Testo integrale con note e bibliografia

1. Il cuore della decisione
La sentenza della Corte di Cassazione, pronunciata a conclusione della vertenza avviata dai rider torinesi di Foodora contro la nota piattaforma di food-delivery è destinata, in qualche misura, a passare alla storia.
Grazie alla prima pronuncia di legittimità sull’art. 2, comma 1 del d.lgs. n. 81/2015, sottoposto a opportuna manutenzione proprio nelle more del terzo grado di giudizio, in Italia è significativamente cambiato, in senso estensivo, il raggio d’azione della protezione lavoristica.
Per la Cassazione, l’art. 2, comma 1, del decreto sul riordino delle tipologie contrattuali, anche nella sua originaria formulazione (e in modo ancor più univoco a seguito della novella contenuta nel d.l. n. 101/2019, convertito in legge n. 128/2019) dev’essere interpretato nel senso che l’intero apparato protettivo posto a tutela del lavoro subordinato si applica anche alle collaborazioni etero-organizzate – con la sola esclusione delle norme ontologicamente incompatibili con la figura di nuovo conio – ogniqualvolta la prestazione lavorativa sia funzionalmente iscritta in un’organizzazione unilateralmente predisposta dal suo titolare, anche quando manchi un assoggettamento del collaboratore al potere direttivo o al coordinamento spazio-temporale del creditore.
È questa, in estrema sintesi, la conclusione cui sono pervenuti i Giudici di legittimità nella sentenza del 24 gennaio 2020, n. 1663, con la quale è stata sostanzialmente confermata, nel suo esito finale – benché con significative differenze di motivazione – la decisione della Corte d’Appello di Torino (App. Torino, 4.2.2019, n. 26, in Riv. It. Dir. Lav., 2019, II, p. 340 con note di M.T. Carinci, Il lavoro eterorganizzato si fa strada…sulle ruote dei riders di Foodora, e R. Del Punta, Sui riders e non solo: il rebus delle collaborazioni organizzate dal committente; Carabelli U., Spinelli C., La Corte d’Appello di Torino ribalta il verdetto di primo grado: i riders sono collaboratori etero-organizzati, in Riv. Giur. Lav.,, 2019, I, p. 95 ss.), la quale aveva, a propria volta, rovesciato le conclusioni del tribunale di Torino (Trib. Torino, 5.7.2018, in Riv. Giur. Lav., 2018, II, 371 ss., con nota di C. Spinelli; Biasi M., Il Tribunale di Torino e la qualificazione dei riders di Foodora, in Arg. Dir. Lav.,, n. 4-5, 2018, 1227 ss.; M. Del Conte, O. Razzolini, La gig economy alla prova del giudice: la difficile reinterpretazione della fattispecie e degli indici denotativi, in Giorn. dir. lav. rel. ind., 2018, 159, 3, 673 ss.) che aveva, invece, accolto la tesi che ricostruiva disposizione in discorso come “norma apparente” (Tosi P., L’art. 2, comma 1, d. lgs. n. 81/2015: una norma apparente?, in Arg. Dir. Lav., 2015, 6, p. 1130) proposta con successo dalla difesa della società convenuta in giudizio.

2. Il rifiuto della tesi della “norma apparente”, in consonanza con la Corte d’Appello.
Più in dettaglio, la Suprema Corte ha respinto il ricorso della piattaforma di food-delivery, confermando la pronuncia resa nel secondo grado di giudizio, statuendo che i ciclofattorini impegnati nella consegna di cibo a domicilio non sono lavoratori subordinati, ma sono ugualmente destinatari delle tutele riservate a questi ultimi, in virtù della loro riconducibilità alla figura delle collaborazioni etero-organizzate dal committente, ex art. 2, comma 1, d.lgs. n. 81/2015.
In sostanza, mentre il Tribunale aveva sposato la tesi, proposta dai legali della piattaforma in tutti i gradi di giudizio, secondo cui l’articolo 2 si profilerebbe come figura sovrapponibile alla tradizionale nozione di subordinazione (Tosi P., L’art. 2, comma 1, d. lgs. n. 81/2015: una norma apparente?, cit.), intesa come assoggettamento del lavoratore al coordinamento spazio-temporale del datore di lavoro e, per conseguenza, escluso, nel caso di specie, non soltanto la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato ma anche l’etero-organizzazione dei rider, essendo tale nozione “addirittura più limitata e ristretta di quella dell’art. 2094 c.c.” (Tullini P., Prime riflessioni dopo la sentenza di Torino sul caso Foodora, in Lavoro, Diritti, Europa, 2018, n. 1, p. 8; Spinelli C., op. ult. cit., p. 377), la Cassazione, con argomenti qui consonanti con quelli impiegati dalla Corte d’Appello, respinge definitivamente la teoria della “norma apparente”: i due giudici collegiali concordano, in primo luogo, sul presupposto che ad ogni norma di legge vada assegnato un contenuto precettivo – giacché, secondo le regole ermeneutiche, in presenza di disposizioni suscettibili di diverse interpretazioni, va sempre privilegiata quella che, anche con qualche sforzo, è in grado di conferirle senso e funzione nel sistema giuridico (v. punto 17 della motivazione) – e, in secondo luogo, sul fatto che l’interprete, per assegnare un’utilità alla nuova fattispecie, debba contestualizzarla e rintracciane la ratio anche a partire dall’evoluzione del sistema giuridico del lavoro (punti da 18 a 27), tracciando necessariamente i pur labili confini tra subordinazione (art. 2094 c.c.) ed etero-organizzazione (art. 2, d.lgs. n. 81/2015) nonché tra etero-organizzazione e coordinamento (art. 409, n. 3, c.p.c.) (sul punto v. infra, par. 3).
