Testo integrale con note e bibliografia

Il contesto del cambiamento: Gig Economy e piattaforme digitali

Chi non ha in mente l’immagine – raccolta da innumerevoli film americani – del ragazzino che dalla sua bicicletta lancia con precisione il giornale in abbonamento davanti alla porta di una bella casa, in un elegante quartiere residenziale. Oppure la figura di Tom Sawyer, impegnato suo malgrado a dipingere la staccionata di casa. Ecco i “Gig”, i lavoretti.
Da poco più di un decennio questo termine, fino a quel momento associato a attività prevalentemente giovanili e marginali, è stato abbinato ad una diversa parola, Economy, entrando così nel lessico contemporaneo.
Quello della Gig Economy è un fenomeno sociale emergente, descritto inizialmente dalla giornalista statunitense Tina Brown, che utilizzò questo termine per indicare quell’insieme di attività lavorative piccole e frammentate che contribuivano a garantire il budget personale di molti suoi conoscenti.
Il termine emerse nuovamente durante la corsa di Hillary Clinton alla Presidenza USA, che citò la Gig Economy nel contesto del proprio programma economico, tra l’altro evidenziandone i rischi in termini di protezione dei lavoratori.
I motivi per cui il tema è poi venuto prepotentemente alla ribalta sono molteplici. Alcuni di natura sociale, non sono infatti poche le persone costrette a incrementare le proprie fonti di reddito per il mutamento di proprie o altrui condizioni. Altri di natura economica e per lo più legati alla globalizzazione e alle trasformazioni del lavoro. Certamente poi a fare la parte del leone è stata la rivoluzione digitale che, in brevissimo tempo, ha inserito tra i tradizionali player del mercato del lavoro le piattaforme digitali.
L’apparire sulla scena di queste piattaforme, nell’ambito di quella che veniva invece chiamata Sharing Economy, cioè un’economia basata sulla condivisione, rappresentava il deus ex machina. Un individuo disponeva di qualcosa in più di ciò che poteva essergli necessario, un altro individuo ne necessitava, ma non ne aveva la disponibilità, come si poteva dunque far incontrare l’offerta e la domanda in modo da eliminare lo spreco ed aumentare la sostenibilità? Grazie all’aiuto di una piattaforma basata sul web. Così il costo di questo incrocio tra domanda e offerta andava a sparire e ciò che era in sovrappiù poteva essere condiviso in modo vantaggioso per tutti (Pais e Provasi, 2015).
Cosa è successo poi? È successo che spesso ad essere in sovrappiù era il tempo delle persone. Certamente occupare il proprio tempo libero in un’attività economica poteva essere vantaggioso per tutti. Ma se il tempo da occupare era libero “forzatamente”, ad esempio perché una persona era senza lavoro, si poteva comunque applicare questo principio? Nei fatti dobbiamo rispondere si a questa domanda. Osservando le schiere di Rider che affollano le strade davanti a ristoranti o negozi di alimentari take away non si ricava proprio l’impressione di persone normalmente occupate, con la passione della bicicletta, che arrotondano lo stipendio praticando il proprio sport.
Come dicevamo possono essere moltissime le motivazioni alla base di un impegno nella cosiddetta Gig Economy. Ad esempio per molti giovani studenti i cosiddetti lavoretti sono una modalità elettiva per avere un piccolo guadagno, da utilizzarsi nel proprio tempo libero, magari senza gravare sulla propria famiglia. Credo che riguardo a ciò vada evitata ogni demonizzazione, si tratta in molti casi di un apprezzabile impegno giovanile nella direzione di una progressiva autonomizzazione; impegno che peraltro presenta anche risvolti educativi nei confronti del lavoro. Resta però evidente che, nel caso suddetto, l’occupazione principale, il lavoro dei giovani, è in effetti rappresentata dallo studio, il resto è un di più.
Le cose iniziano invece a cambiare quando il lavoretto presenta aspetti di cogenza. Magari perché il reddito del proprio lavoro abituale non è più sufficiente, stante il mutamento delle proprie condizioni di vita. Si pensi ad esempio al fenomeno relativamente recente delle nuove povertà urbane, non di rado legate a situazioni di separazione e divorzio: la perdita di fatto della propria abitazione affidata all’ex coniuge, che porta con sé la necessità di trovare una diversa collocazione; la necessità di contribuire in modo nuovo al reddito del ex coniuge e dei figli; magari il tutto accompagnato da una improvvisa crisi economica che, comunque, aveva già ridimensionato le entrate del soggetto. Così il lavoretto diventa necessario per vivere e, come dicevo, le cose iniziano a cambiare anche nel vissuto della persona coinvolta.
C’è poi il caso che il lavoretto sia l’unico lavoro possibile. Anche qui per svariati motivi: la perdita dell’impiego o la difficoltà (se non l’impossibilità) a trovarne uno adeguato. Così il lavoretto diventa l’impiego primario o, meglio, l’unico impiego: in fondo fare il Rider per una piattaforma di food delivery non richiede competenze particolari, basta saper pedalare. Così quello che doveva essere un’attività marginale, un modo per arrotondare il reddito e, al tempo stesso, per non sprecare risorse, si trasforma. Almeno per quanto riguarda il ruolo che gioca nella vita delle persone coinvolte.
Quindi la Gig Economy è già entrata in modo importante nella trasformazione del lavoro. In effetti, in contesti culturali differenti dal nostro rispetto al mercato del lavoro negli ultimi anni si è aperta una riflessione scientifica circa la possibilità di individuare una nuova figura all’interno del sistema delle relazioni industriali, quello dell’independent worker (Harris e Krueger, 2015), caratterizzata in particolare dalla facoltà di decidere se e quando fornire un determinato servizio ai propri clienti e dal potere di instaurare rapporti di lavoro con un a pluralità di committenti.
Secondo un rapporto del McKinsey Global Institute (2016), considerando globalmente il mercato del lavoro statunitense ed europeo, i lavoratori indipendenti sono un gruppo sociale pari circa ad un quinto della complessiva forza lavoro e frequentemente operano in una sorta di zona grigia in cui purtroppo ad emergere sono più frequentemente le situazioni dei lavoratori “riluttanti” o “obbligati” dalle proprie condizioni economiche, piuttosto che quelle di chi ha scelto un lavoro indipendente in modo volontario ed in esso trova la propria principale fonte di reddito.

