Testo integrale con note e bibliografia
1. Perché una riflessione sul lavoro agile “ordinario”
La crisi pandemica, a più di un anno dalla sua esplosione, ha inciso profondamente “sull’economia globale e sul mercato del lavoro”, imponendo cambiamenti senza precedenti: cambiamenti che hanno fatto “scoprire” quanto la tecnologia possa contribuire a migliorare e innovare la produzione. Parlare di “scoperta” quando il diritto del lavoro è nel pieno della rivoluzione digitale (o, se si preferisce, della quarta rivoluzione industriale) appare quasi surreale, ma sta di fatto - si è detto - che la pandemia si è rivelata determinante nel far comprendere le potenzialità, talvolta ignorate, dei sistemi tecnologici .
Tali considerazioni, sebbene di ampio respiro, ben si prestano a spiegare la peculiare parabola del lavoro agile: introdotto nel 2017, sulla scia di talune esperienze collettive, ha ricevuto un’accoglienza fredda, venendo reputato uno “strumento di nicchia” . Solo con le vicende epidemiche tutto cambia: il lavoro agile occupa il centro della scena produttiva, diviene il fulcro delle strategie di lotta al COVID-19 e riceve una diffusione mai così ampia.
Il lavoro agile “dell’emergenza” - per usare una formula diffusa in letteratura - non è quello “ordinario” : nasce da un “adattamento” della l. 81/2017 alle ragioni sanitarie ed economiche generate dalla pandemia . Ma, senza addentrarsi nella sua analisi, il largo impiego che ne è stato fatto ha prodotto significative trasformazioni organizzative; trasformazioni andate anche oltre il “mero” adattamento del processo produttivo e culminate in una modifica degli approcci manageriali così profonda da rendere difficile immaginare passi indietro .
Non a caso, nonostante la proroga della disciplina emergenziale , diverse sono le realtà aziendali che, nel pianificare le prossime strategie di convivenza con il Covid-19, stanno affrontando il problema di come attuare la legge 81/2017 : eventualità possibile perché le semplificazioni emergenziali non sono mai state imposte, ma solo consentite . Sono i primi segni di un lento riemergere della disciplina “ordinaria” del lavoro agile e di quello che ne costituisce il problematico simbolo: ossia la gestione negoziata.
In simile scenario, pur essendo la l. 81 al centro di una forte tensione e nonostante il suo stesso futuro sia incerto, non stupisce la ripresa del dibattito sulla sua applicazione e, soprattutto, sul ruolo dell’accordo individuale . Uno strumento che, se alcuni considerano un mero “passaggio obbligato” del ricorso al lavoro agile, altri ritengono il principale punto di equilibrio tra le “rinnovate” logiche manageriali e il “nuovo” paradigma del “lavoratore 4.0”: un lavoratore dalla rinnovate capability, parte attiva nello svolgimento oltre che nella progettazione del ciclo produttivo e non più imbrigliato in compiti standardizzati . Di certo, l’accordo è al centro degli assetti regolativi della l. 81 e, se l’attenzione su quest’ultima sta riaffiorando, non è secondario esaminare i principali nodi che il ricorso all’accordo impone di sciogliere e, al contempo, precisare i vincoli che lo sviluppo coerente della l. 81 esige di rispettare.
2. La lettura “restrittiva” dell’accordo individuale
Procedendo con ordine, è utile iniziare l’indagine osservando che la più autentica novità del lavoro agile non sta nell’alternanza tra lavoro “interno” ed “esterno” né nell’assenza di indicazioni sul luogo “esterno” dove svolgere la prestazione, potendo già il telelavoro svolgersi in tale modalità . A differenziare il lavoro agile dalle altre forme di lavoro da remoto è proprio l’accordo individuale, che già l’art. 18 valorizza al punto da affidargli il compito di “stabilire” l’esecuzione in forma agile della prestazione. A riempire di contenuto il verbo “stabilire” sono gli articoli 19, co. 1, secondo cui “l’accordo … disciplina l’esecuzione della prestazione lavorativa svolta all’esterno dei locali aziendali, anche con riguardo alle forme di esercizio del potere direttivo”, e 20, nel quale si legge che l’accordo “disciplina l’esercizio del potere di controllo”.