Per la Cassazione, non vale ad escludere la riconducibilità del lavoro dei rider all’art. 2, comma 1, la circostanza che i medesimi potessero decidere se svolgere o meno i turni di lavoro. A fronte delle concrete caratteristiche dell’attività svolta dai ciclofattorini – secondo la ricostruzione operata nei giudizi di merito, i rider conservavano la (sola) libertà di opzionare gli slot di consegna giacché, per il resto, svolgevano la propria prestazione lavorativa secondo modalità di ritiro e consegna dei prodotti stabilite, in via unilaterale, dal gestore della piattaforma che definiva, altresì, turni e tempi di consegna, luoghi di partenza e raccolta nonché gli itinerari, con relativo monitoraggio tramite GPS – per la Corte è essenziale distinguere la libertà espressa dai lavoratori nel “candidarsi alla corsa” dall’esecuzione dell’attività lavorativa: in definitiva, se le richiamate circostanze di fatto “confermano l’autonomia del lavoratore nella fase genetica del rapporto, per la rilevata mera facoltà dello stesso ad obbligarsi alla prestazione, non valgono a revocare in dubbio il requisito della etero-organizzazione nella fase funzionale di esecuzione del rapporto, determinante per la riconduzione alla fattispecie astratta di cui all’art. 2, comma 1, del d.lgs. n. 81 del 2005” (punto 52 della motivazione).

3. La nozione di etero-organizzazione e i suoi confini (interni ed esterni), anche alla luce della ratio legis
In ordine ai confini interni ed esterni della fattispecie considerata, facendo tesoro del “vivace dibattito dottrinale – cfr. tra gli altri Ciucciovino S., Le “collaborazioni organizzate dal committente” nel confine tra autonomia e subordinazione, in Riv. it. dir. lav., 2016, I, 3, p. 321 ss.; Ferraro G., Collaborazioni organizzate dal committente, in Riv. It. Dir. Lav., 2016, I, p. 53 ss.; Mazzotta O., Lo strano caso delle “collaborazioni organizzate dal committente”, Labor, 1-2, 2016, p. 7 ss.; Nogler L., La subordinazione nel d. lgs. n. 81 del 2015: alla ricerca dell’“autorità dal punto di vista giuridico, in WP CSDLE, it., 267/2015; Nuzzo V., Il lavoro personale coordinato e continuativo tra riforme e prospettive di tutela, WP, CSDLE, n. 280/2015; Pallini M., Dalla eterodirezione alla eteroroganizzazione: una nuova nozione di subordinazione?, in Riv. Giur. Lav., 2016, 1, 65 ss.; Tosi P., L’art. 2, comma 1, d. lgs. n. 81/2015: una norma apparente?, in Arg. Dir. Lav., 2015, 6, p. 1130; L. Tria, Le “collaborazioni organizzate dal committente” tra diritto europeo e giurisprudenza di legittimità, in Riv. Giur. Lav., 2016, 1, p. 37 ss.; Perulli A., Le collaborazioni organizzate dal committente, in Tipologie contrattuali e disciplina delle mansioni a cura di Fiorillo L. - Perulli A., Giappichelli, 2015, 279 ss.; Pessi R., Il tipo contrattuale: autonomia e subordinazione dopo il Jobs Act, Labor, 3-4, 2016, p. 163 ss. – che ha accompagnato l’entrata in vigore e i primi anni di vita dell’art. 2, comma 1, del d.lgs. del 2015” (così, espressamente, al punto 11 della motivazione), la Suprema Corte efficacemente riassume che “una volta ricondotta la etero-organizzazione ad elemento di un rapporto di collaborazione funzionale con l’organizzazione del committente, così che le prestazioni del lavoratore possano, secondo la modulazione unilateralmente disposta dal primo, opportunamente inserirsi ed integrarsi con la sua organizzazione di impresa, si mette in evidenza (nell’ipotesi dell’art. 2, d.lgs. n. 81 del 2015) la differenza rispetto ad un coordinamento stabilito di comune accordo dalle parti che, invece, nella norma in esame, è imposto dall’esterno, appunto etero-organizzato” (punto 32).