E se non fossero lavoretti? I Rider nella regolazione del lavoro

L’idea di questo articolo viene da lontano: da tempo infatti stiamo registrando un mutamento importante nella rappresentazione diffusa del lavoro, sempre nel contesto di quella che ormai comunemente viene definita “la grande trasformazione” (Seghezzi, 2017).
Più recentemente però si sono verificati importanti episodi che hanno reso necessario affrontare il tema attraverso le lenti del Diritto. In particolare ci riferiamo alle sentenze relative al contenzioso apertosi tra Foodora, una delle più importanti piattaforme di food delivery, e alcuni Rider, riguardo ai loro diritti e al loro status lavorativo.
Lasciando ad altri contributi ben più autorevoli l’approfondimento tecnico dei dispositivi, li ricordiamo brevemente. Dapprima la Corte d’Appello di Torino (sentenza 26/2019) ha, almeno in parte, ribaltato la decisione di prima istanza che era stata avversa ai Rider, stabilendo il diritto ad una retribuzione pari a quanto previsto dal CCNL di riferimento, pur senza riqualificare il rapporto di lavoro. Successivamente la Corte di Cassazione (sentenza 1663/2020) ha confermato la sentenza d’appello, anche se motivando la propria decisione in un modo diverso dalla Corte territoriale. Diversità che ai fini della nostra trattazione ci pare oltremodo interessante.
Non pare infatti necessario, né utile alla Corte, definire una terza, diversa, tipologia di rapporto di lavoro, intermedia tra la subordinazione e l’autonomia, ma piuttosto considerare quelle garanzie e protezioni che il legislatore ha voluto attribuire ai lavoratori ritenuti più deboli.
Nella prospettiva da noi indagata, è questa la prima considerazione che proponiamo ai lettori. La sentenza della Cassazione è – a nostro avviso – molto interessante perché individua e da rilevanza giuridica ad una condizione di mutevolezza propria dei tempi che stiamo attraversando. È infatti da tempo che sappiamo che il mondo del lavoro è divenuto una realtà volatile, incerta, complessa e ambigua, in cui è impossibile incasellare in modo definitivo la realtà entro gabbie definitorie eccessivamente rigide (Bennet e Lemoine, 2014). Così non possiamo esimerci dalla necessità di inoltrarci in quella zona grigia costituita dalla Gig Economy, affrontando la disamina degli eventi caso per caso, anche assumendoci la responsabilità di decidere in condizioni di incompletezza di informazioni.
Del resto in un contesto così mutevole pensare di costruire cornici rigide entro cui inserire in modo definitivo le diverse fattispecie risulta del tutto irrealistico, pena il piegare la realtà alla nostra rappresentazione di essa, con l’inevitabile prevalere dell’ideologia.

