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1. La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 1663 del 2020, ha tentato di trovare il bandolo di una matassa tanto complicata da poter essere considerata un groviglio.
Da un lato, e già da tempo, le inarrestabili modificazioni della realtà economica e sociale, le evoluzioni delle tecniche produttive e, con esse, il ricorso a nuove forme di collaborazione con l’impresa.
Forme di collaborazione che sempre più spesso hanno caratteristiche diverse dal modello tradizionale del lavoro subordinato anche perché utilizzano, oramai, tecnologie nuove e sofisticate che attenuano, se non sostituiscono, quei rapporti umani che erano l’oggetto tradizionale delle discipline legislative.
D’altro lato, un legislatore che, pur mostrando di avere consapevolezza dei nuovi fenomeni, si è rivelato incapace di disciplinarli in modo coerente ed adeguato.
Ed infatti, sembra si sia preoccupato soprattutto di tentare di arginare la fuga dal lavoro, mentre, anche a ragione di una pluralità di interventi spesso non coordinati tra loro, non è riuscito né ad individuare, rigorosamente tipicizzandole, le fattispecie che attendevano di essere regolate e non è riuscito a graduare in modo ragionevole ed equilibrato le tutele applicabili a ciascuna di esse.
A ciò si aggiungano testi legislativi redatti in modo grossolano e approssimativo che sempre più hanno reso difficile il compito di chi doveva interpretarli ed applicarli.
2. E’ in questo contesto che i giudici di legittimità, con la sentenza n. 1663 del 2020, hanno tentato di dare soluzione, dopo esito diverso dei due gradi di merito, al problema della disciplina applicabile ai riders della Foodora e, cioè, ad un problema che, per tante ragioni, ben potrebbe essere considerato riassuntivo dei nuovi problemi del diritto del lavoro.
Per queste ragioni, quella sentenza riveste un’importanza particolare per i giuslavoristi in quanto costituisce un autorevole tentativo di orientare l’interpretazione delle recenti disposizioni della legge che regolano nuove forme di collaborazione all’impresa e la loro valutazione in termini giuridici.
E’ questa la ragione per cui quella sentenza ha suscitato un notevole interesse nella dottrina che l’ha commentata muovendo da punti di vista diversi.
3. Senonchè, nel nostro caso, ben si può prescindere dalla soluzione che, in quella occasione è stata data al caco concreto dal punto di vista della valutazione delle esigenze sociali che i giudici di legittimità hanno ritenuto di dover soddisfare.
Conta, invece, la motivazione che sorregge la decisione specialmente quando si tratti di una sentenza di legittimità che, per la funzione nomofilattica che le è propria, dovrebbe costituire un punto di riferimento per le future decisioni e, così, garantire la certezza del diritto.
E la motivazione è importante perché anche per le sentenze, per essere autorevoli, è necessario essere convincenti e, per essere convincenti, è necessario che l’interpretazione della legge proposta sia argomentata nel rispetto di quella tecnica che, nonostante le ironie a volte suscitate, è, e resta, indispensabile strumento, nel diritto come nelle arti e nei mestieri, per ottenere i risultati attesi.
Del resto, la tecnica, quando si tratti di sentenze, garantisce un’interpretazione rispettosa della legge alla quale i giudici, in un ordinamento democratico, sono soggetti.
In questa prospettiva, l’impressione è che le motivazioni che sorreggono la sentenza della Suprema Corte n. 1663 del 2000 suscitano qualche perplessità per le seguenti ragioni.
4. La prima ragione attiene al modo disinvolto in cui, come già avvertito da una parte della dottrina, i giudici di legittimità hanno interpretato la disposizione del primo comma dell’art. 2 del d.lgs. n. 81 del 2015 definendola come “norma di disciplina”.
In tal modo, i giudici di legittimità non solo hanno ritenuto di poter superare senza, però, risolverle, ma soltanto evitandole, le incertezze e i problemi che quella disposizione aveva suscitato, ma si sono anche addentrati in un territorio che non era di loro competenza.
Ed infatti, compito del giudice non è quello di qualificare in termini concettuali la legge, ma quello di interpretarla per dare ad essa concreta e coerente applicazione.
