Testo integrale con note e bibliografia
In questo tempo d‘emergenza sanitaria lo smart working ha assunto il ruolo di trait d'union tra la salvaguardia della continuità produttiva delle aziende e le esigenze di tutela della salute dei lavoratori nonché di contenimento della diffusione dell'epidemia.
Il primo operatore economico che, per l'effetto dell'art. 87 del DI 18/2020, ha dovuto confrontarsi prepotentemente con questa diversa modalità di svolgimento della prestazione lavorativa è stato l'operatore pubblico.
Diversamente, nel settore privato, l'attivazione del lavoro agile sembra aver assunto, sin dal DPCM del 3 Aprile, piu’ le vesti di una scelta, benché ampiamente "consigliata", lasciata alla volontà datoriale; tuttavia, anche alla luce della recentissima giurisprudenza formatasi in seno ad alcuni Tribunali territoriali, quest'ultima considerazione potrebbe (forse) non risultare più così esatta.
Tra le pronunce assunte in questo periodo merita certamente una particolare annotazione quella del Tribunale di Grosseto (Sez.Lav, Rg.203/2020, cron.502/2020 del 23/04/2020) che, in data 23 aprile u.s., ha censurato il rifiuto del datore di lavoro di concedere ad un proprio dipendente, purtroppo affetto da disabilità, la possibilità di svolgere la propria prestazione lavorativa da remoto, obbligandolo a fruire delle ferie non ancora maturate in alternativa alla sospensione non retribuita del rapporto di lavoro.
In particolare, il lavoratore lamentava di essere stato illegittimamente escluso, in spregio alla normativa emergenziale e, segnatamente, all’art. 39, co. 2, D.L. 12/2020, dalla cerchia di lavoratori a favore dei quali era stato disposto il lavoro agile, in quanto soggetto affetto da una patologia polmonare determinante un’invalidità civile con riduzione della capacità lavorativa del 60% come comprovato da certificazione medica dallo stessa esibita.
La società convenuta in giudizio si difendeva affermando di aver proceduto all’attivazione dello smart working quando il ricorrente era assente dal lavoro per malattia e pertanto, al momento successivo di presentazione della sua richiesta, di esser nell’impossibilità di modificare l’assetto organizzativo ormai raggiunto, salvo dover affrontare costi significativi in termini economici e organizzativi.
Il giudice, nel dichiarare l’illegittimità della condotta della convenuta per violazione dell’art. 30, co. 2, D.L. 17 marzo 2020, in quanto la stessa non avrebbe dato precedenza alla richiesta di smart working avanzata da un soggetto con ridotta capacità lavorativa, si è soffermato su un ulteriore aspetto che il presente contributo intende sottolineare.
Il Giudice del lavoro, infatti, ha operato una valutazione in concreto circa la reale possibilità per il datore di lavoro di predisporre le misure necessarie per permettere al ricorrente di svolgere la prestazione da remoto, individuando quei circoscritti interventi che la Società convenuta avrebbe potuto/dovuto porre in essere per far accedere al lavoro agile anche il ricorrente
Vi è qualcosa in più.
Il magistrato ha infatti posto l’accento sulla mancata indicazione da parte della convenuta delle ragioni per le quali, oltre a quelle organizzative negativamente valutate, la stessa non avrebbe potuto fare a meno della presenza del ricorrente e non anche degli altri lavoratori che, invece, erano stati collocati in smart working (o non avrebbe potuto prevedere una loro adeguata turnazione).
Così argomentando il giudice sembra aver posto, in capo al datore di lavoro, un obbligo motivazionale valevole nella generalità dei casi e non circoscritto alla particolare fattispecie prevista dall’art. 30, co. 2, D.L. 17 marzo 2020 per i lavoratori disabili, in virtù del quale la parte datoriale ha sempre l’onere di motivare il diniego delle istanze di svolgimento della prestazione da remoto avanzate dai propri dipendenti durante il periodo emergenziale.
Si ritiene che il principio espresso dal Tribunale territoriale sia piuttosto innovativo.
Vero è infatti che sembra ammettere come in pendenza della normativa emergenziale succitata il datore di lavoro, laddove venga richiesto di applicare lo smartworking al personale dipendente, sia “obbligato” – in ipotesi di diniego – a dover dimostrare in giudizio di non aver potuto accogliere le suddette istanze per essersi trovato nella reale ed oggettiva impossibilità di promuovere l’attivazione del lavoro agile all’interno della propria azienda.
Pare quindi sussistere, alle condizioni sopra richiamate, un diritto “pieno” del lavoratore di pretendere lo svolgimento della prestazione in modalità agile.
Ed infatti, il giudice di Grosseto, a sostegno delle considerazioni sulla pretestuosità ed infondatezza delle motivazioni addotte dalla convenuta, ha avanzato un’interpretazione dell’art. 1, lett. hh), del DPCM 10 aprile 2020 secondo cui, laddove il datore di lavoro privato sia nelle condizioni di applicare il lavoro agile e ne abbia dato prova, assegnandolo (ad es.) ad una pletora di altri dipendenti, il ricorso alle ferie – da intendersi quale alternativa all’accesso del dipendente al lavoro agile - non può essere indiscriminato, ingiustificato o penalizzante, a maggior ragione ove sussistano dei titoli di priorità.
Da tale interpretazione è stata quindi dedotta l’inconsistenza delle argomentazioni difensive, fondate sull’assunto per cui le previsioni normative emergenziali debbano intendersi come mere raccomandazioni dirette ad aprire la strada alla semplice possibilità di ricorre al lavoro agile, in quanto tacciate d’aver come unico scopo quello dell’esclusione della configurabilità di qualsivoglia dovere o responsabilità a carico della parte datoriale.
Pertanto, il giudice ha conclusivamente affermato che la convenuta, senza sforzo apprezzabile, ben avrebbe potuto mettere il lavoratore invalido in condizioni di operare da remoto ed ha chiarito come la promozione del godimento delle ferie, concesse al lavoratore in sostituzione del lavoro agile, consiste in una misura subordinata – o quantomeno equiparata, non certo primaria – laddove vi siano le concrete possibilità di ricorrere al lavoro agile ed il datore di lavoro privato vi abbia fatto ricorso.
Conclusivamente, quindi, se ne deduce che la modalità di lavoro da remoto da semplice opportunità e mezzo di modernizzazione dell’esecuzione della prestazione lavorativa - a certe condizioni e, soprattutto, nei periodi in cui sia necessario ridurre gli spostamenti (per ragioni sanitarie) - possa essere “imposto” al datore di lavoro, tanto più se quest’ultimo dimostra per facta concludentia di essere stato in grado d’applicarlo in via generalizzata ad altri dipendenti e senza costi eccessivi per l’economica aziendale (da parametrarsi, è bene precisarlo, con riferimento alle dimensioni della società).
Il tutto senza “scomodare” altri istituti - quali ad esempio il ricorso alle ferie - che, come tali, devono essere conservate al fine di far conseguire un effettivo recupero delle energie psico-fisiche al lavoratore.