Testo integrale con note e bibliografia
1. Premessa
Come anticipato nel titolo, credo che Corte cass. n. 1663/2020 sia un primo passo nel cammino ermeneutico dell’art. 2, co. 1 d.lgs. n. 81/2015 (versione originaria: in seguito ‘/2015 o vecchio’) , perché non solo si lascia dietro più di un interrogativo teorico e pratico, ma anche si presenta oggi rivisto dall’art. 1 d.l. n. 101/2019, convertito con modificazioni nella l. n. 128/2019 (versione corretta: in seguito ‘/2019 o nuovo’) nell’ambito di un contesto normativo ben diverso. Nella motivazione si dà atto, riassumendolo in quattro filoni ermeneutici principali, del vasto e vivace dibattito dottrinale, che certo riprenderà fiato dopo questo primo intervento, proiettandosi sull’aliquid novi normativo intervenuto dal 2015 al 2019.
È noto che l’itinerario giudiziale di quello passato alla cronaca come il caso “Foodora” si è articolato sull’usuale processo a tre tempi, costituito, il primo, da Tribunale Torino 7/5/2018; il secondo, da Corte d’Appello 4/2/2019; il terzo da Corte di Cassazione 1663/2220. Non intendo ricostruirlo nel suo svolgimento cronologico, se non nel senso di tenerlo presente a fare da sfondo al discorso che intende qui riprendere il percorso argomentativo effettuato dalla Corte di Cassazione. E dandovi inizio farò ricorso ad una distinzione operativa fra “fattispecie concreta” e “fattispecie astratta”, nella sua rilevanza tralatizia - pur dando atto che non è unanimemente condivisa - a cominciare dall’individuazione della stessa nozione di fattispecie.
2. L’art. 2, co. 1 (versione originaria 2015): la fattispecie “concreta”
Circa la individuazione della “fattispecie concreta”, quale costituita dalla vicenda dei riders di Foodora, questa è stata fatta dal Tribunale e recepita dalla Corte d’Appello di Torino, sì da essere riproposta dalla Cassazione, se pur con qualche accentuazione diversa. Riprendendola dalla motivazione di quest’ultima, risulta articolata sulle fasi di conclusione del contratto e di esecuzione del relativo rapporto, che sinteticamente possono essere così rese:
A) La fase di conclusione del contratto contempla una duplice tappa, quella precontrattuale e quella contrattuale. La prima (precontrattuale), era data dalla previa compilazione di un questionario sul sito di Foodora, con una successiva convocazione per un colloquio presso la sede della società: qui veniva richiesta la disponibilità di uno smartphone e di una bicicletta, nonché avanzata la proposta di una attività coordinata e continuativa, cui avrebbe fatto seguito la consegna dei dispositivi di sicurezza e l’attrezzatura per il trasporto. La seconda (contrattuale) era costituita dalla sottoscrizione di un contratto di collaborazione coordinata e continuativa a tempo determinato, che, come tale, faceva salvo il coordinamento generale della società; ma escludeva l’esistenza di qualsiasi subordinazione, quale connotata da un potere gerarchico o disciplinare ovvero da un vincolo di presenza e di orario. Il che si traduceva per il lavoratore nella libertà di recedere ante tempus, previo un preavviso di trenta giorni, e di candidarsi o non candidarsi per una specifica corsa; nonché nell’obbligazione, una volta candidatosi, ad effettuare la consegna entro trenta minuti dall’orario indicato per il ritiro del cibo, con, in difetto, la comminatoria a suo carico di una penale di 15 euro. Il compenso era stabilito in 5,60 euro lorde per ogni ora di disponibilità.
B) La fase di esecuzione del rapporto, così come risultante dall’istruttoria di I grado, permetteva di verificare ed integrare quella contrattuale, nelle sue sequenze effettive: gestione attraverso una piattaforma multimediale e un applicativo per smartphone; pubblicazione settimanale dell’indicazione dei turni (slot), con l’indicazione del numero di riders per ogni turno; possibilità per ciascuno di essi di dare o meno la propria disponibilità per ciascun turno, peraltro revocabile (funzione swap); conferma da parte dell’azienda dell’assegnazione del turno prescelto; presentazione del rider nei luoghi e nei tempi convenuti per iniziare la prestazione, peraltro con la libertà di astenersene (funzione no show); ricezione da parte del rider dell’ordine con l’indirizzo del ristorante e del cibo da ritirare; accettazione dell’ordine; corsa al ristorante, ricezione dell’ordine con l’indicazione del prodotto, presa in consegna, verifica della sua corrispondenza all’ordine, con conseguente comunicazione della bontà di tale verifica; ricezione dell’indirizzo del cliente, consegna da effettuare entro trenta minuti, comunicazione della regolarità dell’operazione.
Nello svolgimento successivo della motivazione, la Cassazione sembra far proprio quanto acclarato dalla Corte di Appello, cioè “l’insussistenza di un potere gerarchico disciplinare da parte della società a danno degli appellanti, giacché quest’ultima non aveva mai adottato sanzioni disciplinari a danno dei lavoratori, anche se questi dopo aver dato la loro disponibilità la revocavano (funzione swap) o non si presentavano a rendere la prestazione (no show)”. Ma, per completezza, va ricordato che il giudice di I grado aveva evidenziato come non si potesse parlare di “un costante monitoraggio della prestazione perché il sistema consentiva solo di fotografare la posizione del rider in maniera statica e non di seguire l’intero percorso in maniera dinamica”; e il giudice di II grado aveva ricordato che in base alle buste paga i ricorrenti “avrebbero lavorato in media dalle 68,5 ore mensili alle 44/45 ore”.
