Testo integrale con note e bibliografia
1. Una norma antielusiva e rimediale? Critica.
Tra le molte, possibili ipotesi ricostruttive della ratio legis riferita all’art. 2, co.1, del d. lgs. 81/2015, la sentenza della Corte di Cassazione del 24 gennaio 2020, n. 1663, ha ritenuto di qualificarla come una norma “anti-elusiva” e “rimediale”.
Tale opzione viene giustificata da una lettura sistematica delle riforme introdotte con il d. lgs. n. 81/2015 in materia di tipologie contrattuali: l’abrogazione del lavoro a progetto e la riespansione delle collaborazioni coordinate e continuative con il ripristino di una più ampia “tipologia contrattuale” ex art. 409, n. 3, c.p.c. avrebbe – secondo la Corte - comportato il rischio di abusi, onde si rendeva necessario “limitare le possibili conseguenze negative, prevedendo comunque l’applicazione della disciplina del rapporto di lavoro subordinato a forme di collaborazione, continuativa e personale, realizzate con l’ingerenza funzionale dell’organizzazione predisposta unilateralmente da chi commissiona la prestazione” (punto 23).
Una volta identificata la ratio anti-fraudolenta e rimediale della norma, l’art. 2 viene concepito come una “norma di disciplina”, onde non avrebbe più senso decisivo “interrogarsi sul se tali forme di collaborazione… siano collocabili nel campo della subordinazione ovvero dell’autonomia” (punto 25). L’affermazione lascia interdetti, sia per l’impiego di termini inconsueti (in particolare quello di “norma di disciplina”, sia per l’affermazione, invero assai problematica nell’ambito di un sistema ancora ordinato per tipi contrattuali, sulla perdita di senso della qualificazione dei rapporti nell’ambito, appunto, delle diverse fattispecie negoziali che compongono l’alfabeto contrattuale del nostro diritto del lavoro.
Analizziamo più da vicino i due concetti chiave di questa ricostruzione. Secondo la Corte in un’ottica “di prevenzione”, il legislatore avrebbe inteso scoraggiare “l’abuso di schermi contrattuali che a ciò si potrebbero prestare”, selezionando “taluni elementi ritenuti sintomatici ed idonei a svelare possibili fenomeni elusivi delle tutele previste per i lavoratori”. In ogni caso il legislatore avrebbe poi “stabilito che quanto l’etero-organizzazione, accompagnata dalla personalità e dalla continuità della prestazione, è marcata al punto da rendere il collaboratore comparabile ad un lavoratore dipendente, si impone una protezione equivalente e, quindi, il rimedio dell’applicazione integrale della disciplina del lavoro subordinato” (punto 26).
In sostanza la Corte individua nella disposizione in esame una scelta di politica legislativa “volta ad assicurare al lavoratore la stessa protezione di cui gode il lavoro subordinato … al fine di tutelare prestatori evidentemente ritenuti in condizione di “debolezza” economica, operanti in una “zona grigia” tra autonomia e subordinazione, ma considerati meritevoli comunque di una tutela omogenea” (punto 27).
