TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA
Credo sia utile, innanzitutto, tornare alle origini dell’idea di “lavoro agile” – un tempo da noi definito anche come tele-lavoro –, una prospettiva (o forse un’utopia?) parte di un più ampio movimento proiettato verso la “liberazione” del lavoro (e dei lavoratori) dai vincoli dell’organizzazione fordista, e insieme verso la “liberazione” dei cittadini dalla disciplina temporale fortemente standardizzata che si è imposta insieme all’avvento di un modello di vita urbano.
Certo, sul piano empirico, la (modestissima) diffusione dello smart working, prima dell’accelerazione prodotta dalla pandemia, ha corrisposto a esigenze in buona misura diverse da quella di rendere il tempo un tempo “scelto” (come voleva evocare la bella espressione “le temps choisi”).
Il tempo scelto è quello sperimentato da Paolo Neruda e dal suo postino – nonostante il primo fosse in esilio –, è il tempo della lentezza, della creatività e della condivisione, ed è come tale un vero e proprio privilegio in una società come quella contemporanea in cui è proprio il tempo a mancare per alcuni e a riempirsi di senso di vuoto per altri, esclusi dalla partecipazione al mercato del lavoro retribuito.
D’altro canto, almeno in Italia, la soluzione del lavoro da casa – al pari delle altre forme di flessibilizzazione degli orari di lavoro, il part time in primis – ha corrisposto soprattutto all’obiettivo di rendere conciliabile il lavoro per il mercato con quello familiare.
A riflesso di un concetto, quello di “doppia presenza” che, al di là del suo indiscutibile merito storico di aver posto a tema gli equilibrismi cui sono costrette le donne occupate, ha finito con l’imporre una interpretazione dei rapporti tra famiglia e lavoro come problema di genere (femminile) e come questione conflittuale.
L’esperienza di questi mesi ci consegna invece una consapevolezza preziosa: quella per cui, tanto per le donne quanto per gli uomini, anche la qualità del lavoro è strettamente legata e sia in qualche modo dipendente alla qualità della vita, e non solo viceversa, come si tende prevalentemente a sottolineare.
A rischio di essere banali, vale la pena ricordare come il troppo lavoro (o il lavoro troppo stressante) può pregiudicare la vita familiare e personale (o anche diventare l’antidoto per compensare un bilancio insoddisfacente dal punto di vista sentimentale e relazionale); così come, viceversa, un’attività lavorativa gratificante può aiutare l’equilibrio affettivo e familiare.
Ma è anche vero il contrario, ovvero che la serenità e l’equilibrio della vita personale e degli affetti familiari può consentire di lavorare meglio; così come, viceversa, una crisi familiare può pregiudicare anche il percorso professionale, dando fiato a un circolo vizioso che spinge sempre più i soggetti ai margini della vita economica e sociale.
E, ancora, la personalità negata nel lavoro può cercare la propria realizzazione al di fuori di esso, in altri tipi di attività che le consentano di sentirsi responsabile e creativa; oppure, al contrario, la mancata autorealizzazione professionale può innestare derive depressive, compromettendo la vita affettiva o addirittura decretando la crisi della relazione coniugale (per gli uomini più spesso che per le donne).
La persona è un’unità inscindibile, non una giustapposizione di sfere e ambiti di azione, interesse, realizzazione.
E tanto più nella società contemporanea l’esigenza di dare un senso unitario al proprio corso di vita non viene meno.
A maggior ragione in un contesto come quello di questi mesi, in cui la tragedia che ci ha investiti ci ha resi più consapevoli della necessità di inscrivere le scelte e i comportamenti quotidiani in un più complessivo orizzonte di senso, sul piano individuale e su quello collettivo.
Nella gestione delle risorse umane si tratta dunque, innanzitutto, di riconoscere – e, come già si diceva, prendersene cura – l’unicità di ogni persona, anche evidentemente nel vivere un’esperienza come lo smart working.
Nella narrazione pubblica che se ne è fatta, lo smart working è apparso a tratti insostenibile per chi si è trovato a doverlo conciliare con spazi ristretti e impegni familiari resi più gravosi dalla chiusura delle scuole e dalla lontananza dei nonni; un problema che non a caso ha colpito più le lavoratrici che i lavoratori (e sarebbe stato utile, a questo riguardo, disporre di dati distinti per genere).
Una narrazione che ha dunque finito col rappresentare come problema quella che prima si riteneva la soluzione al problema della conciliazione.
Ma si tratta di una narrazione che dimentica come lo stesso smart working sia stato un privilegio rispetto a coloro (pensiamo ai lavoratori e alle lavoratrici di settori come quello della logistica, della ristorazione, delle pulizie, oltre che naturalmente della cura) che da questa possibilità sono stati esclusi e che più degli altri si sono in questi mesi portati a casa l’ansia e la stanchezza.
E che dimentica come per i tanti lavoratori e lavoratrici che abitano da soli l’organizzazione logistica è certo stata più confortevole – ed “agile” – ma il restare a casa ha significato un sostanziale annullamento della socialità che è per molti organizzata prevalentemente attorno alla sfera professionale, alla pausa mensa, all’aperitivo all’uscita dall’ufficio.
E si tratta di aspetti di cui occorrerà tener conto nell’immaginare un futuro del lavoro in cui lo smart working avrà certamente un peso superiore a quello che abbiamo conosciuto nell’epoca pre-Covid. Comunque vadano le cose.
Sta forse qui l’interpretazione da dare all’altissima percentuale di rispondenti che dichiara sì allo smart working purché volontario: un’aspettativa che probabilmente esprime, più ancora dell’aspettativa di autonomia nella gestione del proprio tempo, quella di essere riconosciuto e “curato/a” come persona con un bisogno di dare un senso unitario alla propria biografia esistenziale e professionale.