3. (Segue): la fattispecie “astratta”
In apertura di questa ricostruzione si deve individuare la gamma di alternative possibili aperte al giudice di I grado a fronte di un ricorso di riders della Foodora, per accertare che il loro contratto di collaborazione coordinata e continuativa a tempo determinato, prorogato fino al 30.11.2016, comportava la costituzione di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato. Venivano in gioco tre articoli: art. 2094 c.c.; art. 2, co. 1/2015; 409, co. 3 c.p.c. (versione originaria introdotta dall’art. 1 l. n. 533/1973: in seguito ‘/1973 o vecchio’). Tutta l’attenzione finiva per cadere sull’art. 2, co. 1/2015, che il Tribunale di Torino considerava una norma apparente e la Corte di Appello, un tertium genus; mentre la Corte di Cassazione reputa una norna di disciplina.
Va premesso che la Cassazione non ignora il dibattito dottrinale, che certo l’ha influenzata nella polarizzazione fra le fattispecie classiche del lavoro subordinato e autonomo; e confuta la tesi della norma “apparente” , perché si deve sempre dare un senso ad una norma “al pari di quanto l’art. 1367 prescrive per il contratto”. Questo, subito dopo aver riassunto tale dibattito in quattro figure ermeneutiche, più o meno ammodernate: lavoro subordinato, tertium genus o lavoro etero-organizzato, lavoro parasubordinato, lavoro caratterizzato dall’approccio “rimediale”. Sarà quest’ultimo ad essere in seguito prescelto, sì che vale la pena di riportarne il passo relativo, secondo cui tale approccio “rinviene in alcuni indicatori normativi la possibilità di applicare una tutela ‘rafforzata’ nei confronti di alcuni lavoratori, quali quelli delle piattaforme digitali considerati ‘deboli’, cui estendere le tutele dei lavoratori subordinati”.
Quale sarebbe la ratio dell’introduzione di questa tutela “rafforzata”, come tale destinata a giustificare l’applicazione della “disciplina del rapporto di lavoro”? Per farla breve la Cassazione ha ravvisato nell’attuazione della delega della l. n. 183/2014, la necessità di mettersi al passo delle innovazioni tecnologiche, con l’intento di “incentivare le assunzioni in forma diretta e indiretta”: confermando la centralità del contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, anche attraverso l’esonero contributivo; ma, al tempo stesso, introducendo dosi di flessibilità in entrata (part-time, lavoro intermittente o a chiamata; lavoro a termine; lavoro in somministrazione, apprendistato) e flessibilità funzionale (regime delle mansioni: art. 3 d.lgs. n. 81/2015).
Solo che a seguito della abrogazione del lavoro a progetto, con la contestuale salvezza del vecchio art. 409, n. 3 c.p.c. /1973, si è creata un’ampia area grigia, passibile di una utilizzazione abusiva, sì da spingere il legislatore a prevedere la applicazione della disciplina del lavoro subordinato a “forme di collaborazione continuative e personale realizzate con l’ingerenza funzionale dell’organizzazione predisposta unilateralmente da chi commissiona la prestazione”: personalità, continuità, etero-organizzazione. L’indagine giudiziale è ristretta alla verifica della sussistenza di tali indici fattuali nella fattispecie concreta, sufficienti a giustificare l’applicazione della disciplina dettata per il rapporto di lavoro subordinato, senza dar rilievo ad un diverso giudizio qualificatorio, così facendo intendere non essere necessario affaticarsi a etichettarlo come subordinato, tertium genus, autonomo. Certo mantiene l’occhio attento all’incipit dell’art. 2, co. 1, rimasto invariato nel passaggio dal 2015 al 2019, “A far data dal 1° gennaio 2016, si applica la disciplina del rapporto di lavoro subordinato”, che, preso alla lettera, pare comportare un paio di esclusioni: anzitutto, fissando una data d’inizio, la preesistenza della subordinazione; poi, parlando di estensione, la assenza di una conversione del rapporto. Sicché, alla fin fine, se la sbriga, col farne “una norma di disciplina” che, come tale, “non crea una nuova fattispecie” .
Parte da una concezione parziale della fattispecie “astratta”, come se questa fosse da considerare ristretta a quella individuata con una definizione generale precisa e puntuale, cui sia riconducibile per via di sussunzione la fattispecie “concreta”. Si può qui obbiettare che la fattispecie “astratta” risulta strumentale alla individuazione dell’area soggetta alla relativa disciplina, per la cui applicazione è sempre conditio sine qua non: sia data da una definizione generale, riguardante il contratto o il rapporto; sia accompagnata da elencazioni tassative o esemplificative; sia formulata in chiave di caratteristiche relative all’esecuzione; sia ricostruibile in forza della stessa disciplina dettata dalla legge. Ne segue che la chiamata in causa dell’integrazione “funzionale” della prestazione nella organizzazione predisposta dal committente non è di per sé risolutiva. Se interpretata come predeterminazione da parte datoriale della base dell’attività produttiva, cui si uniforma la prestazione, sì da essere etero-organizzata, senza bisogno di risultare guidata da un potere direttivo puntuale e costante, ricorda una rivisitazione dottrinale dell’art. 2094 c.c. alla luce dell’art. 1 l. n. 877/1973, sul lavoro a domicilio, che la amplierebbe a misura dell’intero ciclo produttivo, così da renderla utilizzabile contro il decentramento . Se, invece, letta come riconduzione all’art. 2094 c.c. delle mansioni comandate dalle macchine o esercitate dalle dirigenze apicali, intersecherebbe quella subordinazione “attenuata”, varata dalla giurisprudenza (Cass. n. 6086/1991) .
La Cassazione parla di indici, segnalandoli, prima, come “normativi”, per uniformarsi all’ultima delle quattro scelte operate dalla dottrina, quella “rimediale”; poi, come “fattuali”, significativi e sufficienti, per individuare la figura prevista dall’art. 2, co. 1/2015. Peraltro, siffatta scelta ermeneutica non comporterebbe di per sé l’esclusione della possibilità di accertare la presenza di una fattispecie, ma solo privilegerebbe la tecnica tipologica rispetto a quella sussuntiva. Cosa, questa, che la giurisprudenza pratica abitualmente per la definizione di cui all’art. 2094 c.c., per confermare l’esistenza di un potere direttivo poco o niente evidente; tanto che la dottrina aveva interpretato questo art. 2, co. 1/2015 come una integrazione legislativa della nozione di subordinazione, tramite l’incorporazione degli indici tipologici consolidati.