2. Segue: l’art. 2, co.1, non si riferisce a una situazione di subordinazione.
La ricostruzione operata dalla Corte appare molto problematica sotto il profilo dogmatico, per l’impiego di cinque “concetti” che vengono con molta disinvoltura impiegati e “mescolati” fra loro nell’argomentazione. I concetti sono i seguenti: norma antielusiva, ottica rimediale, debolezza economica, norma di disciplina, “zona grigia”. Questi concetti sono incoerenti fra loro. Partiamo dalle nozioni di norma antielusiva e di norma rimediale, che sono tra loro strettamente correlati. Una norma “antielusiva” è un disposto volto a contrastare atti diretti ad aggirare obblighi o divieti previsti dall’ordinamento; nel nostro caso non può avere altro significato che indicare una norma finalizzata ad aggirare fraudolentemente la disapplicazione della disciplina, imperativa ed indisponibile, della fattispecie di subordinazione. Quindi, se l’art. 2 fosse una norma antielusiva, l’elusione consisterebbe necessariamente nella disapplicazione delle norme del rapporto di lavoro subordinato a fronte di fattispecie dissimulate di subordinazione. Questa conclusione è strettamente necessaria sotto il profilo logico-giuridico. Infatti, salvo incorrere in una vistosa contraddizione logica, non si potrebbe definire elusione fraudolenta la disapplicazione della disciplina di subordinazione nei confronti di una fattispecie concreta che non è di subordinazione. In sostanza, se l’art. 2, co1., fosse una norma antielusiva (e rimediale) sarebbe finalizzata a contrastare un fenomeno di elusione delle normativa di subordinazione. Ma se così fosse, bisognerebbe ulteriormente logicamente dedurne che l’art. 2 è una norma rimediale che opera qualora si realizzi una fraudolenta disapplicazione della disciplina di subordinazione in casi concreti caratterizzati da indici significativi di subordinazione. Nel caso dell’art. 2, ciò non avviene, perché la norma descrive una “situazione giuridica” sicuramente diversa dalla subordinazione (uso il termine “situazione giuridica” per rispettare, per ora, il pensiero della corte che non ravvisa nell’art. 2 una norma di fattispecie). Che tale “situazione giuridica” non sia di subordinazione si può ricavare da una serie di elementi, che la dottrina ha subito messo in evidenza nell’interpretazione del disposto, e che non intendo qui discutere. Mi limito ad osservare che una corretta postura ricostruttiva, rispettosa del dettato normativo e della sua ratio, identifica le differenze qualitative del potere di organizzazione di cui all’art. 2 rispetto al potere direttivo del datore di lavoro di cui agli artt. 2094 c.c. e 2104 c.c. Solo questa via, basata sul necessario distinguo tra fattispecie di subordinazione e prestazione etero-organizzata dal committente, consente di rispettare al contempo la lettera e la ratio della legge: la lettera, perché l’art. 2, co.1, si fonda sul concetto di organizzazione della modalità esecutiva della prestazione e non su quello di “dipendenza” e di “direzione” ex art. 2094 c.c.; la ratio, perché il disposto non può avere il senso di restringere il campo di applicazione della disciplina del rapporto di lavoro subordinato (realizzando, quindi, un intervento legislativo totalmente privo di costrutto pratico), bensì di ampliare la sfera delle tutele estendendola a favore di prestatori collocati al di fuori del perimetro di subordinazione, tradizionalmente delimitato dalla presenza dell’elemento tipologico del potere direttivo o, in alternativa, dalla sussistenza di indici sussidiari di etero-direzione sufficientemente precisi e concordanti. La Corte, pur non entrando in questo dibattito teorico, svolge una serie di affermazioni da cui si deduce in modo inequivoco che l’art. 2 non è una norma che si riferisce ad una situazione di subordinazione in senso tecnico-giuridico. Difatti la Corte afferma che: 1) non possono escludersi situazioni in cui l’integrale applicazione della disciplina della subordinazione sia “ontologicamente incompatibile” con le fattispecie da regolare ex art 2 “che per definizione non sono comprese nell’ambito dell’art. 2094 c.c.” (punto 41); 2) che il giudice può accertare in concreto la sussistenza di una “vera e propria subordinazione (nella specie esclusa da entrambi i gradi di merito con statuizione non impugnata dai lavoratori”) (punto 42); 3) che, a prescindere dalla possibilità di applicare l’art. 2, non viene meno la possibilità per il giudice di accertare “l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato, secondo i criteri elaborati dalla giurisprudenza in materia” (punto 43); 4) che a fronte degli “indici fattuali ritenuti significativi (personalità, continuità, etero-organizzazione) e sufficienti a giustificare l’applicazione della disciplina dettata per il rapporto di lavoro subordinato” il giudice è esonerato da ulteriori indagini relative alla identificazione di altre fattispecie (punto 24). Tutti questi passaggi argomentativi convergono su un punto focale, e cioè che la norma dell’art. 2 si riferisce ad una “situazione giuridica” non riconducibile a subordinazione.