Del resto, se un “coordinamento” attivo del collaboratore o, quantomeno, un coordinamento consensuale appariva, almeno ad una parte della dottrina che si era occupata dell’art. 409, n. 3, c.p.c., già richiesto da esigenze di carattere sistematico sia prima (Pedrazzoli M., Prestazione d’opera e parasubordinazione, cit.) sia dopo l’introduzione del lavoro a progetto (Pedrazzoli M., Riconduzione a progetto delle collaborazioni coordinate e continuative, lavoro occasionale e divieto delle collaborazioni semplici: il cielo diviso per due, in Id. (coordinato da), Il nuovo mercato del lavoro: commento al D.lgs. n. 276/2003, Bologna, Zanichelli, 2004, p. 684 ss., spec. 706 s.; Zoli C., Contratto e rapporto tra potere e autonomia nelle recenti riforme del diritto del lavoro, in Dir. Lav. Rel. Ind., p. 359, qui 367 s.; Martelloni F., Lavoro coordinato e subordinazione. L’interferenza delle collaborazioni a progetto, Bup, Bologna, 2012, spec. pp. 170 ss. e pp. 203 ss.) e, comunque, a partire dell’entrata in vigore del decreto legislativo n. 81 del 2015 (ex multis, Perulli A., Costanti e varianti in tema di subordinazione e autonomia, in Lav. Dir., 2015, p 259 ss.; Razzolini O. La nuova disciplina delle collaborazioni organizzate dal committente. Prime considerazioni, WP CSDLE “Massimo D?Antona”.IT – 265/2015), oggi tale interpretazione risulta piuttosto univoca e, giustamente, la Cassazione la adotta, opportunamente richiamando la norma d’interpretazione autentica della disposizione processuale sul lavoro parasubordinato (art. 15, comma 1, lett. a), l. n. 81/2017).
I giudici vi fanno riferimento, prima implicito (punto 32) e poi anche espresso (punto 53), ritenendo che si debba partire da qui per stabilire il confine interno al variegato mondo del lavoro autonomo continuativo – ossia diretto a soddisfare un interesse duraturo del committente al continuativo adempimento (Pedrazzoli M., Prestazione d’opera e parasubordinazione, in Riv. it. dir. lav., 1984, p. 506 ss., specie p. 518 s.): atteso che le modalità di coordinamento di cui all’art. 409 n. 3 sono sempre consensuali, nel caso dell’art. 2, comma 1, d.lgs. n. 81/2015 vige “un regime di autonomia ben diverso” e “significativamente ridotto” (punto 33), tanto da giustificare, in base alla plausibile e ragionevole (punto 60) scelta del legislatore, un’equiparazione, quod effectum, al lavoro subordinato (punti 26, 27 e 53).
Non è, peraltro, necessario che detta etero-organizzazione si sostanzi sempre in un coordinamento spazio-temporale della prestazione lavorativa: la congiunzione “anche”, con cui il testo della disposizione applicabile ratione temporis introduce(va) il riferimento al tempo e al luogo di lavoro, assume per la Corte “valore esemplificativo” (punto 35), di tal che sono ammissibili forme di determinazione unilaterale del contesto organizzativo anche differenti, purché tali da impedire che il collaboratore organizzi «autonomamente l’attività lavorativa» (come prevede la novella del 2017 all’art. 409 n. 3, c.p.c.). Se per la sentenza ciò vale rispetto al passato, è pressoché scontato che varrà per il futuro, essendo il legislatore tornato sulla disposizione in discorso (d.lgs. n. 101/2019, convertito in l. n. 128) rendendone il contenuto sovrapponibile a quello risultante dall’interpretazione dei giudici di legittimità.
Il lavoro etero-organizzato postula, insomma, l’integrazione funzionale dell’attività del collaboratore nell’organizzazione di cui il committente è titolare, in base a moduli o assetti organizzativi, unilateralmente predisposti da quest’ultimo, che interferiscono (Perulli A., Il Jobs Act degli autonomi: nuove (e vecchie) tutele per il lavoro autonomo non imprenditoriale, cit., p. 173), di fatto (Del Punta R., Diritto del lavoro, cit., p. 370.
) con la prestazione di lavoro, condizionandola sul piano del tempo, del luogo (fasce orarie del servizio, turni di lavoro, tempi di consegna, zone di partenza, indirizzi di destinazione ecc.) o delle modalità d’integrazione nell’organizzazione altrui (forme di interazione codificata coi colleghi, condivisione di sistemi operativi, procedure di lavoro ecc.), necessarie a far sì che la prestazione sia utile al perseguimento delle finalità economico-produttive cui detta organizzazione è preordinata.
Su opposto versante, in ordine ai confini esterni con l’area contermine della subordinazione, la presenza della figura di nuovo conio fa, ovviamente, salva la possibilità di riconoscere la sussistenza di un vero e proprio rapporto di lavoro subordinato quando manchi ogni margine di autonomia nella fase genetica del rapporto – invece presente nel caso di specie – e ogniqualvolta sia riscontrato il concreto esercizio dei poteri di conformazione della prestazione debitoria, tipici del datore di lavoro, “secondo i criteri elaborati dalla giurisprudenza in materia” (punto 43).
