia ordini, pianifichi il lavoro nei particolari e controlli i dipendenti – si sono via via aggiunte considerazioni relative alla realtà economica sottostante le relazioni contrattuali, nonché alla necessità che vi sia un minimo di faireness nel riconoscere che, al di là delle condizioni contrattuali espresse formalmente, nei fatti, «una data persona è dipendente da un’altra» .
Resta una questione aperta se e in che misura, per l’ordinamento italiano, si debba ritenere ravvisabile una relazione di lavoro subordinato, o perlomeno eteroorganizzato, nel caso di quel lavoro via app che induce una parte a fare il necessario per il buon funzionamento dell’organizzazione altrui, nella speranza che dal profitto della piattaforma segua la stabilità della propria “collaborazione” con la medesima – cioè, formalmente, della propria permanenza nella community.

 

4. Conclusioni

La possibilità che l’incontro fra domanda e offerta di servizi possa avvenire direttamente fra cliente e prestatore online, da un certo punto di vista, non inventa nulla di nuovo, nella misura in cui è nella natura dei servizi alla persona il fatto di poter essere svolti da un lavoratore subordinato o autonomo, occasionalmente o stabilmente, nonché addirittura per ragioni non lucrative.
Tuttavia, l’economy on demand si basa su una novità non da poco: che piattaforme apparentemente estranee alla prestazione organizzino – a scopo di lucro – l’incontro tra domanda e offerta, in modo tale da garantire la continuità del servizio, se non del rapporto con i singoli utenti.
Proprio il profilo organizzativo del servizio è quello che ha consentito alla giurisprudenza di considerare piattaforme come Uber soggetti economici tenuti al rispetto delle regole che disciplinano i servizi in parola e di quelle che vietano comportamenti di concorrenza sleale.
In definitiva, è necessario affinare i criteri interpretativi volti a scongiurare l’esclusione a priori delle piattaforme dal novero dei soggetti obbligati all’applicazione delle regole del mercato e del lavoro, pur nella consapevolezza che l’evoluzione sociale e tecnologica rende altresì necessaria una riflessione più profonda sull’adeguatezza delle normative attuali rispetto alle trasformazioni in atto.

 

 

 

 

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