Testo integrale con note e bibliografia

Abbiamo più volte letto e scritto che, in questo tempo funestato dalla pandemia, il termine smartworking ha assorbito modalità di lavoro in remoto, obbligate dalla necessità di mantenere distanziamenti incompatibili con i consueti assetti spaziali del lavorare.
Credo sia per questo che in diverse ricerche che iniziano a descrivere l’esperienza degli ultimi mesi dei lavoratori italiani troviamo rappresentate due visioni apparentemente contradditorie: una che presenta la modalità di lavoro in remoto come una replica adattiva del lavoro in ufficio, nulla a che vedere dunque con il lavoro “agile” propriamente detto, ma semplice risposta emergenziale, l’altra che – invece – racconta una diversa opportunità di vivere il lavoro, direi empowered ed empowering.
Non fa eccezione in questo l’indagine condotta dalla “rete lavoratrici e lavoratori agili” (@SworkerSita) rispetto alla quale vorrei proporre qualche considerazione.
Indagine che va a cogliere molte delle ambiguità e delle contraddizioni presenti in questa via “pandemica” allo smartworking.
Prima considerazione, i dati raccolti – quantitativamente rilevanti: si tratta di 2846 tra lavoratrici (53,6%) e lavoratori (46,4%) – sono relativi a due gruppi sociali ben distinti: chi lavorava in modalità agile già prima della pandemia (circa il 60% dei rispondenti, che potremmo chiamare “smartworker reali”) e chi no (gli “smartworker congiunturali”), quanto questi ultimi si segnala che per i ¾ la decisione di attivare il lavoro in remoto è stata dell’azienda, si tratta dunque di persone che si sono di fatto trovate improvvisamente “remotizzate” dal proprio di lavoro e che hanno, dunque, dovuto adattarsi ad una modalità nuova di fare il medesimo lavoro (dato questo che viene confermato dal fatto che poco più del 37% del campione totale sostiene di essere stato collocato a lavorare a casa con le stesse regole che aveva in ufficio. Si tratta quindi di lavoratrici e lavoratori che non hanno scelto nulla, ma ci si sono trovati, hanno dunque dovuto trovare un assetto nuovo che conciliasse le esigenze lavorative con quelle dettate dalla propria condizione socio-abitativa. Date tali premesse, sorprende che la quasi totalità dei rispondenti abbia visto nel lavoro in remoto un’opportunità anche per il futuro post-pandemia, pur nell’evidenziarne alcune criticità. Questo ci dice – a mio parere – della rilevanza non congiunturale del fenomeno, che ci deve portare a sviluppare una visione organica di una diversa accezione del lavoro umano, meno legata ai luoghi fisici e più al contenuto del lavoro.
Seconda considerazione, le criticità evidenziate sono fondamentalmente di due tipi: relazionali e organizzative. Relativamente alle prime, deve essere constatato che, a fronte di un 19% di entusiasti a cui non manca nulla del lavoro tradizionale, per una grande maggioranza la mancanza più avvertita è quella dei rapporti interpersonali consentita dal lavorare in ufficio (sia in senso generale, sia riguardo le relazioni specifiche con colleghi e superiori). Questo ci deve condurre a riflettere su come si possano mantenere e manutenere le relazioni in una condizione di lavoro in remoto, ingrediente ritenuto dai più indispensabile del buon lavoro.
Sul fronte organizzativo i dati mi portano a ritenere una sostanziale impreparazione delle aziende nell’affrontare il lavoro smart, dato che nella quasi totalità dei casi segnalati la struttura organizzativa aziendale è rimasta invariata e per più di un terzo dei rispondenti contenuto e regole del lavoro non sono cambiate nonostante il lavoro in remoto.
Dal mio punto di visto questo ci porta a dover riflettere circa un nuovo e diverso modo di interpretare la gestione delle persone e dei team.
In questo periodo emergenziale l’impreparazione delle aziende è stata soccorsa dalla grande resilienza dimostrata dai lavoratori e dalle lavoratrici: credo sia un azzardo pensare che questa modalità possa protrarsi ancora a lungo.
Certamente questo è un problema più per quanti avevo definiti “smartworker congiunturali”, che per i convinti. Tuttavia non si tratta certamente di un gruppo residuale di lavoratori e ciò mi porta a proporre una quarta considerazione.
L’indagine non entra nel merito della “cura” delle persone in smartworking, se non per alcuni aspetti legati alla difesa dei loro diritti. Credo però che il perdurare della condizione emergenziale, ma ancora di più la trasformazione del lavoro in senso “agile” che l’attuale condizione potrebbe spingere, ci obblighi a riflettere sulle modalità di accompagnamento delle persone che lavorano in modo non tradizionale.
Anche perché, come indicato pure dall’Art. 20 della L. 81/2017 che regola appunto il lavoro agile, nella trasformazione in atto il problema dello sviluppo e del riconoscimento delle competenze maturate si configura in modo senz’altro nuovo.
Concludo quindi sottolineando come benessere e competenze dei lavoratori siano in una relazione circolare tale per cui, a seconda della direzione assunta si possono alimentare o impoverire vicendevolmente.

 

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