Tali conclusioni paiono alla Corte perfettamente coerenti con la ratio della disposizione che ha profilato la fattispecie delle collaborazioni etero-organizzate, la cui genealogia è puntualmente e dettagliatamente ricostruita nei punti da 18 a 27 della motivazione: in estrema sintesi, dopo il superamento delle collaborazioni a progetto (art. 52), d.lgs. n. 81/2015) e la rivivescenza dei tradizionali rapporti di lavoro parasubordinato (art. 409 n. 3, c.p.c.), “il legislatore, in una prospettiva antielusiva, ha inteso limitare le possibili conseguenze negative, prevedendo comunque l’applicazione della disciplina del rapporto di lavoro subordinato a forme di collaborazione, continuativa e personale, realizzate con l’ingerenza funzionale dell’organizzazione predisposta unilateralmente da chi commissiona la prestazione” (punto 23; in tal senso, in dottrina, Magnani M., Autonomia, subordinazione, coordinazione, p. 22, la quale parla di «persistente finalità antielusiva della nuova normativa»).
Così, se l’ambito della subordinazione è contrassegnato dal potere unilaterale di conformazione della prestazione lavorativa in capo al creditore, il quale specifica la sfera debitoria (in rapporto alle modalità, al tempo e allo spazio) facendosi attore dell’integrazione della medesima nell’organizzazione di cui è titolare, l’area del lavoro autonomo etero-organizzato può caratterizzarsi, da un lato, per un margine di autonomia del collaboratore nella fase genetica del rapporto e, dall’altro, per i riverberi che l’assetto organizzativo unilateralmente predisposto dal committente può avere sull’attività del collaboratore nella “fase funzionale, di esecuzione del rapporto” (punto 33), limitandone, nei fatti, l’autonomia sul fronte del tempo e/o dello spazio (intero o esterno all’impresa) e/o, ancora, di altri fattori condizionanti.
Ciò è, invece, escluso per le collaborazioni coordinate e continuative, ove è oggi preclusa, per espressa previsione legislativa, la possibilità d’intendere il coordinamento come potere giuridicamente rilevante in capo al creditore, atteso che un tale assetto, anche definito pattiziamente (Razzolini, Jobs Act degli autonomi e lavoro esclusivamente personale, cit., p. 17; contra Carabelli U., Collaborazioni e lavoro occasionale tra autonomia e subordinazione, in Il lavoro autonomo e il lavoro agile alla luce della legge n. 81/2017, a cura di in U. Carabelli e L. Fassina, Ediesse, Roma, 2018, p. 41 ss.), finirebbe per compromettere – quale inedito e significativo rovesciamento di prospettiva in questa legittima inferenza! – il grado di autonomia richiesto dall’ordinamento giuridico per non applicare le tutele del lavoro subordinato.
In questo limitato senso, è forse addirittura possibile rispondere positivamente a un interrogativo autorevolmente proposto nell’Introduzione a un recente seminario di studi tenutosi – per una strana cabala – proprio nel giorno di pubblicazione della sentenza in commento, significativamente intitolato “Oltre la subordinazione. Lavoro organizzato, coordinato e autonomo: problemi e prospettive (Università Ca’ Foscari, Master in Diritto del Lavoro/ Scuola Superiore della Magistratura/ Gruppo Frecciarossa, 24 gennaio 2020, Aula Baratto, Ca’ Foscari, Venezia) ove ai partecipanti è stato chiesto, da Adalberto Perulli, se a seguito delle più recenti tendenze della legislazione si possa immaginare “uno scenario che segna il superamento della subordinazione come categoria egemone”. Ciò, a una condizione: che quell’egemonia possa dirsi superata ove si intenda il coordinamento spazio-temporale tipico del regime di subordinazione quale sola chiave d’accesso alla protezione giuslavoristica; il che non significa, tuttavia, che sia da ridimensionare la rilevanza dell’asimmetria di potere nel giustificare l’intervento protettivo del diritto del lavoro (in tal senso, espressamente, il punto 60 della motivazione): semplicemente, la novità legislativa apportata dall’art. 2 comma 1, più ancora (punto 27 della motivazione) nella sua ultima versione (contenuta nel d.l. n. 101/2019, convertito in legge n. 128/2019) considera nuove morfologie del potere di cui l’ordinamento prende atto, come ne prende atto la Suprema Corte quanto lucidamente riconosce che, da un lato, “in una serie di interventi normativi…il legislatore ha cercato di far fronte, apprestando discipline il più adeguate possibili, alle profonde e rapide trasformazioni conosciute negli ultimi decenti nel mondo del lavoro, anche per effetto delle innovazioni tecnologiche” (punto 18), dall’altra che, comunque, “le modalità spazio-temporali di svolgimento della prestazione lavorativa sono, nell’attualità della rivoluzione informatica, sempre meno significative anche al fine di rappresentare un reale fattore discretivo tra l’area dell’autonomia e quella della subordinazione” (punto 35; in dottrina v. Razzolini O., La nozione di subordinazione alla prova delle nuove tecnologie, in Dir. rel. ind., 2014, p. 981; Tullini P., C’è lavoro sul web?, in Labour&LawIssues, 2015, 1, 1, 1 ss.; Id., Web e lavoro: profili evolutivi e di tutela, Giappichelli, 2016; Spinelli C., Riders: anche il Tribunale di Milano esclude
il vincolo di subordinazione nel rapporto lavorativo, cit., qui p. VII nonché, da ultimo, Donini A., Il lavoro attraverso le piattaforme digitali, Bup. Bologna, 2019; ma v. già in tempi risalenti D’Antona M., Nuove forme di lavoro tra subordinazione, coordinazione, autonomia, in Opere, a cura di B. Caruso - S. Sciarra, vol. III, tomo III, Giuffrè, Milano, 2000, p. 1294 ss.).
