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Il mondo del lavoro è attraversato, in modo sempre più turbolento e veloce, da accelerazioni causate dalle nuove modalità e forme di prestazione.
Ancora non avevamo finito di pensare al superamento (ipotetico, perché nei fatti non realizzato) delle collaborazioni coordinate continuative, che già si sono affacciati alla ribalta i riders, i ciclofattorini, i platform workers nelle loro infinite declinazioni (compresi i lavori autonomi free lance in rete), il lavoro accessorio nella nuova complicata forma dei PrestO, lo smart working rivalutato (ed esploso) nella versione costretta del lavoro a distanza come mezzo non già di conciliazione vita-lavoro o come nuova modalità organizzativa ma quale ciambella di salvataggio nei confronti della situazione di emergenza Covid, con tutti i pregi ma anche le storture che ne sono conseguiti.
Proprio quest’ultima esperienza ci pone davanti all’interrogativo - più volte ripresentatosi nel corso di questi ultimi anni e per via delle profonde trasformazioni suddette -se il paradigma classico del lavoro subordinato sia ancora proponibile, insieme alla altrettanto classica distinzione fra esso ed il lavoro autonomo, magari passando da qualche terra di mezzo, come il famoso tertium genus, di cui si è cominciato a parlare ancora prima della Legge Biagi sul lavoro a progetto.
La congerie di prestazioni borderline di cui abbiamo solo dato poc’anzi un breve accenno, nemmeno esaustivo ripropone la domanda se abbia ancora senso la rigida distinzione fra i due mondi (quello della subordinazione e quello dell’autonomia) i cui confini si sono spesso così avvicinati, nel limite “alto” della prima e nel limite” basso” della seconda, da confondersi.
Si può ammettere che una riflessione sulle modalità di regolazione, a cominciare da un nucleo di diritti e di protezione sociale in qualche modo comune, non possa che riguardare oggi tutta una fascia di lavoratori a prescindere dalla distinzione formale della fattispecie o dall’inquadramento contrattale della prestazione (il cosiddetto “Statuto dei lavori” o come si voglia chiamare una simile progettualità); certo, anche in questo caso, si riproporrebbe il limite entro cui delimitare l’ambito di protezione: non si vede perché, ad esempio, inserirvi il lavoratore autonomo e professionale ma non il microimprenditore.
Tuttavia, a parere di chi scrive, la distinzione fra autonomo e subordinato non solo ha ancora ragione di esistere, ma proprio l’ibridazione di forme di lavoro sempre nuove e crescenti deve far riflettere non solo e non tanto sul superamento della distinzione in sé, ma sul rinvenimento di nuovi (o rivisitati) parametri per cui questa distinzione sia possibile. E ciò in modo da operare da un lato un baluardo contro i sempre presenti tentativi di sfruttare le forme ibride in senso elusivo e di depressione dei diritti dei lavoratori, dall’altro riflettendo se nella diversità delle sfaccettature del lavoro subordinato tutti i diritti debbano essere trattati allo stesso modo o non si possano trovare forme non già di attenuazione ma di aggiornamento di tali diritti (spesso fermi ad una concezione rigida della subordinazione) alle nuove flessibilità.
Dobbiamo subito salutare alcuni paradigmi del passato, anche recente, sicuramente validi ma non utili a comprendere appieno la molteplicità dei fenomeni che si presentano all’orizzonte. Lo spartiacque dell’eterodirezione, ad esempio, mal si confà – diverse sentenze anche in passato lo avevano riconosciuto - sia ai lavori ultra specializzati (ove i datore di lavoro non sarebbe in grado di ipotizzare nemmeno una direzione del lavoratore) che a quelli di elementare contenuto (tanto che una qualsiasi direzione risulterebbe ridondante).
La recente concettualizzazione dell’eterodirezione si era appalesata come strumento più radicale ed incisivo, ma la timidezza normativa con cui è stata introdotta sta portando, a quanto pare, più problemi che soluzioni.