Le uniche qualificazioni di una disposizione della legge che competono ai giudici sono quelle che attengono all’essere, o no, una disposizione eccezionale, in quanto ne è esclusa l’applicazione oltre i casi e i tempi considerati (art. 14 disp. prel. Cod. Civ.), all’essere, o no, speciale, per accertare l’idoneità a derogare alla legge generale, ovvero, ancora all’essere, o no, una disposizione che reca interpretazione autentica di una legge precedente in quanto da quella qualificazione dipende la sua eventuale efficacia retroattiva.
5. Oltretutto, l’aver qualificato la disposizione del primo comma dell’art. 2 del d.lgs. n. 81 del 2015 coma una “norma di disciplina” nemmeno ha un senso logico, prima ancora che giuridico.
Ciò perché è un vero e proprio nonsenso una norma che detti soltanto una disciplina, senza individuare a quale fattispecie essa sia applicabile.
Né quel nonsenso può essere superato sol perché, come sembra si siano limitati a ritenere i giudici di legittimità, il primo comma dell’art. 2 della legge dovrebbe essere considerato “un un’ottica sia di prevenzione sia <rimediale>” ovvero perchè quella disposizione prevede soltanto “indici fattuali” significativi e sufficienti a giustificare l’applicazione della “disciplina del lavoro subordinato”.
Ed infatti, l’intenzione del legislatore costituisce criterio di interpretazione della legge (art. 12 dis. Prel. Cod. Civ.) e non già criterio per la sua qualificazione in termini concettuali allo stesso modo in cui la previsione di “indici fattuali” è esclusivamente funzionale all’individuazione della fattispecie regolata.
6. La seconda ragione da cui deriva l’impressione che la motivazione della sentenza n. 1663 del 2020 non sia convincente sta nell’aver escluso che la fattispecie prevista dal primo comma dell’art. 2 del d.lgs. n. 81 del 2015 sarebbe da considerare un tertium genus rispetto al lavoro subordinato e a quello autonomo.
Esclusione che si giustificherebbe con ciò che “quando l’etero-organizzazione … è marcata al punto tale da rendere il collaboratore comparabile ad un lavoratore dipendente, si impone una protezione equivalente e, quindi, il rimedio dell’applicazione integrale della disciplina del lavoro subordinato”.
Argomentazione quest’ultima che, a ben vedere, è strettamente connessa alla qualificazione del primo comma dell’art. 2 del d.lgs. n. 81 del 2015 come “norma di disciplina”.
Ed infatti, dal momento in cui si suppone che la fattispecie del collaboratore oggetto di “marcata” etero-organizzazione sia “comparabile”, pur senza essere subordinato, al lavoro subordinato, la disposizione di cui trattasi si limiterebbe a dettare una disciplina.
7. Senonchè, questa limitazione è apparente così come l’esclusione dell’esistenza di un tertium genus è priva di fondamento.
E’ priva di fondamento perché contrasta con la formulazione della rubrica e del testo del primo comma dell’art. 2 del d.lgs. n. 81 del 2015 che fanno rispettivamente esplicito riferimento alle “collaborazioni organizzate dal committente” e ai “rapporti di collaborazione”. A tener conto, com’è necessario del tenero testuale della disposizione, il riferimento è, dunque, ai “rapporti di collaborazione” previsti e regolati al n. 3 dell’art. 409 Cod. Proc. Civ. e successive modificazioni e, viene da dire, integrazioni come quella recata dal primo comma dell’art. 2 del d.lgs. n. 81 del 2015.
E che non si tratti di lavoro subordinato è ritenuto dagli stessi giudici di legittimità quando hanno affermato che la scelta del legislatore è stata quella di dettare con il primo comma dell’art. 2 del d.lgs. n. 81 del 2015 la tutela di “prestatori evidentemente ritenuti in condizione di<debolezza< economica, operanti in una <zona grigia> tra autonomia e subordinazione e che non è “assimilata” o “equiparata” al lavoro subordinato.