L’importanza e, al contempo, la problematicità delle citate norme si comprende agevolmente: esse scandiscono l’esatto ruolo dell’accordo individuale, consentendogli di intervenire sull’organizzazione del lavoro subordinato. Non stupisce, pertanto, che la loro ricostruzione sia ancora molto controversa: divisa tra chi ne prospetta una lettura decisamente “estensiva” e chi, invece, ne sostiene una lettura più “restrittiva”.
I fautori dell’ultima ricostruzione indicata, per l’esattezza, ritengono che le citate disposizioni consentano all’accordo di definire unicamente sulla forma esplicativa del potere direttivo : in sintesi, risultando inappropriati gli strumenti di comunicazione solitamente utilizzati per la prestazione “interna”, l’ordinamento permette di concordare specifiche modalità per impartire le direttive datoriali quando la prestazione si svolge “all’esterno”.
Tale lettura ha da subito alimentato numerose perplessità; essa intende preservare l’unilateralità del potere direttivo, ma, se è questa la reale aspirazione del legislatore, non si comprende perché consentire vincoli alle sue “forme” di esercizio: se non si intende rinunciare alla dimensione pienamente unilaterale del potere - si è scritto - il datore dovrebbe poterne scegliere anche le forme, oltre al contenuto, senza negoziare alcunché, ma comunicando, al massimo, la modalità prescelta per organizzare il lavoro da remoto .
L’obiezione tocca un punto centrale, che, a ben vedere, non è il solo: gli ostacoli alle letture più “restrittive” sembrano tutt’altro che terminati.
Considerando lo stretto dato letterale, ci si rende conto che l’articolo 19 indica nelle forme di esplicazione del potere direttivo solo una possibile declinazione degli interventi negoziali sull’“esecuzione della prestazione”: autentico fulcro della norma nonché suo principale riferimento nell’individuare il contenuto dell’accordo, che, stando alla lettura “restrittiva”, perderebbe ogni significato. Siffatto esito, di per sé estremo, sembra precluso all’interprete, perché “cancellerebbe” un dato normativo dotato di un preciso contenuto, che, tra l’altro, non si esaurisce nell’eterodirezione della prestazione. Al centro dell’articolo 19, dunque, c’è l’esecuzione della prestazione esterna; il riferimento alla forma di esercizio del potere direttivo, non solo è posposto a quello sull’esecuzione, ma è introdotto dall’espressione “anche”: come a voler dire che all’intervento sull’esecuzione della prestazione si aggiunge pure, ma non solo, quello sulle forme esplicative del potere.
A confermare simile impostazione è l’articolo 21 della legge n. 81/2017, che abilita l’accordo a “disciplinare l’esercizio del potere di controllo”. Al pari dell’articolo 19, anche tale disposizione contempla un intervento negoziale tutt’altro che limitato alla forma del potere: diverse, invece, sono le scelte sul potere disciplinare, ma le si approfondirà in seguito.
Tuttavia, se le letture “restrittive” si scontrano con univoci dati letterali, c’è da chiedersi fino a che punto sia consentito negoziare l’esecuzione della prestazione: una domanda cruciale per rendere sostenibili interpretazioni alternative a quella di partenza. E, nel rispondere a questo interrogativo, ci si deve confrontare con la ricostruzione, sostenuta dai fautori delle letture “estensive”, che reputano il lavoro agile una forma di “subordinazione speciale” con “una evidente deviazione causale dal tipo legale, arricchendosi di aspetti irriducibili al normale sinallagma contrattuale di cui all'articolo 2094 c.c.”: “il profilo causale del contratto, discostandosi dallo schema legale tipico dell'articolo 2094 c.c., appare funzionale ad un diverso assetto degli interessi implicati nel rapporto, in cui la primazia del potere direttivo lascia spazio ad un programma negoziale concordato fra le parti” .