In passato sono stati fatti tentativi di valorizzare il concetto di dipendenza economica: ma l’estrema aleatorietà della dimensione reddituale del lavoro autonomo era, e resta, un limite evidente: tale aleatorietà, in fondo esterna alle modalità ontologiche della prestazione, una volta codificata finiva per attrarre nell’ambito della protezione anche lavoratori autonomi o imprenditori semplicemente “sfortunati”, magari anche solo per via di un momento contingente temporaneamente negativo.

Proprio lo smart working può essere utile per nuove concettualizzazioni della subordinazione.
Vogliamo partire dalla riflessione, ad esempio, per cui qualcuno ha proposto – anche provocatoriamente - che la prestazione in smart working, innescando un concetto di lavoro per obiettivi, ne abbia trasformato il significato dell’operatività, portandola da una prestazione di mezzi ad una di risultato. Per quanto suggestiva, tale proposta non appare tuttavia accettabile. In quanto subordinata, anche la prestazione in smart working resta una prestazione di mezzi, in cui la retribuzione spetta per la mera messa a disposizione del lavoratore delle proprie energie. Ciò che cambia (benchè non sia poco) è unicamente che il risultato, di cui il lavoratore comunque non risponde, ha superato la mera cadenza temporale come elemento caratteristico della valutazione dell’obbligazione di mezzi. Il lavoro agile non è e non diventa una sottospecie di contratto d’opera, perché il lavoratore non resta comunque obbligato a produrre un risultato: la sua vicinanza o meno a quel risultato diventa il nuovo fattore valutativo. Se riflettiamo, non vi era alcun bisogno di ipotizzare una prestazione esterna (anche solo parzialmente) al luogo di lavoro tradizionale per arrivare ad una simile parametrazione: dal concetto (blando) del premio di risultato a quello (molto più forte ed incisivo) della retribuzione in buona (e spesso considerevole) parte variabile e legata al raggiungimento di risultati, passando per il concetto “non importa quanto stai al lavoro importa cosa raggiungi”, abbiamo assistito nel tempo addirittura alla trasformazione di luoghi di lavoro diventati contemporaneamente luoghi di svago e relazione (luoghi sostanzialmente di vita) con una parte del tempo (non più fattore importante), quand’anche trascorso in azienda, impiegata in azioni di benessere o di relax o di semplice interesse personale, familiare o relazionale. Certo non è una realtà replicabile o replicata in tutte le situazioni lavorative, ma esistente ed è sempre più diffusa.
Pure nello smart working, già la sola individuazione dei carichi di lavoro in modo equo secondo le disponibilità del lavoratore, con quel che ne consegue (ad esempio) in termini di valutazione sullo stress lavoro-correlato, rappresenta un parametro significativo, e non è l’unico, di una locatio operarum.

Allora per rimanere nell’ambito distintivo della subordinazione si deve:
- trovare un denominatore comune che racchiuda tutte le forme di subordinazione, all’assenza del quale non si possa più parlare, appunto di subordinazione;
- declinare un diritto del lavoro modulabile in funzione del diverso atteggiarsi della prestazione e delle sue caratteristiche, di modo che diritti e garanzie non possano essere uguali ed indifferenziati per tutti i subordinati; ciò per evitare qualsiasi forma di abuso, comprese quelle non irrilevanti messe in atto dal lavoratore;
- attuare forme di protezione per il lavoro non subordinato “debole”, anche qui con diverse modulazioni a seconda dei casi, senza che le stesse ricalchino quelle della subordinazione (o vi ricadano).

Occorre ancora una seconda introduzione al problema, delineata in quella che il Centro Studi e Ricerche dell’Ordine dei Consulenti del Lavoro di Milano ha sintetizzato già nel 2014 nella frase “ciò che non è realmente autonomo è subordinato”. Si è tentato perciò di percorrere un percorso, per così dire, inverso, cercando di dare una definizione del lavoro autonomo, escludendovi (e quindi rimettendo nella subordinazione, sia pure con alcune ben precise eccezioni) tutto ciò che non rientrava in determinati parametri.

