Testo integrale con note e bibliografia
I RIDERS: UNA RICERCA DI CARATTERE RICOGNITIVO
La gig economy, è noto, definisce in maniera non sempre chiara qualcosa che ha a che vedere con un lavoro basato sulla flessibilità e sull’autonomia. In Italia li chiamano spesso “lavoretti”. Il tipico esempio è quello dei riders, coloro che fanno generalmente consegne alimentari utilizzando la propria bicicletta, soprattutto nelle grandi città. In pochi anni sono diventati un piccolo esercito, fino a cambiare la mobilità e perfino l’arredo urbano, quando sostano a volte per ore nei loro luoghi di ritrovo, aspettando una chiamata che arriva quando arriva, e quando arriva bisogna correre, perché l’algoritmo non dà tregua, e se non si è lesti ti mette in ultima posizione, e allora le chiamate si fanno sempre più rade.
Lavorano per Deliveroo, la più grande tra le multinazionali che gestiscono questo servizio, per la spagnola Glovo, che arriva fino in Sicilia, per Just Eat, Uber Eats, Foodora (ora acquisita da Glovo) e Moovenda, l’ultima arrivata, ma anche per piccoli ristoratori e pizzerie sparse sul territorio metropolitano. Il luogo comune che li circonda è che siano di solito studenti, spesso fuori sede, che arrotondano le loro entrate svolgendo qualche saltuaria consegna. Secondo la piattaforma inglese Deliveroo, una delle più importanti anche nel nostro paese, i loro oltre 5mila riders affiliati sono per oltre due terzi italiani e vengono impiegati in media per circa 13 ore alle settimana, con un altissimo livello di soddisfazione. Dati questi ultimi provenienti dalle loro periodiche indagini interne, brevemente presentate durante l’incontro tenutosi a Milano un mesetto fa con l’Assessorato al lavoro.
Oggi sappiamo qualcosa di più, quanto meno sulla situazione esistente nel capoluogo lombardo, grazie a una ricerca del dipartimento di Studi Sociali e Politici dell’Università degli Studi di Milano, coordinata da chi scrive insieme a Luciano Fasano, i cui principali risultati sono qui allegati. Forse il primo studio effettuato in Europa andando ad intervistare un campione significativo di quasi 250 riders milanesi, intervistati personalmente (“face-to-face”) da 25 studenti dell’ateneo, che li hanno incontrati nei loro “luoghi di lavoro”, tra le strade di Porta Venezia, davanti alla Stazione Centrale, in Porta Romana, sui Navigli o al Parco Sempione. Tutti gli altri studi sul tema erano infatti condotti tramite sondaggi via web, con le distorsioni tipiche di quel tipo di indagini: auto-selezione del campione, sovra-dimensionamento dei lavoratori italiani, risposte più controllabili dalle piattaforme, e così via.
Per questa come per tutte le (peraltro scarse) analisi effettuate, il vero problema risiede nella rappresentatività statistica dei risultati, in quanto l’universo di riferimento è abbastanza ignoto, non essendo mai stato fatto qualcosa di simile ad un vero censimento. Le voci più accreditate che circolano nella realtà milanese indicano in una numerosità intorno ai tremila individui le stime più probabili, il che significa che il nostro campione dovrebbe essere di poco inferiore al 10% della popolazione dei riders. Ma con il beneficio del dubbio, in attesa di numeri più scientificamente accreditati.
Rispetto alla ricerche eseguite via web, da questa emerge peraltro una situazione quasi opposta a quelle, nonostante la reticenza di molti di loro (soprattutto stranieri) a parlare della propria vita da rider, il che potrebbe far ipotizzare che la realtà sia ancora peggiore di quanto sia emerso. Gli intervistati sono quasi tutti uomini, fatta eccezione per una manciata di studentesse. Sono giovani e giovanissimi (il 23% dai 18 ai 21 anni, un altro 62% dai 22 ai 30), ma nell’85% dei casi non frequentano attualmente né università né licei, il che smentisce l’idea che questa attività sia svolta per arrotondare le proprie entrate. Da ciò che alcuni di loro hanno raccontato, off record, nell’ultimo anno è mezzo è profondamente cambiato l’universo di riferimento del settore: prima c’erano più studenti universitari, che portavano a casa qualche soldo con le consegne. La riduzione del loro numero è stata graduale ma sensibile, ed è dipesa soprattutto dalle scelte dell’algoritmo, che va a premiare chi è costantemente disponibile, oltre che puntuale e apprezzato dai clienti, escludendo di fatto gli studenti impegnati periodicamente negli esami.