D’altronde, la problematica dell’individuazione della nozione cui ricollegare una certa disciplina, si è posta, oltre che per i lavoratori subordinati ex art. 2094 c.c., anche per quelli di cui all’art. 409, n. 3 c.p.c., battezzati, ieri nella versione del 1973, come para-subordinati; e, oggi, in quella del 2017 (versione corretta dall’art. 15, co. 1 l. n. 81/2017: in seguito ‘2017 o nuovo’), come autonomi. È la tendenza ad una visione polarizzata, cioè costruita sull’aut aut fra etero-organizzazione e etero-direzione, che ha condizionato la lettura dottrinale del nostro art. 2, co. 1/2015, sì da trovare sostegno sull’una e sull’altra sponda, con reciproche riserve critiche . Da entrambe le parti si sono valorizzate le discordanze letterali del testo, giocandole ciascuna a proprio favore; ma soprattutto si sono enfatizzate le presunte incoerenze delle due opposte interpretazioni dell’art. 2, co. 1/2015: contro chi ha tifato per la subordinazione, si è fatta valere la inderogabilità della figura tipica, sì da non poter spiegare le eccezioni previste al comma 2; contro chi ha parteggiato per l’autonomia, si è fatta valere la necessaria selezione della disciplina normativa della subordinazione considerata applicabile in toto dal comma 1.
Senza entrare in tale partita ermeneutica, condotta con argomentazioni estremamente sofisticate, si può osservare come in verità non esista una normativa del lavoro subordinato che possa dirsi interamente costituzionalizzata: né con riguardo alla fattispecie “astratta”, visto che la giurisprudenza del Giudice delle leggi spazia da quella sostanziale/innovativa, della “doppia alienità” relativamente al processo e al risultato produttivo (Corte cost. n. 30/1996) a quella formale dell’etero-direzione (Corte cost. n. 76/2015) , mutuata dal “diritto vivente” della Cassazione (fra le ultime, Cass. n. 5436/2019); né con rispetto alla disciplina, visto che, pur nell’ambito dell’utilizzazione assai ampia degli artt. 3, 4, 35 Cost. da parte dello stesso Giudice delle leggi, la legislazione ordinaria rivela una crescente attenuazione della regola principe dell’inderogabilità, fino a sfociare nel discusso art. 8 d.l. n. 138/2011, convertito nella l. n. 148/2011, con riguardo alla contrattazione collettiva di prossimità.
Solo che la Cassazione pensa di evitare di partecipare alla partita ermeneutica in parola, ravvisando nell’art. 2, co. 1/2015 solo “una norma di disciplina, che non crea una nuova fattispecie”. Una operazione volta a non dover scegliere fra subordinazione e autonomia, che la porterebbe a aderire ad una qualche soluzione meticcia, quale suggerita dalla dottrina, sub specie di fattispecie atipica, sovra-tipica, tertium genus. Ma, per quanto dica, non può esimersi dall’individuare quella figura cui si ricollega la disciplina prevista, che battezza come “fattispecie contrattuale” o “fattispecie litigiosa”; e lo fa, calcando la mano su quelli che considera i suoi indici normativi/fattuali. All’ uopo chiama in causa il nuovo art. 2, co. 1; non per applicare un articolo non retroattivo, ma per interpretare il vecchio art. 2, co. 1.
La Cassazione evidenzia la modifica letterale intervenuta fra il vecchio ed il nuovo art. 2, co. 1: sostituzione dell’avverbio “esclusivamente” con “prevalentemente”; soppressione dell’inciso “anche con riferimento ai tempi e luoghi di lavoro”; aggiunta del capoverso “Le disposizioni di cui al presente comma si applicano anche qualora le modalità di esecuzione della prestazione siano organizzate mediante piattaforme anche digitali”. Ma invece di sottolinearne la discontinuità testuale, ne sostiene la continuità ermeneutica: così la sostituzione dell’avverbio, che poteva rimettere in discussione la personalità della prestazione, non meriterebbe attenzione; la soppressione dell’inciso, che era interpretato come un condizionamento organizzativo di tutte le modalità di esecuzione, non cambierebbe nulla. A ben vedere l’incipit di tale inciso, costituito da “anche”, rappresenterebbe solo “una possibile estrinsecazione del potere di etero-organizzazione, sì da fare assumere a tale parola un mero valore “esemplificativo”, perché l’attuale rivoluzione tecnologica rende “le modalità spazio-temporali” sempre meno discretive a segnare la distinzione “tra l’area dell’autonomia e quella della subordinazione”.
Fino ad ora abbiamo seguito l’impostazione della Cassazione di una figura “anonima” ricostruibile in base ad indici normativi/fattuali, contestandola solo perché anche così permetterebbe di dedurne una fattispecie sia pur in forza di una tecnica, non sussuntiva, ma tipologica. Ma, si può andare ben oltre, cioè combinare gli indici in una fattispecie caratterizzata dalla etero-organizzazione di una prestazione personale e continuativa, come d’altronde lascia trasparire la Cassazione: la caratteristica “includente”, rappresentata dall’essere funzionale, cioè formattata dalla stessa organizzazione, senza la necessità di una intermediazione gerarchico-direttiva, la differenzia da quella dell’art. 2094 c.c.; mentre la caratteristica “escludente”, costituita dal non essere coordinata consensualmente, la diversifica da quella dell’art. 409, co. 3 c.p.c., che, qui, sembra evocato implicitamente nella versione corretta di cui all’art. 15, co. 1/2017.
Si potrebbe, dunque, riproporre una ricostruzione già effettuata da quella dottrina che qualifica la fattispecie non come un tertium genus, ma come una etero-organizzazione distinta dalla etero-direzione di cui all’art. 2094 c.c., configurandola come attività autonoma, con l’ovvia conseguenza di una necessaria selezione della disciplina normativa della subordinazione .