3. Dalla lettura “restrittiva” a quella “estensiva”: una soluzione di “mediazione”
Affrontare tali quesiti significa muoversi su un terreno estremamente magmatico, che incrocia l’essenza stessa della subordinazione; non a caso, chi limita l’accordo alla sola forma del potere fonda le proprie ragioni sulla “contraddizione in termini” che, diversamente, ne seguirebbe: come potere giuridico - si scrive - il potere direttivo non si presta a nessun “esercizio consensuale”, se non al prezzo di privarlo della sua autonomia e di imprimere al contratto di lavoro una irreparabile torsione strutturale .
Occorre, quindi, la massima cautela da parte dell’interprete, che, per una proficua indagine, deve chiarire almeno due punti essenziali: se il contratto di lavoro subordinato ammette accordi sull’esecuzione della prestazione ed entro che limiti. Si tratta, è agevole intuirlo, di profili che vanno ben oltre il perimetro del lavoro agile e impongono di estendere la riflessione alla più ampia letteratura sul contratto di lavoro subordinato, con cui ci si confronterà nei limiti strettamente funzionali alle questioni trattate.
Sul primo punto si può essere rapidi, perché, nel ricostruire la relazione tra accordo ed esecuzione della prestazione, il problema non è tanto l’ammissibilità dell’accordo in sé. Pur con le sue peculiarità, il contratto di lavoro rimane un contratto di diritto privato, attraverso cui si esprime il principio privatistico per il quale ogni individuo è libero di valutare e regolamentare i propri interessi . Muovendo da tale assunto, il contratto di lavoro non può non consentire accordi giuridicamente rilevanti sull'esecuzione della prestazione: il problema, piuttosto, sono i limiti.
Per averne contezza, è importante rimarcare che la centralità del potere direttivo nel contratto di lavoro subordinato e la sua ampiezza sono tali da sfumare - si è scritto di recente - la “distinzione tra il quid e il quomodo della prestazione” . Senza dilungarci oltre, questi assetti esprimono l’essenza della subordinazione e, al contempo, ciò che la distingue dal lavoro autonomo: solo nella prima - per citare ancora la recente letteratura - al creditore della prestazione si attribuisce un “potere unilaterale così ad ampio raggio, concernente l’intero contenuto della prestazione di lavoro e speculare alla disponibilità funzionale delle energie lavorative a cui il prestatore si è obbligato” . E sono simili assetti che permettono di individuare il limite oltre il quale le intese sull’esecuzione della prestazione non devono spingersi, per scongiurare quella “torsione strutturale” di cui discorrono le tesi “restrittive”. Tale torsione, a ben vedere, non si verifica in presenza di una qualunque intesa sull’organizzazione, ma solo quando, a seguito di essa, la disponibilità funzionale del prestatore venga meno o, se si preferisce, quando la prestazione non sia più organizzabile in autonomia dal soggetto datoriale, ma rimessa alla determinazione delle parti.
Precisato il limite da non oltrepassare, si è lontani dal privare il soggetto datoriale del potere di definire quid e quomodo della prestazione, quando l’accordo sull’esecuzione di quest’ultima non ne intacca il contenuto: dominio assoluto del potere direttivo - giova ribadirlo - per restare nella subordinazione. All’accordo in parola, perciò, non è precluso intervenire su profili non riconducibili al potere direttivo, tra cui, è utile rimarcarlo ai fini dell’analisi, il luogo della prestazione e il tempo per ciò che attiene, quantomeno, al quantum dell’orario, ai limiti e ai riposi. Né all’accordo è precluso introdurre limiti alla regolazione del potere, che, pur impattando sull’organizzazione, non incidono sul binomio potere direttivo-orgnizzazione inerente al contenuto della prestazione : per restare all’orario di lavoro, eventuali interventi sulla sua dislocazione devono esprimersi in questi termini . Entro tali confini, l’accordo non annulla l’unilateralità della scelta datoriale: la sua essenza resta intatta, rimanendo unicamente il datore a determinare quid e quomodo della prestazione.