In estrema sintesi, il concetto, certo non nuovo, a cui fare riferimento come carattere distintivo dell’autonomia è il concetto di rischio. L’imprenditore o il professionista (autentici), anche minimi, rischiano in proprio come condizione essenziale ed ontologica della propria scelta lavorativa. In alcuni casi si tratta di un’opzione di carattere esclusivamente personale, dove è proprio la scelta del soggetto prestatore a fare la differenza. Nella maggior parte dei casi, tuttavia, sono le condizioni oggettive a svelare i tentativi di elusione. Allora i requisiti della direzione o dell’etero-organizzazione sono validi non tanto in sé, nel tentativo di sorprendere le caratteristiche di una prestazione che si assomigliano tutte pesantemente, ma in quanto idonei a far emergere l’assenza di un rischio reale, economico e professionale, al di là di qualcosa che potrebbe essere inserito in maniera posticcia in qualche forma contrattuale. Potremmo ribaltare la formula in: “chi non rischia un dipendente è” (se si concede il riferimento scherzoso).
Al concetto di rischio e alla caratteristica del lavoro autonomo-imprenditoriale possono essere legati una serie di parametri: il possesso di un ben determinato know-how, la responsabilità diretta, anche economica, sul risultato della propria opera (tanto da suggerire l’opportunità che la stessa sia assicurata), il possesso di quei mezzi e strumenti senza i quali il rischio dell’opera diventa assolutamente relativo, una almeno tendenziale pluricommittenza . Si possono inserire delle norme che stabiliscano in via presuntiva quando un socio di una società possa presumersi autonomo (o viceversa subordinato) in funzione delle quote possedute e della reale incidenza gestionale dello stesso nella conduzione della società.
Per concludere: iIl dipendente non rischia, è in un alveo abbastanza sicuro dal punto di vista economico ed anche sotto il profilo professionale, è coperto da qualcuno (l’imprenditore, il professionista) a cui invece piace (o comunque ha scelto di) “navigare col vento in faccia”.
Potrà sembrare strano che si invochi qui questa assenza di rischio come criterio distintivo della subordinazione proprio quando al dipendente è chiesto, nello smart working, una maggiore assunzione di responsabilità, non solo sotto un profilo produttivo-professionale ma addirittura nel senso di una autosalvaguardia della propria sicurezza e salute. In realtà l’aporia è solo apparente: anzi, a ben vedere, è proprio un vulnus culturale quello che pensa di far coincidere l’assenza di rischio ultimo con l’assenza di responsabilità, che attiene ad un ambito ben diverso.
Tali concetti in realtà identificano due livelli di esposizione non solo quantitativamente ma soprattutto qualitativamente differenti: la responsabilità è infatti (o dovrebbe essere) qualità intrinseca di qualsiasi azione umana e in ambito lavorativo è l’estrinsecazione di qual nucleo di doveri e di risposte che anche in assenza di rischio effettivo il lavoratore è tenuto a dare.
Peraltro, nel rapporto di lavoro subordinato, il concetto di responsabilità unito al rischio proprio dell’imprenditore-conduttore fa discendere verso quest’ultimo una serie di obblighi e doveri verso il lavoratore, l’ambiente , la comunità. Si parla pertanto di responsabilità sociale di impresa, che dovrebbe essere la matrice che accompagna la costituzione e lo sviluppo di qualsiasi attività, non solo come forma volontaristica di miglioramento, ma come caratteristica fondamentale dell’impresa, costruzione sì di utilità ma comune (può far pensare che su questa linea si muova anche la recentissima Enciclica “Fratelli tutti”) .
E’ possibile a questo punto introdurre il concetto di cura. Il datore che accoglie il lavoratore nel proprio ambito, assume insieme al rischio proprio di impresa la responsabilità legata alla conduzione di chi a lui si affida, curando tutti gli aspetti che dal rapporto di lavoro (e non solo, pensiamo al tema della conciliazione e del benessere) possono scaturire.