I Rider e lo sfruttamento del (e nel) lavoro

Per la gran parte della storia dell’umanità, il lavoro umano è stato innanzitutto sfruttamento. Nell’antichità classica il lavoro era proprio degli schiavi, è nota la definizione del giureconsulto Gaio che nel II secolo d.C. distingueva nelle sue “Istituzioni” tre tipi di “utensili”: quelli che non si muovono e non parlano, quelli che si muovono e non parlano, quelli che si muovono e parlano. A questi ultimi, gli schiavi, era affidato gran parte del lavoro, almeno come lo intendeva Hannah Arendt (1958): qualcosa che pertiene allo scambio diretto uomo-natura e serve al mantenimento della vita umana. Per gli altri, i cittadini, l’ideale era l’otium, che non implicava necessariamente il far niente, ma piuttosto l’occuparsi di cose “alte”.
Questa frattura tra “lavoro” e “opera”, sempre per usare le categorie della Arendt, troverà in parte una ricomposizione nel contesto della cultura giudaico-cristiana, ma continuerà per altri versi ad accompagnare l’evoluzione del lavoro e della sua organizzazione dall’antichità ai giorni nostri. La ritroveremo in molti contributi del pensiero occidentale, fino alla critica marxista al capitalismo.
Potremmo dire, certamente semplificando, che l’organizzazione del lavoro e dei rapporti di lavoro nelle sue diverse prospettive, da quella operativo-funzionale fino a quella giuridica, si collochi sempre tra due esigenze diverse, che si traducono poi in due diversi obiettivi: l’obiettivo di ottimizzare un tale “sfruttamento”, per aumentare la produzione riducendone il costo, e quello di impedirlo, o almeno ridimensionarlo. Potremmo dire che l’insieme delle “regole” organizzative a questo servono: rappresentare il lavoro in modo che produca il massimo degli effetti e, al contempo, riduca al massimo i possibili danni. Ovviamente non di rado questi obiettivi risultano conflittuali e si rende necessaria un’azione di mediazione tra opposti interessi.
Tutta questa premessa per dire che le piattaforme digitali sono uno strumento estremamente efficiente per sfruttare al meglio le risorse disponibili. L’incrocio tra domanda e offerta è possibile pressoché in tempo reale, l’azione di risposta alla domanda è ottimizzata per ottenere il massimo risultato con il minimo costo, con un evidente vantaggio per chi pone la domanda (come del resto si constata osservando il successo commerciale che hanno).
Il problema nasce per quelle risorse che, dagli anni ’60, abbiamo imparato a chiamare “umane”. Qui dovrebbe essere perseguito il secondo obiettivo sopra indicato, quello relativo all’impedire lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo (homo homini lupus), ma non è così semplice applicare i pur consolidati dispositivi di garanzia, di protezione, di mediazione sociale alla realtà delle piattaforme digitali. Certo anch’esse sono legal entity, con dei rappresentanti legali che possono essere chiamati in giudizio, ma la natura immateriale dei loro servizi, la possibilità di delocalizzarli in modo assoluto e rapidissimo, nonché di modificare la loro stessa immagine in tempo quasi reale rende tutto più complicato.
Quindi proteggere quanti lavorano “per” una piattaforma diventa più difficile. Inizialmente, questo era lo spirito della Sharing Economy, il lavoro avrebbe dovuto essere “attraverso” una piattaforma, che era strumento di facilitazione orizzontale dell’incontro tra un fornitore di beni o servizi ed un fruitore degli stessi. Ora però gran parte del lavoro sulle piattaforme si è verticalizzato: io fornisco un servizio alla piattaforma, che lo usa per rispondere ai propri clienti.
I Rider si inseriscono in questa dinamica. La piattaforma media tra chi produce e chi consuma, per farlo ha necessità di risorse umane che svolgano “praticamente” questa mediazione, è questo il loro lavoro.
Si tratta di un lavoro autonomo, non c’è obbligo a rispondere alla chiamata che ti incarica di prelevare il cibo prodotto da A e portarlo a B. Però si tratta di un’autonomia più teorica che reale: il ritiro deve avvenire ad una cert’ora e la consegna entro un certo tempo, pena una sanzione. Si tratta quindi di una condizione complessa, per non dire ambigua.
Anche perché la sostenibilità del servizio offerto dalla piattaforma è certamente molto influenzata dal costo del servizio stesso: che percentuale di incremento di costo del prodotto saremmo disposti ad accettare per fruire di un servizio di consegna come quello offerto dai Rider? Non è facile rispondere a questa domanda, ad esempio un conto è se si ordina a domicilio una cena stellata, un conto se ci facciamo portare una pizza.
A nostro avviso se si trattasse effettivamente di un lavoretto tutto ciò non costituirebbe un grave problema, almeno in termini psicologici. Il problema diventa tale quando “riluttanti” o meno troviamo in questa attività la nostra principale, se non unica, fonte di reddito. É chiaro a questo punto che la libertà di scelta nell’aderire ad una proposta di lavoro così atipica sia quanto meno opinabile ed è proprio questo il caso che il legislatore, ci pare, ha voluto tutelare con l’art. 2 del D.L.vo 81/2015 citato nella sentenza, in direzione di una protezione di una parte intrinsecamente debole del sistema organizzativo delle piattaforme.