Ora, se la norma in esame non riflette, nella sua struttura concettuale, una situazione riconducibile alla fattispecie di subordinazione, non può essere definita come norma antielusiva volta a “rimediare” alla violazione/disapplicazione degli effetti imputabili alla fattispecie delineata dall’art. 2094 c.c. Bisogna quindi necessariamente concludere che l’art. 2 non è - contrariamente a quanto ritiene la Corte - una norma antielusiva e rimediale. Per comprendere appieno questa conclusione, giova riferirsi ad una norma effettivamente avente effettivamente valenza rimediale e antielusiva, vale a dire l’art. 69 del d. lgs. 276/2003 in materia di lavoro a progetto. In quel caso, a fronte della mancanza di uno specifico progetto, l’ordinamento disponeva la conversione del relativo contratto in un rapporto di lavoro subordinato (co. 1), e così nel caso in cui il rapporto instaurato ai sensi dell’art. 61 (lavoro a progetto) avesse configurato un rapporto di lavoro subordinato (co.2). Il presupposto logico di tale norma consisteva in ciò che, una volta verificata la mancanza del progetto specifico, la prestazione cessava di essere di lavoro autonomo e veniva riqualificata nei termini della subordinazione. La struttura della norma era chiaramente antielusiva, nella misura in cui il committente, attraverso un contratto di lavoro formalmente autonomo (a progetto) dissimulava in realtà un rapporto di lavoro subordinato, con l’intento di eludere l’applicazione della relativa disciplina di legge.
Del resto, già ad una semplice interpretazione letterale, la struttura dell’art. 2 dimostra di essere completamente diversa da una norma antielusiva e rimediale. La disposizione in esame, infatti, ha la normale struttura di una “norma di fattispecie”: descrive normativamente una fattispecie astratta caratterizzata da una serie di elementi tipici (che la Corte, impropriamente, chiama “indici fattuali”, confondendo così il piano del dover essere normativo con quello dell’essere fattuale) diversi da quelli della subordinazione (e che siano diversi lo riconosce inequivocabilmente la Corte nei quattro passaggi argomentativi sopra ricordati), a cui sono correlati determinati effetti, consistenti nell’applicazione della disciplina del rapporto di lavoro subordinato.
Che la norma non sia antielusiva si ricava, inoltre, da un ulteriore riferimento della Corte ad un concetto diverso e irriducibile a quello della subordinazione, cioè la “debolezza economica”, la quale viene ritenuta dalla Cassazione come la giustificazione dell’estensione ai lavoratori etero-organizzati della disciplina di subordinazione (punto 27 e punto 60, laddove la Corte avvalla l’equiparazione dei soggetti di cui all’art. 2, co.1, quanto a disciplina applicabile, ai lavoratori subordinati “nell’ottica di una tutela di una posizione lavorativa più debole, per l’evidente asimmetria tra committente e lavoratore”). Ma, come detto, la debolezza economica non è certo un concetto normativo riconducibile alla subordinazione. Non è un elemento legale tipico ex art. 2094 c.c., né fa parte degli indici sussidiari impiegati in giurisprudenza per qualificare il rapporto di lavoro. A ben vedere, diversamente dalla “dipendenza economica” che è entrata nel mondo dei concetti giuridici, la “debolezza economica” non è neppure un concetto “normativo”, ma semplicemente un elemento valutativo generalissimo, di natura descrittiva e sociologica, a cui non possono ricollegarsi direttamente o indirettamente effetti giuridici, tantomeno quelli previsti dall’art. 2, che, come si è visto, si fonda su elementi di fattispecie del tutto autonomi e peculiari (in particolare il dato normativo della etero-organizzazione, da distinguersi evidentemente – pena l’adesione alle tesi della norma apparente, che la Corte invece rigetta – dall’indice tipico della subordinazione, vale a dire l’assoggettamento ad etero-direzione). Sorprende quindi che la Corte di Cassazione si lasci prendere la mano da ragionamenti del tutto inconsistenti sul piano giuridico-formale. Ma a prescindere dall’inopportunità di impiegare nel ragionamento giuridico termini di tale vaghezza e inconsistenza normativa, giova in ogni caso rilevare come il riferimento operato dalla Corte alla tutela di prestatori ritenuti in condizione di “debolezza economica” significa fare riferimento ad una categoria di lavoratori ulteriore e diversa rispetto al genus dei lavoratori subordinati, i cui elementi tipici sono descritti dall’art. 2 (così come oggi parzialmente novellati con la legge 128/2019).