Sicché, dove c’è unilateralismo decisorio, direttivo o organizzativo che sia, deve esservi tutela piena e integrale del prestatore di lavoro; dove c’è consensualità e piena autonomia organizzativa del lavoratore autonomo, un eventuale regime di tutela, anche specifico, può essere individuato, graduato e modulato da specifiche disposizioni di legge.

4. Il rifiuto della teoria del tertium genus, in disaccordo con la Corte d’Appello
La pronuncia in commento è indubbiamente interessante, anche sul piano dogmatico, sia nella parte in cui rifiuta la teoria del tertium genus tra lavoro subordinato e autonomo, fatta propria dalla Corte d’Appello, sia – e più ancora – nella parte in cui descrive il nuovo spazio disegnato dall’art. 2, comma 1 del d.lgs. n. 81/2015 come area di continenza sovra-tipica (v. infra par. 5).
Stando al primo aspetto, per la Corte d’Appello di Torino, le collaborazioni etero-organizzate occupano “una terra di mezzo” interstiziale, tra autonomia e subordinazione, in grado di attrarre le fattispecie che non presentano né i connotati dell’eterodirezione dell’attività lavorativa – intesa come soggezione personale agli ordini del datore di lavoro sulle modalità del facere personale dedotto in contratto – né il tratto essenziale del lavoro autonomo continuativo, consistente nell’autonomia organizzativa precisata dal nuovo art. 409, n. 3, c.p.c..
Tale ricostruzione non persuade, tuttavia, i Giudici di legittimità, i quali escludono che l’art. 2, comma 1 sia idoneo a profilare un terzo tipo “contraddistinto da una propria identità sia a livello morfologico che funzionale e regolamentare” (cfr. punti 12, 56 e 59 della motivazione).
Sul piano morfologico, infatti, le collaborazioni etero-organizzate rappresentano, piuttosto, il segmento del lavoro autonomo continuativo più prossimo al confine con il lavoro subordinato, che per le sue caratteristiche giustifica un’estensione in blocco delle regole applicabili a quest’ultimo, disposto con una “norma di disciplina” (punto 24).
Tale impostazione, per vero molto tradizionale, è senz’altro da preferire a quella della Corte d’Appello, perché maggiormente coerente con l’assetto sistematico del diritto del lavoro sia passato che presente. Lavoro subordinato e lavoro autonomo rappresentano, infatti, in base al consueto approccio dogmatico, una «grande dicotomia» del diritto del lavoro, posto che alla summa divisio (Supiot A., Lavoro autonomo e lavoro subordinato, in Dir. rel. ind., 2000, n. 2, p. 217 ss., qui p. 218.) corrispondono le qualità a suo tempo riconosciute da Norberto Bobbio alle grandi dicotomie nella teoria del diritto (Bobbio N., Dell’uso delle grandi dicotomie nella teoria del diritto; Id., La grande dicotomia, in Id., Dalla struttura alla funzione. Nuovi studi di teoria del diritto, Milano, Edizioni di Comunità, 1980, rispettivamente pp. 123-144 e 145-163): «nel processo di ordinamento e di organizzazione del proprio campo di indagine – scrive Bobbio – ogni disciplina tende a dividere il proprio universo di enti in due sottoclassi che sono reciprocamente esclusive e congiuntamente esaustive. Per designare il prodotto di questa operazione, che è un’operazione di classificazione, uso l’espressione “grande dicotomia”: grande sia nel senso di totale, perché, in quanto tutti gli enti, nessuno escluso, cui attualmente e potenzialmente la disciplina si riferisce debbono potervi rientrare, si differenzia dalle dicotomie parziali che ne includono solo una parte; sia nel senso di principale, perché, in quanto tende a far convergere verso di sé, a risolvere, a fondare altre dicotomie, si differenzia da altre distinzioni, che pur essendo esaustive, possono considerarsi rispetto ad essa, secondarie» (p. 145). Ebbene, nel sistema giuridico italiano, da Barassi ad oggi (Pedrazzoli M., La parabola della subordinazione: dal contratto allo status. L. Barassi e il suo dopo, in La nascita del diritto del lavoro. Il contratto di lavoro in Ludovico Barassi cent’anni dopo, Vita e Pensiero, Milano, 2003, 349 ss.) e senza soluzione di continuità, ogni forma del lavorare per altri rientra, alternativamente, in uno dei due campi della partizione binaria (V., da ultimo, Cavallini G., Il «nuovo» lavoro autonomo. Qualificazione e tutele dopo il d.lgs. n. 81/2015 e la l. n. 81/2017, Tesi di Dottorato in Diritto comparato, privato, processuale civile e dell’impresa, Università Statale di Milano, 2018, spec. p. 54-57, Biasi M., Dai pony express ai riders di Foodora, in Zilio Grandi G., Biasi M. (a cura di), Commentario breve allo statuto del lavoro autonomo e del lavoro agile, Cedam, Padova, 2018, p. 67 ss.). Ciò si mostra, con palmare evidenza, nel libro V del codice del 1942 che, in primo luogo, oppone il lavoro subordinato al lavoro autonomo, sulla base della presenza (art. 2094 c.c.) o meno (art. 2222 c.c.) del vincolo di subordinazione; in secondo luogo derubrica al rango di dicotomie secondarie altre distinzioni esaustive classiche, che diventano interne ad ambo i campi della dicotomia principale, prima fra tutte, la contrapposizione tra lavoro materiale e lavoro intellettuale, tanto cara ai socialisti della cattedra (cfr. Vardaro G., Tecnica, tecnologia e ideologia della tecnica nel diritto del lavoro, in Pol. Dir., n. 1, 1986, p. 75 ss. per il quale «mentre l’attenzione degli economisti s’era prevalentemente appuntata sulla divisione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale, intesi come paradigmi di due contrapposti atteggiamenti assumibili dal lavoro rispetto alla tecnica, quella dei giuristi si polarizzerà sulla contrapposizione tra lavoro autonomo e lavoro subordinato», qui p. 98).