Questa, però, è la conseguenza che la Cassazione non vuole, perché, non avendola fatta la legge, dovrebbe farla la giurisprudenza a sua assoluta discrezione, cosa foriera di grande incertezza. Cosicché si auto-condanna a girare su sé stessa, sì da affermare che esista solo una norma di disciplina; per, poi, essere costretta a evocare una figura “anonima”, che, pur essendo mantenuta ben distinta da quella di cui all’art. 2094 c.c., mutuerebbe l’intera normativa della subordinazione.
Ora, comunque la si ricostruisca, la fattispecie definita dal nuovo art. 2, co. 1 si distingue nettamente da quella del vecchio art. 2, co. 1, sia per la sua portata, sia per la contestuale presenza della fattispecie di cui all’art. 47-bis del Capo V-bis, introdotto nella l. n. 81/2015 dal d.l. n. 101/2019, convertito nella l. n. 128/2019. Se, ieri, io stesso avevo potuto parlare di una nozione addirittura più restrittiva dell’art. 2094 c.c. ; oggi, non si può più farlo, risultando senz’altro più ampia, non fosse altro che per essere stata amputata proprio delle parti ritenute più significative in sede di comparazione con lo stesso art. 2094 c.c.
Non è nell’economia di questo commento ritornare sulla fattispecie del vecchio art. 2, co. 1; né, tantomeno, impegnarsi su quella, oggi rilevante, del nuovo articolo. Per quanto riguarda quest’ultima, basti accennare a tutta la problematica relativa al come distinguerla dalle figure contigue: a monte quelle subordinate, dell’art. 2094 c.c., del lavoro a domicilio, del telelavoro, del lavoro agile, del lavoro intermittente; e, a valle, quelle autonome, dell’art. 409, n. 3 c.p.c. /2017 e dell’art. 2222 c.c., nonché addirittura imprenditoriali, dell’art. 2083 c.c. A ben guardare, la sostituzione della parola “esclusivamente” con quella “prevalentemente”, già se ristretta solo all’apporto di una strumentazione più o meno sofisticata, tenderebbe a lambire il lavoro autonomo, nel suo continuum che andrebbe ora dall’ art. 409, n. 3 c.p.c. /2017 al 2222 c.c.; e se, poi, estesa ad un eventuale collaboratore, tenderebbe a sconfinare nel piccolo imprenditore di cui all’art. 2083 c.c.
Seguendo l’argomentazione della Cassazione, ci sarà da chiedersi come raccordare a due fattispecie diverse, quali, rispettivamente quelle dell’art. 2094 e dell’art. 2, co. 1/2015, la stessa tutela prevista per il lavoro subordinato.
4. (Segue): il contratto
Il contratto siglato dai riders era esplicitamente connotato come di collaborazione coordinata e continuativa a tempo determinato, ma questo nomen iuris, a prescindere dal I grado, dove è sostanzialmente rispettato, nei gradi seguenti viene del tutto ignorato. Evidentemente non c’era ragione di un dubbio sufficiente a far ricorso al tipo convenuto consensualmente; ma nonostante questo, quello che la motivazione non chiarisce è l’efficacia di tale contratto, perché uno penserebbe che tutto il programma negoziale vi dipenda, con le sue prestazioni periodiche, definite nelle loro caratteristiche dinamiche di libertà e di vincolatività. Ma per la Cassazione non è così, perché in base ad una distinzione fra fase genetica e fase funzionale, per cui la prima sarebbe autonoma e la seconda etero-organizzata, colloca: nella prima fase tutte le libertà del lavoratore, quali rispondere alla originaria convocazione, firmare un contratto a tempo determinato con le clausole di libera recedibilità, previo preavviso di trenta giorni, e le funzioni di no show e swap; e nella seconda a) l’obbligo di recarsi all’orario di inizio del turno in una delle zone di partenza predefinite, b) ricevuta la notifica con l’indicazione dell’indirizzo del ristorante, procedere alla presa in consegna dei prodotti, controllarne la corrispondenza, comunicare la verifica positiva c) ricevuta la comunicazione dell’indirizzo del cliente, l’obbligo di consegna del cibo e conferma della regolarità dell’operazione. Il tutto effettuato tramite una applicazione allo smartphone.
Ora apparteranno alla genesi del rapporto la libertà del lavoratore di rispondere alla originaria convocazione, nonché a firmare il contratto con tutte le sue clausole; ma non si può dire che la libera recedibilità e le funzioni no show e swap siano riconducibili solo alla funzione del rapporto medesimo, fra l’altro trasformando in obbligo proprio quello sopra ricordato sub a), che condiziona tutto il successivo svolgimento. Esso viene escluso, come obbligo, proprio dalle funzioni di swap e no show, che permettono al lavoratore di revocare la propria disponibilità a partecipare ad un turno e, comunque, di non presentarsi al luogo di incontro prefissatogli. Sembra che, in qualche modo, la Cassazione sia stata influenzata da Cass. n. 3457/2018, ricordata e confutata dalla Corte di Appello, che ammette l’esistenza della subordinazione con riguardo agli addetti al ricevimento delle giocate presso le aziende ippiche e le sale scommesse. Ma, là, ispirandosi alla nozione della doppia alienità, vi era sostenuto che la libertà di rispondere o meno alla convocazione da parte delle agenzie e sale, integrava un elemento esterno rispetto allo svolgimento del lavoro che, però, si ricostituiva ex novo ogni giorno in cui il lavoratore comunicava la propria accettazione.
Una simile suddivisione non è qui mutuabile, perché il programma negoziale previsto dal contratto è perfettamente tradotto nello svolgimento del rapporto, con le clausole delle funzioni no show e swap, che permettono al lavoratore di chiamarsi fuori dalla predeterminazione dei turni rispetto a cui si è dichiarato disponibile e, se no, di non presentarsi nel luogo fissatogli per cominciare. Bisognerebbe, altrimenti, pensare che, ogni volta che il lavoratore comunichi di essere disponibile ad effettuare un turno e si presenti nel luogo fissatogli per iniziare, si dia vita ad un nuovo rapporto di lavoro.