3. L’inconsistenza giuridica del concetto “norma di disciplina”.
Orbene, se l’art. 2 descrive una fattispecie caratterizzata da elementi tipici al ricorrere dei quali si producono determinati effetti giuridici, è errato qualificarla come una “norma di disciplina” (punti 25 e 39). Peraltro, l’enunciato “norma di disciplina” è tautologico, e, sul piano giuridico-normativo, esprime un vero e proprio non senso. Una “disciplina” è per definizione un “complesso di norme” riferite ad un istituto, che si declina nell’ambito di determinati settori dell’ordinamento giuridico. Una norma non può essere “di” disciplina, perché è essa stessa, nel suo contenuto regolamentare, una “disciplina”; ma questa regolamentazione, prevista in astratto dalla norma, diventa applicabile solo al ricorrere di determinate condizioni, che chiamiamo appunto condizioni o “requisiti di fattispecie”. Come abbiamo già rilevato, l’art. 2 è una norma che descrive una fattispecie astratta, caratterizzata da alcuni elementi tipici (rectius, sovra-tipici, nel senso spiegato retro): una prestazione di lavoro, continuativa, prevalentemente personale, organizzata dal committente. Come si può sostenere che questa norma, contenente queste condizioni di applicabilità, non descriva una fattispecie ? Su questo punto il ragionamento della Corte risulta davvero incomprensibile.
Nel caso dell’art. 2, i rammentati requisiti di fattispecie sono elementi tipologici in presenza dei quali una fattispecie concreta viene sussunta nell’ambito della fattispecie astratta (sovra-tipica), in vista dell’effetto. Del resto, la stessa Corte riconosce che tali elementi di fattispecie sono “sufficienti a giustificare l’applicazione della disciplina del rapporto di lavoro subordinato” (punto 24). Se ne deve dedurre che laddove questi elementi di fattispecie non ricorrono, nessuna “disciplina” troverà applicazione ex art. 2. E’ ovviamente fatta salva l’applicabilità della disciplina del rapporto di lavoro subordinato in ragione dell’accertamento della sussistenza di una fattispecie di subordinazione, ma in tal caso la disciplina non si applica in ragione del ricorrere degli elementi di fattispecie descritti dall’art 2, bensì di quelli previsti dall’art. 2094 c.c.