Proponiamo quindi una seconda considerazione, partendo dal porci una domanda: cosa rende un’attività umana un vero “lavoro”, invece che solo un “lavoretto”? Seguendo una prospettiva psicologica, una possibile risposta risiede nello spazio che l’attività stessa ha nella rappresentazione di sé di chi la svolge, potremmo chiederci: “quanto ciò che faccio, dice chi sono?”, se la risposta a tale domanda è “molto” siamo di fronte a un lavoro vero e proprio.
La psicologia sociale europea, abbracciando la prospettiva interazionista, ci ha illustrato la relazione circolare tra l’individuo e l’ambiente, relazione che va a costituire una importante base per la costruzione di un’idea di sé. Il sé del resto si ri-costruisce attraverso un processo di riconoscimento cognitivo (Goffman, 1963) che permette di situare l’individuo entro una certa identità sociale: cosa gli altri “vedono” di me si integra con ciò che io vedo di me e definisce così chi sono.
Il lavoro ha sempre costituito un’importante componente dell’immagine di sé. “Mi chiamo…e faccio…”, ancora oggi sono il modo in cui frequentemente ci presentiamo ed entriamo in rapporto con gli altri. Questo comporta che il giovane che raccoglie qualche soldo consegnando cibo a domicilio probabilmente di sé dirà che studia, non di essere un Rider, e lo stesso varrà per molti di coloro fanno qualche lavoretto per arrotondare.
Dire invece: “io sono un Rider”, significa connotare diversamente la definizione di sé, significa dare un valore diverso a questo lavoretto, significa trasformarlo – almeno psicologicamente – in un lavoro.
E se di lavoro si tratta dovrà essere tutelato, proprio per impedire lo sfruttamento, specie in un contesto in cui la trasparenza e la possibilità reale di governare il mercato è assai relativo. Va pure detto che parlare di sfruttamento nella odierna cornice dei diritti acquisiti e consolidati del nostro continente europeo assume a sua volta un significato relativo, almeno rispetto a quanto accade in altri contesti. Oggi, in effetti, nel nostro Paese così come in gran parte dell’occidente sviluppato, lo sfruttamento non ha più tanto il volto delle masse lavoratrici uscite dalla Rivoluzione industriale, quanto assume la faccia criminale del caporalato o del lavoro nero. In che senso dunque un Rider che comunque per lo più dispone di un contratto legalmente valido può essere considerato un lavoratore sfruttato.
Più che sfruttamento, il termine che forse ci aiuta meglio a comprendere questa dinamica in una prospettiva psicologica, è quello di ingiustizia. Greenberg (1987) ha introdotto in letteratura il concetto di giustizia organizzativa, inteso come la percezione di quanto la propria organizzazione si comporti in modo etico o equo. La questione è rilevante perché noi sappiamo che la percezione degli individui circa la giustizia delle decisioni assunte dalla propria organizzazione gioca un ruolo importante nell’influenzare i loro successivi atteggiamenti e comportamenti. Dunque se io percepisco il mio contesto di lavoro come ingiusto, questo non potrà che riverberare sull’idea stessa del lavorare, rafforzando così una separazione tra me e il mio lavoro (ma questo ci porterà a formulare una terza considerazione che vedremo nel paragrafo seguente).
La cosa ci riguarda dunque perché è ingiusto che io sia “costretto” a pedalare forsennatamente per due soldi, altro sarebbe se io “desiderassi” farlo.
L’azienda per cui lavoro, la piattaforma, replica che non mi sta costringendo nessuno, ma non è vero: le circostanze avverse mi costringono. Sono straniero, sono privo di competenze interessanti per il mercato del lavoro, sono disoccupato, non ho le risorse necessarie a sviluppare la mia employability, dunque “devo” trovare un lavoro alla mia portata e pedalare è certamente alla portata di quasi tutti.
Ed ecco prontamente la piattaforma mi offre il lavoro. Ma si tratta di un’offerta ingiusta, scarsamente retribuita (la percezione di un compenso non equo è una delle tipiche componenti dell’ingiustizia organizzativa), e quindi cosa resta del mio essere lavoratore? Solo la componente “meccanica”: la fatica del servo che non guarda al proprio lavoro in termini di utilità, ma di necessità e dovere, se non addirittura di inganno (il commediografo latino Plauto usa appunto labor con un duplice significato: il lavoro faticoso dello schiavo, ma anche l’inganno che lo schiavo “furbo” perpetra nei confronti del proprio padrone).
Da segnalare infine anche il fatto che ci sono evidenze del fatto che l’ingiustizia organizzativa può produrre conseguenze nocive sulla salute del lavoratore, sia in termini di esaurimento emotivo (Liljegren e Ekberg, 2009), sia di vera e propria patogenesi (Schunk e altri, 2005). Dunque, almeno a parere dello psicologo del lavoro, la Corte nell’assumere la necessità di riconoscere un giusto compenso ai Rider si è inserita anche nella tutela della salute dei lavoratori.