Ragionare sull’individuazione del discrimen della subordinazione/autonomia nell’idea di rischio ha il vantaggio di porre a confronto i diversi gradi di responsabilità e la ricomposizione di essi nel concetto di patto. Non più, o meglio non solo, una contrapposizione di reciproci diritti/doveri “l’un contro l’altro armati”, ma una sinergia degli stessi, dove l’individuazione dei reciproci compiti e responsabilità porta alla costruzione di un’avventura comune.
Si provi, peraltro ad immaginare solo per un attimo, come questa logica – culturale, è vero, ma subito dopo anche organizzativa ed operativa – possa estendersi in senso sistemico e concentrico dal concetto di rapporto di lavoro a quello dei rapporti sociali, l’impresa con lo Stato, lo Stato col cittadino, il cittadino (e l’impresa, e lo Stato) con l’ambiente, e così via.
Ovvio che l’impianto normativo deve comunque mettere delle norme di presidio contro tutti i soggetti che, a vario titolo, escono da questa visione, che però non è un mero quadretto idilliaco; questi presidi però devono uscire dalla cultura del sospetto che anima il rapporto di lavoro. Se l’esperienza dello smart working suggerisce (ce lo stanno dicendo in tutti i modi) una nuova concezione del management, forse è il caso di affermare che ciò che si afferma in realtà è una nuova concezione del lavoro, dell’essere, della persona, dello stare al mondo; concetti che sarebbe utile (quelli sì) fossero oggetto di contaminazione continua.

Individuato che il concetto di rischio tralascia per un attimo le modalità della prestazione per individuare il nucleo ontologico della prestazione (della quale, poi, le modalità possono certamente rappresentare un parametro significativo) nel suo posizionamento al di qua o al di là della linea della subordinazione, un compito non ancora abbastanza esplorato, ma che abbiamo posto a questa riflessione, è quello della modulazione delle tutele in funzione del tipo di prestazione subordinata.
La rigidità attuale, frutto dell’impostazione del sospetto e del difensivismo, rischia di andare fuori controllo.
Non si tratta di una diminuzione tout court delle tutele, anzi in qualche caso mirato potrebbe essere pure un ampliamento, ma di un loro aggiustamento in funzione delle diverse fattispecie.
Una parte di questa modulazione può certamente venire dalla contrattazione collettiva (anche se abbiamo visto quanto poco – e talvolta anche male – sia stato usato l’art. 8 del D.L. 138/2011, la c.d. “contrattazione di prossimità”) ma sicuramente un impulso deve essere dato anche dalla struttura legislativa.
Facciamo solo qualche esempio, per esemplificare.
Lo smart working è fenomeno che ha ridotto l’assenteismo. Questo vuol dire ad esempio che il concetto di malattia (impedimento alla prestazione) trova una diversa modulazione. Che però nella regolazione non esiste. Ad esempio, non esiste oggi una certificazione medica che dica “da casa sì, al lavoro no” (tanto per stare nell’attuale, ad esempio, il lavoratore riscontrato positivo ma asintomatico), e tutto ciò che succede nel mezzo (e succede) è frutto di una decisione pattizia sotterranea fra azienda e lavoratore. Idem dicasi per la possibilità, sempre in caso di malattia, di un’indicazione che possa concedere un adempimento parziale (art. 1181 c.c.), cioè i casi, tutt’altro che infrequenti nella realtà (si pensi ad un periodo di convalescenza), in cui la prestazione possa essere offerta ma, in funzione dello stato morboso, per un periodo di tempo minore durate la giornata.
E ancora, pensiamo alla L. 104/92: siamo così sicuri, sempre per stare nell’ambito del lavoro agile, che una” prestazione smart” renda così indispensabili i tre giorni di permesso ?
Sempre in tema di lavoro agile, il rispetto dei limiti dell’orario di lavoro ed il diritto alla disconnessione, in alcune applicazioni rigide (ancorchè sicuramente precauzionali) adotta e da alcune aziende, finisce per trasformare il lavoro in un quasi telelavoro. Perchè ad esempio, in una autogestione del mio tempo, non posso uscire dai canoni classici di tutela giornaliera/settimanale (come peraltro previsto dall’art. 17 comma 5 del D. Lgs. 66/2003 per i lavoratori la cui prestazione “non è misurata o può essere determinata dai lavoratori stessi “ ) ?