Da cosa nasce, allora, questo fuorviante impiego della nozione di “norma di disciplina”? Nell’ambito del vivace dibattito dottrinale sull’art. 2 (che la Corte conosce, e succintamente richiama al punto 11), una dottrina ha impiegato questo concetto (norma di disciplina) affermando, tuttavia, che “dall’esterno, l’etero-organizzazione svolge una funzione di ulteriore supporto all’identificazione della fattispecie (lavoro subordinato), operando una sorta di “scivolo” che riconduce all’ambito effettuale della stessa le forme contrattuali di confine” . Questa problematica affermazione (come si può “dall’esterno” contribuire all’identificazione della fattispecie di subordinazione?) consente di apprezzare l’inconsistenza giuridica della formula “norma di disciplina”: se la norma contribuisce all’identificazione della fattispecie del lavoro subordinato, non può che essere, essa stessa, una norma di fattispecie (id est un enunciato linguistico che concorre alla definizione della fattispecie). Sotto diverso profilo, l’impiego del termine “norma di disciplina” potrebbe invece enfatizzare un diverso (ed opposto) postulato, e cioè che il disposto in esame non è riferibile alla fattispecie di subordinazione, non è una norma riconducibile alla “fattispecie” di subordinazione, e non ne determina neppure una sua rielaborazione in termini evolutivi. In questa prospettiva si è sostenuto che la fattispecie in esame, ipoteticamente identificabile in un sotto-tipo di lavoro autonomo, facendo generico riferimento a “rapporti di lavoro” intercorrenti con un altrettanto generico soggetto denominato “committente” (e non datore di lavoro) può trovare applicazione indistintamente ed estensivamente a qualsiasi tipologia contrattuale avente ad oggetto un facere lavorativo che, in ipotesi, realizzi le condizioni prestatorie ivi contemplate: qualificandosi, di tal guisa, come una norma sovra-tipica (al pari dell’art. 409 n. 3 c.p.c.) . Seguendo questa linea di pensiero, è lecito sostenere che il referente social-tipico di tale ampia categoria di prestatori vada rintracciato nella “zona grigia” tra subordinazione ed autonomia, sotto la forma delle collaborazioni parasubordinate (a progetto, a “partita IVA”), qualificabili – prima dell’entrata in vigore dell’art. 2, co.1 - come altrettanti contratti di lavoro autonomo ed oggi, se rientranti nello schema normativo dell’etero-organizzazione, assoggettati alla disciplina del rapporto di lavoro subordinato, pur mantenendo la loro natura autonoma.
Questo, invero, è il duplice senso con cui è stata usata in dottrina la formula “norma di disciplina”. Trarre da questo impiego dottrinale del concetto di “norma di disciplina” la conclusione che il disposto in esame “non crea una nuova fattispecie” (punto 39) rappresenta un salto logico privo di fondamento. Non si comprende, peraltro, come una norma “non” di fattispecie possa appartenere ed inquadrarsi – come si esprime la Corte in un passaggio finale della sentenza – “nel complessivo riordino e riassetto normativo delle tipologie contrattuali esistenti” (punto 59). Se l’art. 2 è sistematicamente collocato nell’ambito delle “tipologie contrattuali esistenti” (affermazione sulla quale non si può che concordare con la Corte), è evidente che si tratta di una norma di fattispecie: la nuova fattispecie astratta del lavoro etero-organizzato dal committente. Questa fattispecie, quindi, vive nell’ordinamento, ed è proprio in virtù della sua giuridica esistenza che i riders possono, oggi, fruire delle tutele del lavoro subordinato (almeno fintanto che, come accade ormai in molte decisioni di Corti straniere, l’attività dei ciclo-fattorini non venga qualificata nei termini propri della subordinazione ex art. 2094 c.c.).