8. Le considerazioni fin qui svolte aiutano a comprendere le ulteriori ragioni delle perplessità suscitate dalla motivazione della sentenza n. 1663 del 2020 della Corte di Cassazione nella misura in cui, a ben vedere, la qualificazione in termini concettuali del primo comma dell’art. 2 del d.lgs. n. 81 del 2015 così come l’esistenza, o no, di un tertium genus, se pure avessero un qualche fondamento, non avevano, e non hanno, alcuna rilevanza ai fini dell’applicazione della legge.
Ed infatti, il problema era quello di sapere se le modalità che caratterizzano la collaborazione dei riders realizzavano, o no, la fattispecie che, ai sensi del primo comma dell’art. 2 del d.lgs. n. 81 del 2015 costituisce il presupposto per l’applicazione della “disciplina del lavoro subordinato”.
Orbene, come già avvertito (cfr. n. 7), dalla formulazione del testo del primo comma dell’art. 2 del d.lgs. n. 81 del 2015 risulta chiaramente che, con quella disposizione, il legislatore ha voluto dettare la disciplina di alcuni dei “rapporti di collaborazione” previsti dal n. 3 dell’art. 409 Cod. Proc. Civ.
Certo, sono note le persistenti incertezze esistenti sul significato da attribuire al concetto di “collaborazione” nel confronto con quello di “subordinazione”.
9. Incertezze, però, che ben potevano essere superate utilizzando la tecnica dei concetti. Sarebbe stato, cioè, sufficiente tener presente che il legislatore del 1973 nel prevedere le collaborazioni coordinate le aveva testualmente assimilate a quelle proprie di due contratti nomati: quello di agenzia (art. 1742 e segg. Cod. Civ.) e quelli di rappresentanza commerciale (art. 2209 Cod. Civ.).
Orbene, tali contratti, così come tutti quelli che, per ragioni storiche o per la specificità del loro oggetto, costituiscono specificazione del contratto di lavoro autonomo (ad es.: il mandato, l’appalto e la spedizione) si caratterizzano per la loro struttura.
Da un lato e a differenza del contratto di lavoro subordinato, il programma negoziale, e cioè il contenuto e l’oggetto delle obbligazioni che ne derivano, è determinato consensualmente e solo consensualmente può essere modificato.
D’altro lato, al committente è conferito il potere di dare “istruzioni” che, per definizione, è diverso dai poteri unilaterali propri del datore di lavoro.
Ne deriva che, per comprendere il significato di coordinamento sarebbe stato sufficiente tener conto dell’elaborazione giurisprudenziale di oltre mezzo secolo aveva dato al concetto di “istruzioni” impartite nell’esecuzione dei contratti nominati che la legge assimilandoli, qualifica come contratti di collaborazione coordinata.
10. Ricostruzione questa che, a ben vedere, ha trovato conferma nella disposizione di cui al primo comma dell’art. 15 della legge n. 81 del 2015, a mente del quale: “La collaborazione si intende coordinata quando, nel rispetto delle modalità di coordinamento, stabilite di comune accordo, dalle parti, il collaboratore autorizza autonomamente l’attività lavorativa”.
Disposizione ancora una volta formulata grossolanamente, ma dalla quale risulta che anche nelle collaborazioni coordinate, come nei contratti nominati alle quali sono assimilate (cfr. n. 9): programma negoziale (ancorchè definito come “modalità di coordinamento”) è determinato consensualmente, mentre l’attività lavorativa è svolta in modo autonomo, ma nel rispetto delle istruzioni del committente in quanto non avrebbe senso una lettura secondo la quale oggetto del contratto non sarebbero le reciproche obbligazioni, ma le “modalità di coordinamento”.
11. Se questa è la fattispecie del lavoro coordinato, quella prevista dal primo comma dell’art. 2 del d.lgs. n. 81 del 2015 è una fattispecie parzialmente diversa perché caratterizzata da un ulteriore elemento e, cioè, dal fatto che il committente, non solo dia istruzioni, ma organizzi anche “tempi e luogo di lavoro”.
Oltretutto, con tale lettura, si evita l’inutile e fuorviante contrapposizione tra due espressioni che, a ben vedere, sono sinonimi come lo sono “eterodirezione” e “eteroorganizzazione”.