Tornando alla l. 81, è plausibile sostenere che essa, considerando il lavoro agile una “modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato”, fornisca un’indicazione sistematica univoca su come ricostruire gli spazi dell’accordo che “disciplina l’esecuzione della prestazione”, imponendo di procedere nel senso indicato. All’accordo l’ordinamento demanda il compito di scandire l’assetto organizzativo del lavoro da remoto, riconoscendogli un’ampia autonomia soprattutto rispetto al tempo e al luogo della prestazione. Nel procedere in tale direzione, però, l’accordo non deve mai intaccare l’ubi consistam della subordinazione: può intervenire sulla forma del potere e su tutto quanto non attiene al contenuto della prestazione inclusa, nell’accezione prima esplicata, la regolazione del potere stesso. Resta preclusa, invece, la possibilità di decidere congiuntamente tanto il come quanto il cosa la prestazione debba realizzare.
Per effetto di questa interpretazione, si evitano i dubbi delle letture “restrittive”, perché si valorizzano dati normativi altrimenti lasciati privi di significato. Sul piano strettamente qualitativo, potrebbe osservarsi che l’esito prospettato non sia diverso da quello cui giunge la tesi in esame, costituendo anche la “forma di esercizio” un limite regolativo del potere: l’osservazione è in sé condivisibile, ma non c’è dubbio che, passando al piano quantitativo, le differenze sono radicali, perché quello sulla forma costituisce solo uno dei possibili contenuti dell’accordo. La ricostruzione proposta, inoltre, evita anche di giungere all’incerta subordinazione “speciale” sostenuta dalle letture “estensive” : la legge 81 - si diceva - non sostituisce la “primazia del potere direttivo” con “un programma negoziale concordato fra le parti”, perché la subordinazione menzionata dall’art. 18 “o c’è o non c’è” . La disponibilità funzionale della prestazione, affinché vi sia subordinazione, deve essere piena: diversamente, come dimostra il recente dibattito sulla eterorganizzazione, si rischia di sfociare in forme di lavoro che subordinato non sono. Pertanto, se il lavoro agile rientra nella subordinazione, l’unica lettura possibile è quella che individua il “programma negoziale concordato fra le parti” non nel contenuto della prestazione, bensì in tutto quanto a esso è estraneo.
4. I contenuti dell’accordo individuale: il c.d. lavoro agile per obiettivi
Fatte queste precisazioni, si giunge al cuore del dibattito sul lavoro agile, che può essere sintetizzato in una sola domanda: l’ordinamento, nel delimitare l’area di competenza dell’accordo, ne ribadisce la tradizionale soggezione alla legge? Il che significa chiedersi se la l. 81 imprima alle competenze negoziali una rigida natura “derivata” , ossia vincolata al rigoroso rispetto della norma inderogabile, o se i contenuti dell’accordo possano sostituirsi alle legge. Si tratta di un interrogativo degno della massima importanza; tra i principali “capi d’accusa” mossi alla l. 81, non a caso, c’è l’aver “sovvertito” la disciplina del lavoro subordinato, per di più, dall’interno: il lavoro agile costituisce una modalità di esecuzione del lavoro subordinato del tutto peculiare, perché attraverso l’accordo l’ordinamento “deroga significative regole legali consentendone la sostituzione con regole negoziali” .
Il problema esiste, ma va attentamente perimetrato.
In letteratura v’è chi ritiene che il lavoro agile, consentendo il c.d. lavoro da remoto per obiettivi, abbia completamente stravolto le regole sulla struttura dell’obbligo di lavoro.