Muovendosi nel solco di questa tradizionale impostazione, potrebbe sostenersi con buoni argomenti che la situazione, a ben vedere, non muta neppure quando viene posto a battesimo il lavoro parasubordinato, nelle sue successive versioni e varianti, anche recenti. Infatti, quando le collaborazioni coordinate e continuative fanno il loro ingresso stabile nell’ordinamento, grazie alla nota disposizione processuale del ’73 , il legislatore puntualizza che, pur in presenza di una relazione di lavoro contrassegnata da continuatività e coordinamento all’organizzazione altrui, il facere personale resta qualificabile come «prestazione di opera» e, pertanto, «non a carattere subordinato». Poi, quando viene introdotto il lavoro a progetto (art. 61-69, d.lgs. n. 276/03), la nuova figura si profila – secondo la dottrina più attenta – come sottotipo ricavato nell’area aperta, a-causale e a-negoziale (Pedrazzoli M., Prestazione d’opera e parasubordinazione, cit.), del lavoro autonomo coordinato (v., per i riferimenti bibliografici, Martelloni F., Lavoro coordinato e subordinazione. L’interferenza delle collaborazioni a progetto, Bup, Bologna, 2012, specie p. 136 ss.), con la collaborazione soggetta a conversione nella fattispecie contermine del lavoro subordinato – che risulta, per questa via, sovraesposta (M.T. Saffioti, Lavoro a progetto e lavoro autonomo, in DL, 2003, p. 713 ss.) – quando risulti priva del suo nuovo essenziale requisito tipico, ossia la riconducibilità ad un progetto specifico (art. 69 comma 1). Da ultimo, quando il Jobs Act introduce il concetto di lavoro etero-organizzato, il legislatore non modifica la nozione di subordinazione (Contra: Ferraro G., Collaborazioni organizzate dal committente, cit., spec. p. 62 s.; Santoro Passarelli G. Lavoro etero-organizzato, coordinato, agile e telelavoro, cit., spec. p. 774 e Id, I rapporti di collaborazione organizzati dal committente, cit., p. 20) optando – come dice anche la Cassazione (punto 25) – per una norma di disciplina che estende lo statuto protettivo del lavoro subordinato alle collaborazioni autonome continuative, di carattere personale, etero-organizzate dal committente (Punto 23 della motivazione; v. tra gli altri, in dottrina, Del Punta R., Diritto del lavoro, cit., p. 371; Perulli A., Il lavoro autonomo, le collaborazioni coordinate e le prestazioni organizzate dal committente, cit., spec. p. 11 ss.; Id., Il Jobs Act del lavoro autonomo e agile, cit., p. 52 ss.; Zoppoli A., La collaborazione eterorganizzata, cit., p. 6; Occhino A., Autonomia e subordinazione nel d.lgs. n. 81/2015, in Var. Temi DL, 2016, 2, 203 ss., spec. 211 e 240; S. Ciucciovino, Le «collaborazioni organizzate dal committente» nel confine tra autonomia e subordinazione, cit.).
Ciò non toglie, da un lato, che – diversamente da quel che la Cassazione sembra sostenere al punto 39 – pur sempre di nuova fattispecie si tratta, benché la figura di nuovo conio non ridisegni in termini estensivi la nozione di subordinazione, come pure si è pensato (tra gli altri, Ferraro G., Collaborazioni organizzate dal committente, cit., p. 62; Pallini M., Dalla eterodirezione alla eteroorganizzazione: una nuova nozione di subordinazione, spec. p. 78), delimitando, per contro, un’area di rapporti collocabili sul versante del lavoro autonomo continuativo. Dall’altro lato, pur riguardando prestazioni di lavoro giuridicamente autonome, la figura in discorso s’inscrive con qualche disagio in uno dei corni della dicotomia tradizionale (quello del lavoro autonomo), giacché certamente indugia su “una terra di mezzo dai confini labili” (punto 25) – da intendersi, se non altro, come area di incertezza qualificatoria – e interviene a tutelare “prestatori evidentemente ritenuti in condizione di «debolezza» economica, operanti in una «zona grigia» tra autonomia e subordinazione” (punto 27), estendendo loro, per di più in blocco, un regime di tutela che, in mancanza del giudizio di equivalenza operato dal legislatore, naturaliter non spetterebbe.