L’unica differenza che conta, infatti, è tra subordinazione (intesa come assoggettamento a poteri unilaterali costitutivi di obblighi) e coordinamento (inteso come potere di dare istruzioni per l’esecuzione di obbligazioni già definite con il contratto).
Certo, è inevitabile che questa distinzione che in teoria appare netta ed inequivoca presenti notevoli difficoltà quando ad essa deve essere data applicazione concreta alle composite e variabili situazioni che sono oggetto di decisione.
Fatto è, però, da un lato, è questa la ragione per cui la legge chiede al giudice del merito di valutare le prove, e cioè i fatti di causa, con “prudente apprezzamento” (primo comma art. 116 Cod. Proc. Civ.).
D’altro lato, quella valutazione non solo deve essere “prudente”, ma deve essere funzionale all’applicazione delle “norme di diritto” (primo comma dell’art. 113 Cod. Proc. Civ.) e, quindi, deve essere eseguita utilizzando criteri che consentano il rispetto della legge,
12. Orbene, al riguardo, i giudici di legittimità hanno individuato il criterio di decisione ritenendo che il primo comma dell’art. 2 del d.lgs. n. 81 del 2015 debba essere interpretato nel senso che la fattispecie in esso prevista sia quella caratterizzata da ciò che “le prestazioni del lavoratore possono, secondo la modulazione unilateralmente disposta” dal committente “opportunamente inserirsi ed integrarsi con la sua organizzazione di impresa” e, quindi, una fattispecie diversa da quella caratterizzata da un “coordinamento stabilito di comune accordo tra le parti”.
Senonchè, questa interpretazione suscita perplessità perché non rispetta la formulazione del testo della legge perché svaluta l’elemento che, a mio avviso, caratterizza la fattispecie prevista dal primo comma dell’art. 2 del d.lgs. n. 81 del 2015 (applicabile ratione temporis) e, cioè, l’organizzazione da parte del committente dei “tempi ed del luogo di lavoro”.
Svalutazione risultante dall’aver ritenuto che l’organizzazione dei “tempi e del luogo di lavoro” sarebbe soltanto un elemento “esemplificativo” sia perché soppresso dall’art. 1 del d.l. n. 101 del 2019 sia perché sarebbe stato “condivisibilmente rilevato che le modalità spazio-temporali della prestazione lavorativa sono, nell’attualità della rivoluzione informatica, sempre meno esplicative anche al fine di rappresentare un fattore discretivo tra l’area dell’autonomia e quella della subordinazione”.
13. Motivazioni tutt’altro che convincenti ove soltanto si consideri che, da un lato, l’eliminazione del riferimento all’obbligazione dei “tempi e del luogo di lavoro” per effetto di una legge successiva era, e doveva essere, irrilevante rispetto all’interpretazione della legge che attendeva di trovare applicazione di ciò sia perché quell’eliminazione non era, e non poteva essere, retroattiva sia perché esprime soltanto la diversa valutazione accolta dal legislatore del 2017 rispetto a quella del 2015.
D’altro lato, il generico e approssimativo riferimento a quelle che, secondo alcuni, sarebbero le conseguenze della “rivoluzione informatica” non autorizza ad escludere la rilevanza dell’organizzazione dei “tempi e del luogo di lavoro” una volta che la legge applicabile ratione temporis considera quell’organizzazione elemento determinante ai fini dell’applicazione della “disciplina del lavoro subordinato”.
14. Fatto è che questa spregiudicata interpretazione del primo comma dell’art. 2 del d.lgs. n. 81 del 2015 ha consentito ai giudici di legittimità di escludere la violazione di legge che era stata denunciata con il ricorso.
Ed infatti, soltanto in base a quella interpretazione poteva essere escluso fosse determinante che il committente avesse, o no, effettivamente organizzato “tempi e luogo di lavoro” e, per contro, poteva essere assegnata rilevanza esclusiva ad una approssimativa e, in quanto non precisata, “etero-organizzazione nella fase funzionale di esecuzione del rapporto”.