4. L’organizzazione “anche” con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro.
La Corte affronta il problema del significato da attribuire all’etero-organizzazione “anche con riferimento ai tempi e ai luogo di lavoro”. La soppressione delle parole “anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro” ad opera della legge n. 128/2019 ha fortemente ridimensionato il rilievo della questione. Vale rilevare come la nuova formulazione adottata dal legislatore è in sintonia con l’interpretazione che era stata formulata in dottrina, e che è stata accolta dalla Corte, secondo la quale l’art. 2 ha una portata ampliativa (e non meramente confermativa, o addirittura restrittiva) del campo di applicazione delle tutele giuslavoristiche, attraverso una tecnica di assimilazione di figure lavorative autonome al prototipo del lavoro subordinato . Sopprimendo il riferimento ai tempi e al luogo di lavoro si elimina in radice quel possibile fraintendimento che aveva condotto una parte della dottrina a ritenere che le prestazioni etero-organizzate di cui all’art. 2, co.1, ritagliassero un ambito applicativo della disciplina del lavoro subordinato addirittura più ristretto rispetto a quello della fattispecie di subordinazione, fornendo in tal modo una ricostruzione paradossale della norma, contraria alla propria ratio legis. In quella prospettiva, e partendo dal presupposto che il potere di organizzazione del committente ex art. 2, co.1, avesse il medesimo oggetto del potere direttivo, cioè le modalità di esecuzione della prestazione, è stata sostenuta la tesi della “maggiore intensità ed incisività del potere di organizzazione” del committente in quanto riferito espressamente al tempo e al luogo dell’attività, mentre un tale riferimento non sarebbe contemplato dalla lettera dell’art. 2094 c.c., che riguarda esclusivamente il lavoro svolto “alle dipendenze” e “sotto la direzione” . Una conseguenza applicativa di tale assunto era stata tratta, in particolare, dal Tribunale di Torino nel caso Foodora, laddove si opinava che il requisito oggi soppresso avrebbe richiesto che il lavoratore “sia pur sempre sottoposto al potere direttivo ed organizzativo del datore di lavoro e non è sufficiente che tale potere si estrinsechi soltanto con riferimento ai tempi e ai luoghi di lavoro perché deve al contrario riguardare anche i tempi e il luogo di lavoro”, giungendo così alla conclusione che il campo di applicazione dell’art. 2 fosse meno esteso di quello dell’art. 2094 c.c. L’errore di questa postura interpretativa risiedeva, a monte, nella pretesa identificazione tra l’etero-organizzazione dell’art. 2, co.1, e l’etero-direzione dell’art. 2094 c.c., laddove i due concetti, debitamente distinti, consentono di interpretare l’ormai abrogato riferimento dell’art. 2, co.1, (“anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro”) non già come esercizio del potere direttivo in materia di orario di lavoro e di luogo di lavoro, bensì come prerogativa di organizzazione (eventualmente, ma non necessariamente, anche) spazio-temporale della prestazione. Ne consegue che, sempre con riferimento all’originaria versione dell’art. 2, co.1, il potere di etero-organizzazione del committente poteva prescindere dalla determinazione spazio-temporale: in questo senso andava infatti correttamente interpretato l’anche, come particella che indica una possibilità, un’eventualità, non una necessità; e ciò perché - diversamente dal potere direttivo – l’etero-organizzazione non è un potere di conformazione della prestazione, nè attiene all’obbligo di lavorare in condizione di subordinazione (cfr. art. 2014 c.c.). Questa interpretazione ha oggi l’avvallo della Corte di Cassazione, la quale ha chiarito che “se è vero che la congiunzione “anche” potrebbe alludere alla necessità che l’etero-organizzazione coinvolga i tempi e modi della prestazione, non ritiene tuttavia la Corte che dalla presenza nel testo di tale congiunzione si debba far discendere tale inevitabile conseguenza” (punto 34). Come dire che il riferimento ai tempi e al luogo di lavoro esprime solo “una possibile estrinsecazione del potere di etero-organizzazione, con la parola “anche” che assume valore esemplificativo” (punto 35).
5. La Corte, pur nell’ambito di osservazioni molto stringate, si esprime sul potere di etero-organizzazione Il potere di organizzazione del committente di cui all’art. 2, co.1, risulta esterno alla sfera dell’oggetto dell’obbligazione, che è predefinita ex ante e non identificata di volta in volta per il tramite del potere direttivo. Come dire che il potere di etero-organizzazione di cui all’art. 2, co.1, non è un potere di conformazione/scelta del comportamento dovuto, nè un potere di determinazione del modo, del tempo e del luogo dell’esecuzione della prestazione ex art. 2104, co. 2, c.c.: è un potere qualitativamente diverso per contenuto e per funzione. La prestazione è sì condizionata nella sua esecuzione, non per effetto dell’esercizio del potere direttivo, bensì in ragione del contesto organizzativo unilateralmente gestito dal committente ed entro il quale la prestazione è destinata ad essere funzionalmente integrata: una prestazione etero-organizzata, come aveva ben messo in evidenza la Corte d’appello di Torino, esprime infatti un nesso funzionale con l’organizzazione del committente, conformemente a quanto la giurisprudenza affermava (prima dell’introduzione del lavoro a progetto, e prima della fondamentale rivisitazione dell’art. 409 , n. 3 c.p.c. ad opera dell’art. 15, l. n. 81/207) con riferimento alle collaborazioni coordinate e continuative, di cui, in sostanza, oggi, con l’eliminazione del potere unilaterale di coordinamento, il lavoro etero-organizzato dal committente ha funzionalmente preso il posto.