Se così non può essere, allora risulta poco persuasiva la configurazione come obblighi destinati a scattare in una sorta di concatenazione in una fase funzionale, solo dopo una fase genetica caratterizzata da un lavoratore che, resosi disponibile per un turno, non cambi parere (swap) e non diserti il luogo di raduno iniziale (no show). A voler utilizzare la terminologia della Cassazione, la fase genetica è quella che si conclude con la sottoscrizione del contratto; mentre la fase funzionale si apre con tale sottoscrizione.
5. (Segue): la disciplina
Procedo, rimanendo per ora all’interno delle coordinate fissate dalla Cassazione, cioè di una interpretazione del vecchio art. 2, co. 1 alla luce del nuovo, senza proiettare lo sguardo anche al Capo V-bis, sì da ritenere ricadente sotto l’art. 2, co. 1 il caso dei riders Foodora. Si vedrà nel prossimo paragrafo come ciò per l’autore di questo commento non sia così, ma intanto si può tenerlo fermo, per verificare quanto la Cassazione dica a proposito della disciplina applicabile.
Prende alla lettera l’espressione “si applica la disciplina del rapporto di lavoro subordinato”, supportandola in ragione sia della funzione nomofilattica, tale da dare certezza, sia della interpretazione sistematica. Allorché “il legislatore ha voluto assimilare o equiparare situazioni diverse al lavoro subordinato, ha precisato quali parti della disciplina della subordinazione dovevano trovare applicazione”; affermazione seguita da una esemplificazione che non si riporta qui, perché costringerebbe a spiegarne, volta a volta, la rilevanza.
Solo c’è una falla nella argomentazione, perché una normativa è costruita sulla base della relativa fattispecie; regola questa quanto mai veritiera proprio nel caso del diritto del lavoro subordinato, tanto che la sua normativa stenta a stare dietro alla mera estensione della nozione di cui all’art. 2094 c.c. Immaginiamoci, dunque, quando la figura cui riferirsi viene letta come diversa, come fa la Cassazione. Non solo diversa, ma anche apparentemente più ampia già nella sua versione di cui all’ art. 2, co. 1/2015, tanto da potersi ammettere, a giudizio della Cassazione, che, “a fronte di specifica domanda della parte interessata fondata sul parametro normativo dell’art. 2094 cod. civ., il giudice accerti in concreto la sussistenza di una vera e propria subordinazione (…), rispetto alla quale non si porrebbe neanche un problema di disciplina incompatibile”. Dal primo passo del periodo riportato (“a fronte … subordinazione”) si potrebbe dedurre che, una volta considerata la versione di cui all’art. 2, co. 1/2015 (per non parlare della versione di cui all’art. 2, co. 1/2019) più ampia di quella di cui all’art. 2094 c.c., allora risulterebbe poco comprensibile ricorrere a questa seconda invece che alla prima, assai più semplice da provare, sì da aversi una sostanziale sostituzione della stessa base portante del diritto del lavoro subordinato. Ma, dal secondo passo (“rispetto… incompatibile”) si può intuire che a chiamare in causa l’art. 2094 c.c. fa la differenza, perché elimina qualsiasi problematica circa l’applicazione dell’intera disciplina del lavoro subordinato.
Non è, poi, che la Cassazione si spinga tanto in là su questa strada. Quasi a fatica afferma che non “possono escludersi situazioni in cui l’applicazione integrale della disciplina della subordinazione sia ontologicamente incompatibile con le fattispecie da regolare, che per definizione non sono comprese nell’ambito dell’art. 2094 cod. civ., ma si tratta di una questione non rilevante nel caso sottoposto all’esame di questa Corte”. Se è vero quanto dice da ultimo, non si capisce perché abbia iniziato un discorso che non poteva concludere; ma, a prescinderne, usa - facendo ricorso alla parola bandita, “fattispecie” - l’espressione “ontologicamente incompatibile”, che vuol dire tutto o niente, perché produce a capo dell’interprete, dottore o giudice, l’impegno a verificare volta a volta se la differenza della figura dell’art. 2, co. 1/2015 e, ora, /2019, rispetto all’art. 2094 c.c., comporti o meno una esclusione parziale della relativa normativa. E, così, addio per sempre alla argomentazione fondata sulla funzione nomofilattica; perché quella certezza, che si voleva assicurare con la applicazione dell’intera disciplina della subordinazione, ritorna in alto mare, per la previsione di una eccezione restringibile e dilatabile a guisa di fisarmonica.
Peraltro, quella di una necessaria selezione della disciplina della subordinazione è stata una notazione comune della dottrina impegnata nell’interpretazione dell’art. 2, co. 1/2015 ; e, come ricorda la Cassazione, la Corte d’Appello, aveva escluso che l’articolo in parola comportasse “un’estensione generalizzata dello statuto della subordinazione”, optando per “un’applicazione selettiva delle disposizioni per essa approntate, limitate alle norme riguardanti la sicurezza e l’igiene, la retribuzione diretta e differita (quindi relativo all’inquadramento professionale) i limiti d’orario, le ferie e la previdenza ma non le norme sul licenziamento”.
Comunque la si valuti, l’elencazione della Corte d’Appello non considera quello che difetta in primis, cioè il carattere basico dell’art. 2094 c.c.: l’esercizio sia del potere direttivo, ivi compreso lo ius variandi, così come esteso di recente, sia del potere disciplinare. Ma, nella misura in cui la normativa della subordinazione dà per scontato l’esistenza di tali poteri, ne deriva per inevitabile ricaduta la sua inapplicabilità. Ne sia conferma la introduzione del lavoro agile, come rapporto di lavoro subordinato cui poter apporre un patto relativo all’esercizio consensuale di tali poteri, una volta che sia svolto fuori da quelle coordinate spazio/tempo assunte quali indici della loro esistenza.