5. Le collaborazioni etero-organizzate come area di continenza sovra-tipica.
Poste queste premesse, riesce più facile comprendere la presenza di un passaggio affatto originale della motivazione della sentenza che – a quanto consta – non ha precedenti nella giurisprudenza della Suprema Corte né in altre pronunce di merito, poiché sembra davvero occhieggiare a itinerari della dottrina, specialmente italiana, sino a qui privi di riscontro sia nel formante legislativo, sia in quello giurisprudenziale.
Con inedita apertura al superamento delle forme tradizionali di regolazione del lavoro, i Giudici paiono relativizzare, nei punti 24 e 25 della motivazione, tanto le fattispecie fondamentali di autonomia e subordinazione quanto la consueta centralità del procedimento qualificatorio, affermando che, nella redazione dell’art. 2 comma 1, il legislatore, consapevole dell’inadeguatezza delle prime e dell’incertezza degli esiti del secondo, si è “limitato a valorizzare taluni indici ritenuti significativi (personalità, continuità, etero-organizzazione) e sufficienti a giustificare l’applicazione della disciplina dettata per il rapporto di lavoro subordinato, esonerando da ogni ulteriore indagine il giudice che ravvisi la concorrenza di tali elementi nella fattispecie concreta” (punto 24).
In tale prospettiva – proseguono i giudici – “non ha senso interrogarsi” sull’esatta collocazione di tali forme di collaborazione in un campo o nell’altro della summa divisio, perché “ciò che conta è che per esse, in una terra di mezzo dai confini labili, l’ordinamento ha statuito espressamente l’applicazione delle norme sul lavoro subordinato, disegnando una norma di disciplina”.
In questo passaggio, la Corte sembra rappresentare l’ambito d’applicazione descritto nell’art. 2, comma 1 del d.lgs. n. 81 del 2015 non già come sotto-area del lavoro autonomo o, più esattamente, fattispecie aperta gravitante nell’alveo del lavoro autonomo continuativo bensì come area di continenza sovra-tipica – per utilizzare una forma già impiegata dalla dottrina per auspicare, de iure condendo, l’introduzione del concetto di “dipendenza economica” (Perulli A., Lavoro autonomo e dipendenza economica, oggi, in Riv. giur. lav., I, 2003, p. 221) – capace di rendere persino superflua l’indagine sulla natura giuridica della prestazione sottoposta al vaglio giudiziale e il conseguente “giudizio qualificatorio di sintesi” (punto 24).
Se tale apertura – soltanto abbozzata e, per vero, smentita dalla stessa Corte (v. ultra par. 6) – avesse séguito in seno al diritto vivente, saremmo forse avviati alla prospettiva del “lavoro senza aggettivi” o lavoro sans phrase, caldeggiata da quella parte della dottrina (D’Antona M., Ridefinizione della fattispecie di contratto di lavoro. Seconda proposta di legge, in La disciplina del mercato del lavoro. Proposte per un testo unico, a cura di G. Ghezzi, Ediesse, Roma, 1996, p. 187 ss.; D’Antona M., Intervento al Convegno di Studi Domenico Napoletano, in Aa.Vv., Nuove forme di lavoro tra subordinazione, coordinazione, autonomia. Atti del Convegno di Studi Domenico Napoletano, 1997, Cacucci, Bari, p. 145 ss.; Pedrazzoli M., Consensi e dissensi sui recenti progetti di ridefinizione dei rapporti di lavoro, e Perulli A., Locatio operis e lavoro sans phrase nella prospettiva di un nuovo statuto giuridico dei lavori, entrambi in Quad. Dir. Lav. Rel. Ind., 1998, n. 21, p. 9 ss. e p. 73 ss.) la quale, constatato uno “spiazzamento” delle fattispecie fondamentali, già sul finire del secolo scorso suggeriva di stemperare la contrapposizione tra subordinazione e autonomia, modulando le tutele lungo un continuum capace di includere tutte le forme del facere personale per altri: dal lavoro subordinato in senso stretto fino al lavoro autonomo puro, passando per le forme di collaborazione che, oggi, comprendono, oltre alle collaborazioni che figurano all’art. 409 n. 3, c.p.c., pure quelle, significativamente diverse, contemplate all’art. 2, comma 1 nonché quelle escluse dal regime ivi previsto perché disciplinate da specifiche disposizioni contrattual-collettive di livello nazionale ex art. 2, comma 2, lett. a) o ritenute, per altre ragioni, non meritevoli di analoga tutela dal medesimo comma, alle successive lettere da b) a d)-ter.
Come anticipato, e come vedremo al paragrafo che segue, tale prospettazione è, in qualche misura, contraddetta dalla stessa Corte. Ma non può escludersi che il solco, indubitabilmente, tracciato possa essere approfondito da nuove decisioni, con esiti non prevedibili e potenzialmente avvincenti.