Cambiare l’idea di lavoro, opportunità e rischi

Una terza considerazione trae origine a quanto anticipato poc’anzi: la separazione tra “io” e il mio “sé lavorativo” (mi si consenta questa specializzazione settoriale del concetto di sé).
Dicevamo come per molto tempo – e in non poche culture e territori ancor oggi – era prevalente una visione negativa del lavoro. Il lavoro era la fatica degli schiavi, oppure la fatica ultimamente disumana di quanti pur non essendo giuridicamente schiavi, lo erano di fatto, dipendendo per la propria sussistenza dall’arbitrio altrui.
Tale concezione viene mitigata, quando non completamente emendata, dall’affermarsi in Europa della cultura cristiana. Già San Paolo nella sua lettera ai tessalonicesi sanciva la dignità del lavoro attribuendo ad esso un ruolo centrale nella vita dell’uomo. Tale premessa paolina troverà la sua affermazione pratica nella fondazione di San Benedetto, che introducendo nella sua regola il precetto ora et labora, in qualche modo poneva sullo stesso piano due attività che altrimenti erano viste come alternative, dato che in tutte le culture precedenti la classe sacerdotale era posta ai vertici della piramide sociale e i lavoratori, al contrario, molto più in basso.
Questa concezione permane, almeno in Europa, per diversi secoli: tutti dovevano “lavorare” facendo la propria parte per la comunità. Certo i lavori erano diversi, ma c’era l’idea di un compito per ciascuno, in conflitto con la rendita (il denaro dal denaro) che, al contrario non era considerata moralmente accettabile e, più volte, condannata.
Questa cultura diffusa del lavoro come compito dell’uomo e, di conseguenza, come parte integrante della propria identità inizia a entrare in crisi nell’epoca moderna. Mai come oggi però mi pare evidente una separazione tra ciò che “sono io” e “ciò che faccio”, in questa separazione il lavoro rischia di uscire decisamente perdente. Infatti, se il lavoro non è parte fondamentale della mia identità, ma solo uno strumento per garantire ciò che mi serve, la logica Gig potrebbe essere vincente.
Provo a esemplificare. Nelle nostre realtà urbane, molte attività legate alla ristorazione sono ormai svolte in prevalenza da studenti universitari, che operano con diverse modalità avventizie. Niente di male, niente di strano, si tratta di un fenomeno che in altri paesi – gli USA – ad esempio, esiste da moltissimi anni. Si tratta però di paesi in cui la forbice tra le diverse professionalità e i redditi che ne derivano è molto maggiore che da noi, cosa questa che comporta peraltro nei primi paesi (USA e UK quelli appartenenti all’occidente) una più elevata diseguaglianza circa la distribuzione della ricchezza, come si evidenzia da una lettura dei dati OCSE a riguardo . Così lo studente universitario che nel proprio tempo libero serve bibite e tramezzini agli invitati ad un party organizzato da una agenzia di eventi, lo fa non perché gli interessi quella attività, ma perché è una modalità tutto sommato semplice per aumentare le proprie risorse economiche, che comunque non giocano un ruolo determinante nella sua esistenza. Potrebbero essercene altre e sarebbe lo stesso. Fare il cameriere per una società di catering, in questa logica non è diverso da provare a speculare facendo trading online. Non ha nulla a che fare con il lavoro, almeno come l’avevano considerato le generazioni precedenti.