Spingendosi oltre, la normativa della subordinazione messa sotto maggiore tensione è quella relativa alla continuità della prestazione, dove a venir in gioco è il lavoro intermittente; nonché alla disciplina dell’orario, rispetto alle quali, fra l’altro, c’è da tracciare il confine con il part-time verticale e il lavoro intermittente; ma altrettanto si può dire per la copertura previdenziale. Al riguardo non si è mancato di cercare aiuto nell’eccezione prevista dall’art. 2, co. 2, lett. a) - rimasta immutata nelle due versioni del comma 1- che prevede la possibilità di deroga alla regolamentazione legislativa della subordinazione di cui al comma 1, da parte degli “accordi collettivi nazionali stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale” tramite “discipline specifiche riguardanti il trattamento economico e normativo”. E lo si è fatto, col sostenere che di conserva l’art. 2, co. 1/2015, si limiterebbe, nell’estendere tale regolamentazione legislativa della subordinazione, al solo “trattamento economico e normativo”.
A prescinderne, è significativo che si parli di “accordi” e non di “contratti”, quasi a confermare che i lavoratori di cui all’art. 2, co. 1/2015 e /2019, non siano subordinati. Non solo, c’è ben dell’altro, perché quando nel linguaggio collettivo ci si riferisce al “trattamento economico e normativo”, si dà per scontato che sia ulteriore rispetto a quello inderogabile fissato per legge. Qui, invece il riferimento a “normativo”, come dovrebbe essere inteso: una esclusione o una rimodulazione del regime inderogabile ex lege?
Certo al riguardo bisogna dire di più, ma questo di più non serve al mio discorso, che segue, andando a vedere se, come sembra far capire la Cassazione, i riders del caso Foodora ricadano oggi sotto l’art. 2, co. 1/2019.
6. La fattispecie “concreta” e “astratta” dell’art. 47-bis
Quel che alla fine conta è che la Cassazione, pur avendo sempre presente la fattispecie “concreta”, come in tutto e per tutto riguardante i riders tipizzati dal caso Foodora, non fa cenno al Capo V-bis. È possibile che, avendo dato per scontato la continuità ermeneutica fra le due versioni della fattispecie “astratta” dell’art. 2, co. 1 (l’originaria 2015 e la corretta 2019), abbia ritenuto essere la tutela prevista in tale Capo V-bis “integrativa” e non “sostitutiva” di quella subordinata.
A prescindere da quel che la Cassazione abbia potuto pensare, tenuto conto che il Capo V-bis non era applicabile per essere intervenuto dopo il maturare del caso sotto esame, ravvisarvi ora una tutela solo “integrativa” di quella subordinata, sembrerebbe trovare conferma in alcune referenze testuali.
A riconsiderarle, però, tale eventuale conferma resta assai dubbia. Si è fatto valere l’attacco dell’art. 47-bis, che apre il Capo V-bis, col determinarne - oltre allo scopo e all’oggetto - l’ambito: “Fatto salvo quanto previsto dall’art. 2, comma 1…”. Ma non è detto che tale incipit si debba leggere come se includesse l’art. 47-bis e ss. sotto l’ombrello dell’art. 2, co. 1/2019; ben può essere letto come se lo escludesse, essendo seguito dall’individuazione sia di una puntuale fattispecie “astratta”, di “lavoratori autonomi che svolgono attività di consegna di beni per conto altrui, in ambito urbano e con l’ausilio di velocipedi o veicoli motore”, costruita a stretta misura dei riders; sia di una specifica disciplina limitata, ai “livelli minimi di tutela”, assicurati dagli artt. 47-ter /47-octies.
C’è di più. L’art. 2, co. 1, nella sua doppia versione del 2015 e del 2019, non qualifica i lavoratori ricadenti sotto il suo ambito; allora si dovrebbe rimarcare come, di contro, l’art. 47-bis co. 1, dichiara “autonomi” proprio i lavoratori che effettuano le prestazioni tipiche dei riders. Se così è, la Cassazione ha avuto ragione e torto insieme: ragione, per aver creduto che fossero né autonomi né subordinati i lavoratori di cui all’art. 2, co. 1, nella versione del 2015, ma interpretata alla luce di quella del 2019; torto, per aver concluso che i riders fossero riconducibili sotto l’art. 2, co. 1.
Su quest’ultimo punto si potrebbe far valere la correlazione fra le chiamate in causa delle piattaforme digitali dall’art. 2, co. 1/2019 e dall’art. 47-bis, co. 2, nel senso che quella effettuata nel primo sarebbe poi definita nel secondo disposto, dato che il Capo V-bis, aperto dall’art. 47-bis, è rubricato “Tutela del lavoro tramite piattaforme digitali”. Ma, intanto, la formula utilizzata dall’art. 2, co. 1/2019 risulta più ampia di quella dell’art. 47-bis, co. 1, perché recita che la figura ivi prevista si realizza con un duplice “anche”, per cui le disposizioni di tale comma “si applicano anche qualora le modalità di esecuzione della prestazione siano organizzate mediante piattaforme anche digitali”, quindi pure in mancanza di piattaforme o di piattaforme digitali. Poi, lo stesso art. 47-bis, co. 2, inizia con “Ai fini di cui al comma 1 si considerano piattaforme digitali”, che, come visto, definisce anche l’ambito di applicazione dell’intero Capo V-bis. Sicché non si può dire che la specifica definizione delle piattaforme digitali, che nel comma 2 dell’art. 47-bis è riferita al precedente comma 1, possa servire a determinare quella di cui all’art. 2, co. 1/2019.
Il che riesce persuasivo, pur a restringere il campo del confronto alle sole piattaforme digitali, eventuali per l’art. 2, co. 1/2019 e necessarie per il contestuale art. 47-bis, co. 2. A colpire di primo acchito è quel che di diverso si rinviene nell’art. 47-bis, co. 2, a cominciare dall’espressione “indipendentemente dal luogo di stabilimento”, che parrebbe sancire l’irrilevanza di una diversa localizzazione della piattaforma e del lavoratore.