Anche una tale conclusione ha trovato l’avvallo della Cassazione, la quale ha ricondotto l’etero-organizzazione “ad elemento di un rapporto di collaborazione funzionale con l’organizzazione del committente” onde “le prestazioni del lavoratore possano, secondo la modulazione unilateralmente disposta dal primo, opportunamente inserirsi ed integrarsi con la sua organizzazione di impresa” (punto 32). A consimili conclusioni era giunta, nel caso dei riders di Foodora, la Corte d’Appello, che diversamente dal Tribunale ha seguito un percorso interpretativo svincolato dall’erroneo presupposto secondo cui il potere di organizzazione ex art. 2 ed il potere direttivo ex art. 2094 c.c. pur avendo il medesimo oggetto (le modalità di esecuzione della prestazione), si distinguono in ragione della (necessaria) determinazione del tempo e del luogo in capo al primo e non al secondo, rilevando invece le diversità strutturali e funzionali che rivestono queste due diverse prerogative soggettive (rispettivamente del committente e del datore di lavoro). La novella non fa quindi che confermare ex post il percorso ricostruttivo intrapreso da una parte della dottrina, facendo venir meno un elemento definitorio (il riferimento ai tempi e al luogo) che, di fatto, se non correttamente inteso, poteva vanificare lo scopo della legge. Ora è chiaro che la fattispecie del lavoro autonomo etero-organizzato (circa le modalità di esecuzione della prestazione) si differenzia dalla fattispecie del lavoro subordinato (soggezione al potere di scelta della prestazione nonché alle disposizioni impartite dal datore di lavoro per la disciplina e l’esecuzione del lavoro), sia per la diversa funzione del potere (che non risponde ad esigenze di conformazione della prestazione) sia in ragione della non necessaria presenza, quale elemento tipizzante la fattispecie di cui all’art. 2, co.1, di una determinazione da parte del committente dei tempi e del luogo della prestazione. Residua solo, per integrare gli estremi del lavoro etero-organizzato, un condizionamento unilaterale delle modalità prestatorie, in funzione del rispetto di criteri organizzativi propri della struttura produttiva del committente , che potranno riguardare la dimensione esecutiva relativa al “come” attuare la prestazione, la dimensione temporale in cui la prestazione si colloca, la dimensione spaziale di svolgimento dell’attività: aspetti dell’organizzazione delle modalità prestatorie che non possono più venire intesi come necessariamente compresenti.