Vediamo così cambiare l’idea stessa di lavoro e del ruolo che esso gioca nella vita delle persone. Nella nozione di lavoro possiamo trovare due componenti fondamentali: la prima legata alla soddisfazione di bisogni primari; la seconda invece che pertiene a quella che Rogers (1978) chiamava la tendenza attualizzante e che riguarda invece i bisogni di autorealizzazione. Se procediamo nel processo di separazione tra queste due componenti, il rischio che su di una visione generativa del lavoro ne prevalga una connotata piuttosto da sfruttamento e ingiustizia è una possibilità reale. Con due possibili conseguenze. La prima, l’aumento della forbice sociale tra quanti dispongono di un lavoro generativo e quanti invece sono costretti ad un lavoro servile; da qui la seconda, cioè l’incremento del numero di persone alla ricerca di modalità altre di risposta ai propri fabbisogni di reddito.

Conclusioni: se non ci fosse più bisogno di lavorare?

Del resto diversi autori, da decenni, ipotizzano la fine del lavoro. Chi con entusiasmo, prefigurando una liberazione dell’uomo dalla schiavitù del lavoro, altri paventando invece un incremento di tale schiavitù, travestita nel fenomeno del precariato (Rifkin, 1995; Wierzbicki, 2016; Stiegler, 2018). Le tre considerazioni che abbiamo proposto non possono ne vogliono esaurire un tema così complesso e in divenire come quello del lavoro nell’epoca delle piattaforme. Le conseguenze ipotizzabili per la quarta rivoluzione industriale sono influenzate da tali e tanti fattori che nessuno può affermare di possedere “la” visione più corretta. In questo tempo di incertezza strutturale il legislatore arranca nel tentativo di fornire una cornice giuridica efficace alle infinite fattispecie che si affacciano alla ribalta economica e sociale.
Certamente la realtà di questo nuovo mondo è molto veloce, molto più veloce della nostra consueta capacità di adattamento e il tentativo di fermarla è inevitabilmente destinato a fallire.
Ne è efficace, probabilmente, pensare di affrontare nuovi problemi con vecchie regole, quanto sta accadendo, nel mondo del lavoro ma non solo, richiede di assumere una nuova prospettiva riguardo al lavoro dell’uomo, recuperandone il senso più profondo e da lì facendo discendere una capacità di giudizio, che probabilmente dovrà entrare nel merito di ogni situazione.
In questo momento, più che cercare risposte definitive crediamo sia utile continuare a porci domande, che ci aiutino a evitare l’affermarsi di visioni assolute e quindi ci proteggano, almeno in parte, dall’affermazione dell’ideologia.
Così oggi allargare i punti di osservazione, assumendo anche altre prospettive, come quella psicosociale, crediamo possa portare un contributo nell’allargare la ragione e incrementare la capacità di discernimento di chi dovrà poi applicare norme per lo più nate all’interno di un paradigma ben diverso.

Questo sito utilizza cookie necessari al funzionamento e per migliorarne la fruizione.
Proseguendo nella navigazione acconsenti all’uso dei cookie.