Ora, mancando questa espressione nell’art. 2, co. 1/2019, sembrerebbe doversene dedurre a contrario la necessità di una identica collocazione. Se questo, da un lato, costituisce un primo indizio dell’avere la fattispecie di cui all’art. 47-bis avuto a referente i riders di Foodora; dall’altro, non riesce di per sé sufficiente a concludere che, ai sensi dell’art. 2, co. 1/2019, vi debba essere una identica collocazione della piattaforma e del lavoratore, cosa che contrasterebbe con la stessa ragione dell’utilizzazione di una piattaforma digitale.
Segue, poi, che sempre l’art. 47-bis, co. 2 prevede che la piattaforma digitale fissi “il compenso”; ma trattasi di una mera ricezione di quanto stabilito al riguardo dal meccanismo di cui al successivo art. 47-quater, che costituisce un secondo indizio dell’avere tale articolo tenuto sott’occhio i riders Foodora. E, a rappresentare il terzo indizio, così da integrare una prova, è la puntualizzazione fatta dall’art. 47-bis, co. 2, con riguardo all’oggetto delle prestazioni, individuate come “attività di consegna di beni”.
Ripulito così il campo del confronto fra le due nozioni di piattaforme digitali, resta aperta una problematica creata dalla stessa terminologia utilizzata. A proposito delle “modalità di esecuzione della prestazione” l’art. 2, co. 1/2019 parla di “organizzazione” (“…organizzate…”); mentre il successivo art. 47, bis, co. 2 usa un’altra espressione, cioè “determinazione” (“…determinando …). Ora, tenuto conto che si accenna, nella rubrica dell’art. 2, di “Collaborazioni coordinate dal committente” e, nel testo del suo comma 1, di “rapporti di collaborazione …”, il ricorso al termine “organizzate” potrebbe rilanciare la tesi di un lavoro etero-organizzato ben distinto dal lavoro etero-diretto dell’art. 2094 c.c. La stessa Cassazione fa propria l’espressione di lavoro etero-organizzato, come “lavoro imposto dall’esterno”, ma solo per distinguerlo da quello coordinato di comune accordo, di cui all’art. 409, co. 1, n. 3 c.p.c./2017. Il che, però, non la fa deflettere dalla tesi che qualifica come norma di disciplina l’art. 2, co. 1/2015 (ma anche /2019), tale da non richiedere alcuna ricerca circa la natura autonoma o subordinata della figura cui tale disciplina si raccorda.
Quello che è certo, come già sottolineato, è che mentre l’art. 2, co. 1/2015 (ma neppure /2019), nulla dice al riguardo, l’art. 47-bis parla esplicitamente di “lavoratori autonomi”. Scelta, questa, che il legislatore potrebbe aver fatto proprio per poter giustificare la sottrazione dall’art. 2, co. 1 /2019 - che avrebbe comportato a suo dire l’applicazione dell’intera disciplina del lavoro subordinato - della figura di cui all’art. 47-bis, cui ricollegare solo quei “livelli minimi di tutela” menzionati nel Capo V-bis.
Pensare che ci sarebbe una differenziazione nelle caselle a cui ricondurre i riders, in ragione della continuità o discontinuità delle loro prestazioni, per cui ricadrebbero sotto l’art. 2, co. 1/2019 quelli che lo facciano in maniera continua e sotto l’art. 47-bis, co. 1 quelli che lo svolgano in maniera discontinua, non mi sembra sorretto dalla differenza testuale delle due fattispecie . La ricorrente qualificazione delle collaborazioni come “continuative”, dall’art. 409, n. 3 c.p.c. /1973 in poi, è stata utilizzata per connotare attività di lavoro non subordinate, effettuate a tempo; cosa, questa, che si ritrova nell’attuale versione dell’art. 2, co. 1/2019, anche se con una evoluzione significativa.
Ora, che questa parola, “continuative”, non ritorni nell’art. 47-bis, co. 1 è spiegabile col fatto che detto articolo individua una fattispecie autonoma ed auto-sufficiente, in sé e per la sua disciplina, quale offerta dal Capo V-bis; sì da rendere operativamente superflua la ricerca della relazione con l’art. 2, co. 1/2019. Ribadito ad abundantiam che, nel predisporre il Capo V-bis, il legislatore ha avuto sott’occhio i riders Foodora, si può incorporare la parola “continuative” in sede di interpretazione, ma solo nel senso che l’intera attività è riconducibile ad un unico contratto a tempo determinato, eventualmente prorogato, caratterizzato da prestazioni periodiche, che sono condizionate volta a volta dalla disponibilità dei riders contattati.
7. (Segue): la disciplina del Capo V-bis
La soluzione dell’enigma è data proprio da una lettura attenta della disciplina di cui al Capo V-bis, a cominciare da un breve accenno alla sua gestazione, che sembra partita da una bozza nella quale era prevista una nuova nozione di subordinazione, con una riscrittura dell’art. 2094 c.c., sì da estenderla esplicitamente anche alle prestazioni regolate da piattaforme digitali, con una diluizione della fattispecie subito apparsa eccessiva rispetto alla tipologia fattuale presa a riferimento, cioè proprio quei riders che non sembravano sottoponibili all’intera disciplina della subordinazione. Da qui, come detto, la scelta di dedicarvi un intero Capo, quello V-bis, con una determinazione dell’ambito di applicazione di una disciplina che non sembra affatto “integrativa”, ma piuttosto “sostitutiva” di quella subordinata applicabile alla fattispecie di cui all’ art. 2, co. 1/2019.