Se usciamo dall’ambito del lavoro agile, siamo sicuri che abbia senso la reintegra (o anche solo la tutela, in caso di licenziamento) di un lavoratore a chiamata senza indennità di reperibilità, quando lo stesso potrebbe semplicemente non essere mai più chiamato dal datore di lavoro ?
Ancora, in un rapporto considerato autonomo e quindi di risultato/rischio quale quello dei ciclo fattorini (art. 47/bis e segg. D. Lgs. 81/ 2015) ha davvero senso determinare un compenso orario ?
La risposta è semplice: il timore di abusi e la cultura del sospetto fanno mettere paletti sostanzialmente insensati, i meccanismi del lavoro subordinato (che non è più l’unico e il medesimo lavoro subordinato) se non diversificati rischiano di creare paradossi o rigidità.
Non possiamo tuttavia tacere o nascondere il ragguardevole livello di abusi che oggi, in una situazione di obiettiva rigidità, vengono perpetrati. Le soluzioni non possono venire da norme rigide (disapplicate e spesso fonte di fuga proprio per la loro rigidità) ma dalla messa in campo di attori/fattori di crescita e di sviluppo delle realtà imprenditoriali.
Potrebbe essere utile, oltre al ruolo svolto dalle relazioni industriali (che però non attecchiscono nelle PMI per diversi motivi culturali, non ultimo l’inadeguatezza di certe parti sociali alla cooperazione e comprensione degli aspetti gestionali) ed al rafforzamento e semplificazione degli apparati di accertamento, un’azione di tutoraggio svolta da professionisti specializzati e competenti. Un po’ come si fa nella sicurezza, un esperto di gestione del personale, con precisi requisiti professionali e di formazione, magari attingendo dal bacino offerto dalla L. 12/79, in un doppio ruolo di propulsione di buone prassi e di certificazione o asseverazione dei percorsi. In tal modo il concetto di cura e di responsabilità sociale finiscono per assumere un ruolo decisivo e positivo nella cultura di impresa e del lavoro, ma anche fattivo, organizzato, concreto.
Anche la certificazione dei contratti di lavoro, se attuata correttamente, può svolgere un’importante funzione in materia.

Da ultimo, non dobbiamo dimenticare (e siamo al terzo punto della riflessione che ci eravamo proposti) a livello sociale la cura delle persone che pur caratterizzate dal rischio professionale – e quindi autonome - hanno armi deboli e spuntate di fronte ai grandi e subitanei cambiamenti (spesso, terremoti) che a livello economico o professionale il mondo del lavoro continua a subire.
Il timido tentativo della L. 81/2017 e delle successive modifiche intervenute può essere un esempio. E’ tuttavia poco comprensibile perche tali tutele, se si esclude qualche sfumatura (ad esempio nel campo della disciplina della subfornitura, in specie l’art. 9 della L. 192/98) non possa essere esteso anche alle attività microimprenditoriali. Maternità, formazione continua, ricoveri, infortuni, disabilità, disoccupazione, inserimento e politiche attive, sono temi di protezione sociale certamente destinabili al microimprenditore.
Un diverso concetto di cura, a livello sociale, non lascia fuori nessuno dei soggetti deboli, senza tuttavia pensare che tale difesa consista nel mero ricalco delle tutele riservate al lavoro subordinato, ma con interventi livelli di prestazione ad hoc ed opportunamente rimodulabili in funzione delle specificità del caso.

Tutto possibile se si comincia ad aver chiaro, senza paura, cosa sia il lavoro autonomo e imprenditoriale, che deve essere allo stesso tempo oggetto di tutela e di sostegno.
Di modo che oggi fare l’imprenditore, il professionista o il lavoratore non sia a vario titolo una forma di “condanna”, ma la libera, responsabile e (intelligentemente e ad ogni livello ) protetta estrinsecazione del proprio contributo alla costruzione comune.

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