15. Del resto, sembra quasi poter sospettare che gli stessi giudici di legittimità abbiano avvertito la fragilità di tale motivazione e che è per questo che hanno tentato di sorreggerla argomentando dalla modifica apportata al n. 3 dell’art. 409 Cod. Proc. Civ. dal primo prima comma, lettera a), dell’art. 15 della legge n. 81 del 2017.
Senonchè, a ben vedere, quel riferimento non ha pregio proprio perché approfitta della grossolana formulazione del testo di quest’ultima disposizione alla quale già è stato fatto cenno (cfr. n. 10).
Ed infatti, prevedere che si ha collaborazione coordinata soltanto quando le “modalità di coordinamento” sono “stabilite di comune accordo tra le parti” è un non senso e, al tempo stesso, una contraddizione.
Un non senso perché lo stesso concetto di coordinamento presuppone che ci sia un coordinante e un coordinato e, cioè, una situazione radicalmente diversa da quella in cui le modalità del coordinamento sono definite consensualmente e, quindi, già nella fase di stipulazione del contratto e prima ancora che le obbligazioni che ne derivano iniziano ad essere eseguite.
Contraddittoria perché, se le “modalità di coordinamento” fossero “stabilite di comune accordo tra le parti”, allora non si comprenderebbe come sia possibile che il “collaboratore organizza autonomamente l’attività lavorativa” posto che quell’“autonomia” o esclude ogni “coordinamento” ovvero riconduce la fattispecie in quella del lavoro autonomo (art. 222 Cod. Civ.).
16. Le motivazioni della sentenza della Suprema Corte n. 1663 del 2020 suscitano perplessità anche per un’ulteriore ragione.
Ed infatti, come ancora una volta già avvertito dalla dottrina, i giudici di legittimità hanno ritenuto di poter interpretare il primo comma dell’art. 2 del d.lgs. n. 81 del 2015 (e, cioè, la disposizione applicabile ratione temporis), alla luce delle modificazioni che a quella disposizione erano state apportate, nel frettoloso e scomposto succedersi di interventi legislativi, del d.l. n. 101 del 2019 (conv. in legge n. 128 del 2019).
Operazione ermeneutica di per sé sicuramente corretta, se non necessaria, in quanto il canone della totalità ermeneutica comporta, come insegnava Emilio Betti, che la legge sopravvenuta illumina il significato delle leggi già esistenti.
Senonchè, l’operazione ermeneutica non è stata correttamente eseguita dai giudici di legittimità.
Ciò perché non è stato tenuto conto che il d.l. n. 101 del 2019 non si era limitato a modificare la disposizione del primo comma dell’art. 2 del d.lgs. n. 81 del 2015, ma non solo aveva aggiunto a quest’ultimo provvedimento l’art. 47bis che espressamente qualifica “lavoratori autonomi” quelli che “svolgono attività di consegna di merci per conto altrui in ambito urbano e con l’ausilio di velocipedi o veicoli a motore… attraverso piattaforme anche digitali”, ma aveva anche dettato per questi lavoratori una nuova e articolata disciplina recata nel Capo Vbis.
Insomma, le disposizioni del 2019 prevedono e regolano una fattispecie che, nella sostanza, è quella dei riders.
17. In questa situazione sarebbe stato necessario porsi almeno il problema di sapere se la disposizione dell’art. 47bis e quelle del Capo Vbis aggiunte dal d.l. n. 101 del 2019 escludono che ai riders trovi applicazione il primo comma dell’art. 2 del d.lgs. n. 81 del 2015.
Ciò perché, le nuove disposizioni espressamente qualificano i riders come “lavoratori autonomi” e prevedono per essi una speciale disciplina che è diversa dalla “disciplina di lavoro subordinato”.
Le disposizioni del 2019, infatti, devono essere interpretate nel senso che, per il legislatore, la fattispecie dei riders è, comunque, diversa da quella prevista dal primo comma dell’art. 2 del d.lgs. n. 81 del 2015 tanto da meritare una sua speciale disciplina diversa dalla “disciplina del lavoro subordinato”.
18. Infine, desta perplessità la disinvoltura con la quale i giudici di legittimità hanno ritenuto che, quando ricorra la fattispecie di cui al primo comma dell’art. 2 del d.lgs. n. 81 del 2015 trovi applicazione la “disciplina del lavoro subordinato”.