Mi sia permessa una panoramica degli artt. 47-bis/47-octies che, senza ricalcare alla lettera tale normativa, riportandola ad una visione ictu oculi, sia sufficientemente esaustiva a conferma della tesi qui sostenuta:
L’art. 47-ter (Forma contrattuale e informazioni) prevede, al comma 1, la forma ad probationem per “i contratti di lavoro di cui all’art. 47-bis”, nonché la comunicazione di ogni informazione utile “per la tutela dei loro interessi, dei loro diritti e della loro sicurezza”, con una individuazione assai meno puntuale e completa di quella a carico di ciascun datore ai sensi dell’art. 1 d.lgs. n. 152/1997 (attuazione della direttiva 91/533/CEE); ai commi 2 e 3, le conseguenze di eventuali violazioni, in aggiunta alle misure di tutela di cui all’art. 4 di quel decreto: la corresponsione di una determinata indennità risarcitoria e la valutazione “come elemento di prova delle condizioni effettivamente applicate al rapporto di lavoro”. L’art. 47-quater (Compenso) contiene, al comma 1, un rinvio ai contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni sindacali e datoriali comparativamente più rappresentative a livello nazionale, che possono “definire criteri di determinazione del compenso complessivo” correlati alle modalità della prestazione e della organizzazione; al comma 2, per “i lavoratori di cui all’art. 47-bis”, il divieto di calcolarne la retribuzione “in base alle consegne effettuate” ed il contestuale obbligo di garantirne “un compenso minimo orario parametrato ai minimi tabellari stabiliti dai contratti collettivi di settori affini o equivalenti” sottoscritti dalle organizzazioni di cui al comma 1; al comma 3, sempre per “i lavoratori di cui all’art. 47-bis” l’impegno a riconoscere loro “un’indennità integrativa non inferiore al 10 per cento” per il lavoro notturno, festivo o prestato in condizioni metereologiche sfavorevoli, così come determinato dai contratti collettivi di cui al comma 1 oppure, in difetto, da un decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali. L’art. 47-quinquies (Divieto di discriminazione) prescrive, al comma 1, per “i lavoratori di cui all’art. 47-bis” l’estensione della “disciplina discriminatoria e quella a tutela della libertà e dignità” applicata ai lavoratori subordinati, qui con riguardo anche allo “accesso alla piattaforma”; al comma 2, il divieto di escludere o ridurre “occasioni di lavoro ascrivibili alla mancata accettazione della prestazione”. L’art. 47-sexties (Protezione dei dati personali) stabilisce, all’unico comma 1, che la trattazione dei dati personali dei “lavoratori che svolgono la loro attività attraverso piattaforme digitali” sia effettuata in conformità alla regolazione, comunitaria e nazionale, vigente in materia. L’art. 47-septies (Copertura assicurativa obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali) sancisce, al comma 1, la soggezione dei “prestatori di lavoro di cui al presente capo” alla “copertura assicurativa obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali” di cui al t.u. d.p.r. n. 1124/1965, precisando come determinare il premio di assicurazione INAIL; ai commi 2 e 3, l’osservanza da parte del committente, “che utilizza la piattaforma anche digitale” di tutti gli adempimenti del datore di lavoro previsti dal d.p.r. n. 1124/1965 e “a propria cura e spese” del d.lgs. n. 81/2008. L’art. 47-octies (Osservatorio) prevede, all’unico comma 1, la costituzione presso il Ministero del lavoro del lavoro e delle politiche sociali di un Osservatorio, presieduto dal Ministro o da un suo delegato partecipato dai rappresentanti dei datori e dei lavoratori di cui all’art. 47, co. 1, designati dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, col compito di verificare “gli effetti delle disposizioni del presente capo e … proporre eventuali revisioni in base all’evoluzione del mercato del lavoro e della dinamica sociale”.
Questa panoramica rivela, a costante conferma della affermazione dell’art. 47-bis che “Le disposizioni del presente capo stabiliscono livelli minimi di tutela per i lavoratori autonomi…”, il sistematico rinvio negli articoli successivi ai lavoratori individuati in quell’articolo: “ai lavoratori di cui all’articolo 47-bis” (artt. 47-quater, co. 2 e 3, 47-septies, 47-octies co. 1); “ai contratti individuali di lavoro di cui all’articolo 47-bis” (art. 47-ter, co. 1); “ai prestatori di cui al presente capo” (art. 47-septies, co. 1). Si tratta sempre dei riders Foodora, se ce ne fosse bisogno, se ne troverebbe una conferma a tutto tondo nell’art. 47-quinquies, co. 2, dove si prevede un divieto proprio per la “esclusione dalla piattaforma e le riduzioni delle occasioni di lavoro ascrivibili alla mancata accettazione della prestazione”; e nell’art. 47-quater, co. 2, laddove si prescrive il divieto di una retribuzione “in base alle consegne effettuate”. E in tal senso si muove sempre l’art. 47-quater col delineare, al comma 1, un rinvio normale ai “contratti collettivi delle organizzazioni sindacali e datoriali comparativamente più rappresentative a livello nazionale” per fissare i “criteri di determinazione del compenso complessivo”; e col disporre, al comma 2, in difetto di tali contratti collettivi, un meccanismo alternativo. Questo vis-à-vis dell’art. 2, co. 2/2019 che alla lettera a) rinvia sì ai contratti collettivi, ma come eccezione rispetto all’applicazione della disciplina del rapporto di lavoro subordinato prevista dal suo comma 1.
Ci sono anche riferimenti ai “lavoratori che svolgono la loro attività attraverso le piattaforme digitali” (art. 47-sexties, co. 1) e al “committente che utilizza la piattaforma anche digitale” (47-octies, co. 2 e 3); solo che questi ultimi confermano la natura “sostitutiva” della disciplina di cui al Capo V-bis, dato che costituiscono richiami di quella subordinata, altrimenti non necessari se quest’ultima fosse applicabile ai sensi dell’art. 2, co. 1/2019. E, a confermare l’autosufficienza della disciplina del Capo V-bis, ci sono gli art. 47-septies e octies, sulla copertura assicurativa e sull’Osservatorio.
Qui sta la differenza su cui insistere a chiusura di questo commento fra l’art. 2, co. 1/2019 e l’art. 47-bis, perché danno sbocco a due diversi regimi, quello dei lavoratori subordinati, più o meno adattato, e quello dei riders tipizzati dal caso Foodora.