5. La disciplina “ontologicamente incompatibile”: un pertugio verso una applicazione selettiva delle tutele?
Assume particolare rilievo la possibilità di attivare un’interpretazione adeguatrice dell’art. 2, co.1, che, seguendo una razionalità selettiva, riesca ad identificare le disposizioni incompatibili con la natura del rapporto autonomo del collaboratore etero-organizzato. La Cassazione, su questo punto, sembra da un lato chiudere la porta ad ogni possibile attivismo interpretativo, affermando che “la norma non contiene alcun criterio idoneo a selezionare la disciplina applicabile, che non potrebbe essere affidata ex post alla variabile interpretazione dei singoli giudici” (punto 40), ma, dall’altro, lascia aperto un pertugio statuendo che “non possono escludersi situazioni in cui l’applicazione integrale della disciplina della subordinazione sia ontologicamente incompatibile con le fattispecie da regolare, che per definizione non sono comprese nell’ambito dell’art. 2094 c.c.” (punto 41). C’è una certa contraddittorietà su questo punto, peraltro affrontato dalla Corte come mero obiter. Tuttavia, il richiamo all’incompatibilità ontologica apre di fatto una pista di ricerca molto rilevante per i profili applicativi, dalla quale dipenderà in larga misura la possibilità di trovare un bilanciamento tra universalismo e selettività delle tutele nell’ambito delle collaborazioni etero-organizzate. Anche se, nella parte ricostruttiva, indica nell’art. 2 una norma antielusiva e rimediale (con tutte le contraddizioni sopra evidenziate), la Corte, affermando che le fattispecie incluse nell’art. 2 “non sono comprese nell’ambito dell’art. 2094 c.c.” (punto 41) finisce per avvallare la tesi del distinguo concettuale e normativo tra etero-direzione ed etero-organizzazione, e conferma che la fattispecie in esame rientra nell’alveo del lavoro autonomo. Tale conclusione trova conferma, altresì, nella recente novella che ha sostituito la personalità della prestazione con la prevalente personalità, concetto, quest’ultimo, decisamente incompatibile con il rapporto di lavoro subordinato.
Se così è, una riflessione più attenta sulla possibilità di ritagliare, nell’ambito della disciplina del lavoro subordinato, le norme non estensibili, appare non solo possibile, ma decisamente opportuno. In questa prospettiva, che dispiega una razionalità regolativa adattiva rispetto alla crescente complessità del lavoro nella sua realtà economica e sociale, la disciplina del rapporto di lavoro subordinato resta appannaggio della fattispecie tipica di cui all’art. 2094 c.c. ma viene selettivamente estesa, in tutto o in parte, anche a forme di lavoro non subordinato, sul presupposto che l’esigenza di protezione sociale si articola attorno a fattispecie differenziate dal punto di vista strettamente tipologico (inteso il tipo nella sua globalità) ma accomunate da taluni elementi transtipici (la personalità o prevalente personalità della prestazione, la continuità, l’assoggettamento a prerogative che limitano, con diversa intensità e gradazione, l’autonomia della prestazione, la dipendenza economica ecc.) che colgono in modo pluralistico i bisogni sociali da soddisfare. In tal modo le tutele possono addensarsi secondo “soglie” soggettivamente e/o disciplinarmente diversificate, talvolta legate a fattispecie sovra-tipiche (come nel caso dell’art. 2, co.1, o dell’art. 409, n. 3, c.p.c.), altre volte inerenti a fattispecie specifiche definite in ragione di elementi decisamente estrinseci del rapporto, e attinenti direttamente al mutato contesto economico-organizzativo (come nel caso del lavoro autonomo tramite piattaforme), con intensità protettive diverse a seconda, appunto, dei bisogni di tutele sociale che vengono espressi dalle nuove soggettività del lavoro. Se questa ipotesi ricostruttiva risultasse confermata, piuttosto che verso una nuova grande neo-polarizzazione del mondo del lavoro, il sistema italiano si collocherebbe, con maggiore consapevolezza rispetto al passato, in una logica di progressivo superamento della grande dicotomia tra subordinazione e autonomia.
Questo oltrepassamento del confine categoriale si è attuato con un mix legislativo di universalismo-assimilativo (art. 2, co.1) e di espansionismo-selettivo delle tutele secondo diversi gradienti (art. 2, co. 2, art. 409 n.3, c.p.c., lavoro autonomo tramite piattaforma) che rilancia, nel suo complesso, l’aspirazione universalistica del diritto del lavoro unitamente alla garanzia di selettività sociale dell’intervento protettivo. Infatti, se la logica di regolazione è selettiva, l’effetto sistemico complessivo non è quello – talvolta lamentato in dottrina – di una riduzione delle tutele e/o dei soggetti destinatari delle stesse, ma, al contrario un’espansione modulare del diritto del lavoro verso una quota addizionale di lavoratori: la selettività opera infatti come meccanismo intelligente e mirato di universalismo delle tutele.