Per inquadrare la questione, occorre precisare che, pur se senza la dovuta incisività, l’art. 18 l. 81/2017 include la scelta di ricorrere al lavoro per obiettivi nell’orbita dell’accordo. Simile affermazione, su cui c’è largo consenso, è coerente con la proposta ricostruzione degli artt. 18 e 19: prevedendo che il lavoro agile viene “stabilito mediante accordo anche con forme di organizzazione per obiettivi”, la legge 81 fa degli obiettivi, insieme alla gestione per fasi o per cicli, una modalità regolativa dell’organizzazione, che alle parti è consentito negoziare.
Le incertezze affiorano quando si affronta la relazione obiettivo - struttura dell’obbligo di lavoro e obiettivo - diligenza.
Sulla prima, si è detto che la legge 81, ammettendo l’accordo sul “lavoro per obiettivi”, integra il medesimo obiettivo nella struttura dell’obbligo di lavoro . Una lettura estrema nei suoi esiti e, a ben vedere, non sorretta da alcuna indicazione testuale: anzi, l’art. 18 l. 81/2017, facendo il lavoro agile una forma di lavoro subordinato, impone di escluderla radicalmente. Ammettendo l’integrazione dell’obiettivo nella struttura dell’obbligo di lavoro, si rinuncerebbe alla centralità, sia normativa sia euristica, delle modalità esecutive della prestazione, che inducono a rinvenire il fulcro dell’obbligo lavorativo nello svolgimento in forma subordinata delle mansioni assegnate . Includendo l’obiettivo nell’obbligo contrattuale, si sposterebbe il baricentro del vincolo negoziale su di un opus definito individualmente, mettendo in discussione la configurabilità stessa della subordinazione: l’interesse datoriale a organizzare stabilmente il lavoro risulterebbe surrogato dall’interesse a ottenere un certo tipo di risultato.
Non meno problematica è la relazione tra obiettivo e diligenza; taluni autori, in particolare, riconoscono all’accordo sugli obiettivi la capacità di “incrementare i livelli di diligenza esigibili”, attribuendo all’obiettivo il compito di ridefinire il perimetro della responsabilità debitoria : esso - si osserva - non modifica la struttura dell’obbligo di lavoro, ma “sostituisce” i criteri legali per delimitare l’esatto adempimento. Rimanendo sulla l. 81/2017, anche questa ricostruzione è priva di puntuali sostegni legislativi: pertanto, in applicazione delle regole generali, il rendimento “esigibile” dalla “prestazione agile” - al di sotto del quale non è integrabile nell’organizzazione - va individuato, come per qualsiasi prestazione subordinata, unicamente attraverso i modelli astratti di debitore cui rinviano i noti parametri legali . Certo, molto si discute sulla fonte più idonea a bilanciare la necessità di standardizzare la normale intensità della prestazione e l’esigenza di dare il giusto peso alle peculiarità del segmento produttivo. Tuttavia, senza entrare nel merito del dibattito , diffusa è l’opinione che esclude la rinvenibilità di questa fonte nel contratto individuale, ritenuto incline a compromette la possibilità di “omogeneizzare” la diligenza attesa da chi svolge una data prestazione. E nessun dato normativo impedisce di estendere siffatte considerazioni anche al dipendente agile: solo così, del resto, è possibile impedire patologiche dilatazioni della nozione di inadempimento, includendovi ogni ipotesi di mancato assorbimento delle variabili organizzative.
La l. 81, dunque, non altera l’impianto giuridico su cui si regge la tradizionale configurazione dell’obbligo di lavoro in quanto, optando per la tecnica degli obiettivi, l’accordo individuale esprime una competenza che rimane “derivata”. Attraverso il loro ricorso, le parti determinano livelli di rendimento modellati sulla capacità del singolo e, per tale ragione, non necessariamente coincidenti con quelli esigibili: il rendimento negoziato, cioè, può non riflettere quanto dovuto secondo i criteri della diligenza. Il che non significa sminuire la scelta di organizzare il lavoro per obiettivi, ma, al contrario, valorizzala: l’accordo ben può spingersi fino a collegare all’obiettivo (rectius rendimento non dovuto) l’esercizio di precise competenze organizzative. In alcune esperienze di lavoro agile, ad esempio, il rendimento negoziato è stato impiegato quale “presupposto per giustificare”, oltre l’erogazione di incentivi premiali, la stessa prosecuzione del lavoro da remoto : si tratta di manifestazioni dell’autonomia privata tutt’altro che precluse, perché l’intensità della prestazione definita negozialmente non sostituisce la diligenza nei circuiti che ne fanno il proprio baricentro sistematico.