6. La disciplina applicabile al rapporto di lavoro dei rider
Non possono essere tralasciati, da ultimo, i sintetici ma rilevanti passaggi della decisione dedicati alla disciplina effettivamente idonea a regolare i rapporti di lavoro dei collaboratori etero-organizzati.
Sotto questo profilo, i Giudici di legittimità non condividono la scelta, compiuta in appello, di applicare selettivamente la normativa lavoristica, escludendo, nella specie, le tutele avverso il licenziamento illegittimo, per la natura non subordinata dei rapporti in questione
Per vero, nella decisione di secondo grado, la negazione della tutela risultava, all’esito, ragionevole, ma per ben diversa ragione: trattandosi di rapporti di lavoro a tempo determinato, che non avevano subìto alcuna interruzione ante tempus, era da escludersi la sussistenza stessa di un licenziamento; accanto a quest’argomento, come tale assorbente, restava, tuttavia, apodittica la ritenuta esigenza di non applicare la disciplina dei licenziamenti per il fatto che non si trattava di lavoratori subordinati.
In sostanza, mentre i giudici dell’Appello, accogliendo una tesi minoritaria in dottrina (v. Ciucciovino S., Le “collaborazioni organizzate dal committente” nel confine tra autonomia e subordinazione, cit.), avevano ritenuto che l’estensione di disciplina operata dall’art. 2 non fosse integrale ma selettiva, implicando una valutazione di compatibilità con la natura non subordinata dei rapporti de quibus da svolgersi, evidentemente, istituto per istituto, quelli di Cassazione, opportunamente, rilevano che l’articolo 2 “non contiene alcun criterio idoneo a selezionare la disciplina applicabile, che non potrebbe essere affidata ex post alla variabile interpretazione dei singoli giudici”, puntualizzando altresì che “in passato, quando il legislatore ha voluto assimilare o equiparare situazioni diverse al lavoro subordinato, ha precisato quali parti della disciplina della subordinazione dovevano trovare applicazione”. L’uno e l’altro argomento erano, del resto, stati tempestivamente anticipati dalla dottrina più avvertita la quale, da un lato, aveva osservato come la tesi dell’applicazione selettiva di discipline corresse «il rischio di cadere nell’arbitrio e di aprire le porte ad una discrezionalità valutativa ingovernabile» (Ferraro G., Subordinazione e autonomia nella disciplina delle collaborazioni organizzate dal committente cit.), oltre che risultare «incerta negli esiti» (Pessi R., Il tipo contrattuale: autonomia e subordinazione dopo il Jobs Act, in Lavoro 
ed esigenze dell’impresa fra diritto sostanziale e processo dopo il Jobs Act, a cura di 
O. Mazzotta, Giapichelli Editore, Torino, 2016); dall’altro aveva rilevato che, per l’appunto, il tenore testuale della disposizione non autorizzava punto l’interpretazione adottata in Appello giacché, in altri segmenti dell’ordinamento giuridico, quando il legislatore aveva inteso consentire tali operazioni ermeneutiche, le aveva ammesse con espressa previsione legislativa (così Santoro Passarelli G., I rapporti di collaborazione organizzati dal committente e le collaborazioni continuative e coordinate ex art. 409 c.p.c., in WP D’Antona n. 328/2017).
La scelta della Suprema Corte, indubbiamente da condividere, è peraltro consonante con la valutazione operata dal Ministero del lavoro nella Circolare n. 3/2016, di poco successiva al d.lgs. 81/2015, ove veniva precisato che «la formulazione utilizzata dal Legislatore, di per sé generica, lascia intendere l’applicazione di qualsivoglia istituto, legale o contrattuale (ad esempio, trattamento retributivo, orario di lavoro, inquadramento previdenziale, tutele avverso i licenziamenti illegittimi ecc.) normalmente applicabile in forza di un rapporto di lavoro subordinato».
In modo apparentemente contraddittorio, la Cassazione dice, poco oltre, che, in via generale, “non possono escludersi situazioni in cui l’applicazione integrale della disciplina della subordinazione sia ontologicamente incompatibile con le fattispecie la regolare, che per definizione non sono comprese nell’ambito dell’art. 2094 cod. civ.” (paragrafo 41), ma la contradizione è, appunto, soltanto apparente (v. contra Speziale, infra, in q. fascicolo). L’avverbio “ontologicamente” allude all’inevitabile necessità di escludere, per i collaboratori etero-organizzati, elementi consustanziali alla subordinazione, a partire dal vincolo di obbedienza: ove, in applicazione della disciplina codicistica dettata dall’art. 2104 c.c., il collaboratore fosse tenuto a osservare puntualmente le disposizioni per l’esecuzione del lavoro e per la sua disciplina, impartite dal datore di lavoro o dai suoi preposti, sarebbe irrimediabilmente compromessa la natura genuinamente autonoma della collaborazione, di tal che il rapporto non sarebbe più riconducibile alla figura di nuovo conio bensì, in virtù del sopravvenuto stato di soggezione gerarchica all’altrui potere, allo schema tipico dell’art. 2094 c.c.

 

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