Ed infatti, i giudici di legittimità hanno preso atto di ciò “non possono escludersi situazioni in cui l’applicazione integrale della disciplina della subordinazione sia ontologicamente incompatibile con le fattispecie da regolare che per definizione non sono comprese nell’ambito dell’art. 2094 Cod. Civ.” e che “la norma non contiene alcun criterio idoneo a selezionare la disciplina applicabile”.
Hanno, però, correttamente escluso che quella selezione possa “essere affidata ex post alla variabile interpretazione dei singoli giudici”.
Senonchè, nel caso di specie, dalla stessa esposizione dei fatti contenuta nella sentenza n. 1663 del 2020 risulta che, da un lato, i riders non avevano contestato di aver svolto lavoro coordinato e continuativo e, d’altro lato, non avevano chiesto l’integrale applicazione della “disciplina del lavoro subordinato”, ma si erano limitati a chiedere differenze retributive, il risarcimento del danno conseguente all’illegittimità del loro licenziamento e alle violazioni dell’art. 2087 nonché i danni non patrimoniali.
Risulta altresì che la Corte territoriale aveva accolto la domanda relativa alle retribuzioni dovute in base alla contrattazione collettiva del settore trasposto merci e respinto le altre.
19. In questa situazione, anche a voler considerare valide per intervenuta decadenza (art. 2113 Cod. Civ.), le rinunzie dei riders agli ulteriori diritti derivanti dall’applicazione della “disciplina del lavoro subordinato” resta che, una volta escluso si trattasse di lavoratori subordinati, qualche dubbio avrebbe potuto sorgere in ordine all’esistenza di un diritto alla retribuzione prevista dalla disciplina sindacale in attuazione del principio della retribuzione proporzionata e sufficiente (art. 36 Cost.).
E quel dubbio è ragionevole in quanto i giudici di legittimità avevano anche motivato, invocando le modifiche del primo comma dell’art. 2 del d.lgs. n. 81 del 2015 apportate dal d.l. n. 101 del 2019 (cfr. n. 12) e, quindi, sarebbe stato ragionevole tener conto anche del Capo Vbis aggiunto che, non a caso, contiene una speciale disciplina per determinare il compenso spettante ai riders.
Di conseguenza, sarebbe stato anche ragionevole a sospettare la legittimità costituzionale del primo comma dell’art. 2 del d.lgs. n. 81 del 2015 per irrazionalità e irragionevolezza nella misura in cui prevede l’applicazione di una disciplina che, come quella del lavoro subordinato, trova la sua ragione d’essere nella specifica situazione in cui, a ragione delle soggezioni e dei doveri che la legge pone a loro carico, si trovano i lavoratori subordinati. Situazioni, per definizione, diversa da quella in cui si trovano i riders se non altro perché avevano ammesso di non essere lavoratori subordinati, ma collaboratori coordinati.
20. Giunti a questo punto, verrebbe la tentazione di domandarsi qual è la morale della vicenda dei riders.
Orbene, a voler cedere alla tentazione correndo il rischio di ingrossare la schiera dei laudatores temporis acti, possa consistere in due constatazioni.
Da un lato, si deve constatare che il nostro legislatore, a prescindere dalla valutazione che può essere data delle scelte politiche affidate alla sua discrezionalità non è in grado, come lo era stato anche nel passato (basti pensare allo Statuto dei lavoratori) di emanare disposizioni formulate in termini tecnicamente corretti e comprensibili che ne consentano l’agevole applicazione e, soprattutto, disposizioni che tengano conto di quelle già in vigore e siano con esse coordinate.
D’altro lato, si deve constatare la tendenza ad un diritto giudiziario.
Ed infatti, i giudici che una volta avevano fatto coraggiosa supplenza dell’inerzia del legislatore (come avvenne per il diritto di sciopero, il contratto collettivo di diritto comune e la retribuzione sufficiente) hanno sempre più spesso la tendenza a sovrapporsi al legislatore con la conseguenza di accentrare i difetti delle leggi e di rendere il diritto sempre più “liquido”.

 

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