L’attività è dunque di fatto incompatibile con altri impegni o mansioni. Viene così svelato ciò che nasconde il grande artificio della cosiddetta gig economy, o economia dei lavoretti. Quello dei rider è un lavoro vero e proprio, e anche parecchio impegnativo, quasi un super-lavoro: il 29% degli intervistati è impegnato per più di 50 ore alla settimana, il 25% tra le 40 e le 50. C’è poco spazio per l’autonomia e chi è troppo “flessibile” viene contattato sempre meno frequentemente.
Non per questo gli inquadramenti contrattuali sono quelli di un lavoratore dipendente. Il 50% dei rider coinvolti è un “libero professionista” forzato, un 12% si dichiara a “partita iva” oppure lavoratore a chiamata, il 9% infine dice di non sapere esattamente qual è la sua situazione. Sono di fatto lavoratori pseudo-autonomi, la loro è una forma di lavoro spot rinnovata attraverso contratti di breve durata e reiterati nel tempo. Non c’è sindacalizzazione, quanto meno non a Milano, dove la ricerca è stata svolta; forse in maggior misura in altri luoghi, dove è più presente un’attività svolta effettivamente da studenti italiani, come ad esempio a Bologna, e dove negli ultimi tempi si sono riaccese le proteste degli operatori del settore. Secondo il parere degli studenti che hanno raccolto le interviste, non di rado ci sono stati episodi di moral hazard, abuso di posizione dominante da parte dei datori di lavoro. Abbiamo avuto notizia di un rider investito mentre attraversava le strisce con la bici a mano, e l’azienda si è rifiutata di offrirgli tutele. In generale le assicurazioni sono inesistenti, se non a carico degli stessi riders, così come nella maggior parte dei casi i contributi.
Per tutti questi motivi la percentuale di italiani tra i rider è crollata nel tempo. Il 34% degli intervistati “milanesi” è nata nel nostro Paese, contro il 40% di persone che provengono dall’Africa e il 15% di asiatici. Ma dato che gli italiani sono più facili da contattare, è verosimile che la reale proporzione sia 80-20 a favore degli stranieri. Si evidenzia poi un dato preoccupante per la possibile interazione che questi lavoratori hanno con i propri datori di lavoro: quasi la metà degli stranieri conosce poco o nulla la nostra lingua, cosa che ovviamente non permette loro né di avere un dialogo con i più inseriti colleghi italiani o con il Comune o chi potrebbe rappresentare i loro interessi (primi fra tutti i sindacati, che in realtà loro “temono”) né di poter difendere i propri interessi in tema assicurativo o di miglioramento qualitativo del proprio lavoro. Inoltre, una parte consistente non vive a Milano, sono pendolari che, magari a notte inoltrata, dopo aver girato tutto il giorno, prendono un treno, oppure usano le loro stesse moto o bici per tornare nell’hinterland o in provincia. Il giorno dopo, di buon ora, sono di nuovo in piedi e si ricomincia, per altre 8 o 10 ore di consegne.
Ecco dunque l’immagine che emerge da questa prima ricerca, che verrà approfondita nei prossimi mesi con ancora altre interviste e da un’analisi qualitativa più in profondità, attraverso le “storie di vita” dei riders milanesi. Dimenticando una gig economy caratterizzata da flessibilità e autonomia nella gestione quotidiana, esce un quadro che, paradossalmente, avvicina queste mansioni all’archeologia industriale di fine Settecento o inizio Ottocento inglese, nel capitalismo nascente, quando lo sfruttamento dei lavoratori con forme contrattuali prive di ogni minima salvaguardia delle condizioni lavorative era prevalente nei rapporti tra il nascente proletariato e la classe padronale. Benvenuti nel nuovo millennio del post-capitalismo.