È possibile, a questo punto, comprendere meglio anche il ruolo dell’accordo nell’individuare “le infrazioni connesse alla prestazione da remoto”. La formula merita la massima attenzione, perché, se a definire il “rendimento esigibile” è la diligenza, le infrazioni stabilite dall’accordo non possono giustificare, di per sé, l’esercizio del potere disciplinare: simile lettura abiliterebbe il medesimo accordo a specificare, in negativo, il rendimento dovuto. Solo una conseguenza sembra doversi ricavare e, cioè, che le infrazioni in parola, per essere sanzionabili, devono trovare una esatta corrispondenza nei modelli generali e astratti imposti dalla diligenza: modelli - si è evidenziato - per la cui elaborazione l’accordo individuale è privo di ogni competenza.
5. Accordo individuale e deroga all’orario di lavoro
Se la deroga alla norma deve essere espressa - come rimarcato dalle ricostruzioni che più valorizzano l’inderogabilità - l’unica ipotesi nella quale l’ordinamento sceglie di non “confinare” l’autonomia privata entro un ambito rigidamente vincolato alla legge è l’orario di lavoro: non vi sono altre disposizioni che giustificano simili approdi.
Al riguardo, l’art. 18 esclude numerosi vincoli normativi e, al contempo, valorizza in modo assolutamente inedito l’accordo: gli unici limiti legali richiamati riguardano la “durata massima dell’orario di lavoro giornaliero e settimanale”, per il resto è l’accordo a organizzare, in piena autonomia, il “tempo a disposizione”. Affiora, così, una competenza negoziale ampia e, soprattutto, non più rigidamente derivata: il d.lgs. 66/2003 arretra quasi totalmente, portando con sé norme di primo piano - si pensi al lavoro straordinario, alle pause e al lavoro notturno - nel tutelare “la sicurezza e la salute del dipendente”.
L’ordinamento spinge il tentativo di “individualizzare” gli assetti del lavoro agile fino alle conseguenze più estreme: sostituire regole di natura legale con regole di natura convenzionale. Una “sostituzione” limitata all’orario di lavoro, potrebbe osservarsi, ma che non ne sminuisce l’importanza. Non solo perché il tempo messo a disposizione in forma agile non è quantificato dalla legge, essendo rimesso alla pattuizione tra le parti. Ma anche perché, è utile ricordarlo, la l. 81 non intacca la natura subordinata del contratto di lavoro, lasciando immutato lo stato di disponibilità funzionale del lavoratore agile. Sicché, anche per quest’ultimo permane il tratto tipico, benché non esclusivo, della subordinazione: ossia, la “debolezza socio-economica e giuridica” , un profilo paradigmatico del diritto del lavoro, sul quale già la Costituzione insiste secondo una lettura di recente valorizzata .
Quanto detto è sufficiente a imporre un’indagine attenta sull’orario della prestazione da remoto. A poco vale osservare che il lavoro dirigenziale dimostra che “la mancanza di ‘precisi vincoli di orario o di luogo di lavoro’ non è incompatibile con il lavoro subordinato” , perché il dirigente, per ragioni storico-sistematiche, ha caratteristiche del tutto peculiari: basti pensare che uno dei pochi studi sul tema è giunto alla conclusione che il dirigente “esercita e non subisce” il potere organizzativo-gestionale . Pertanto, varcati i confini di tale categoria, ogni qual volta manchi un potere decisionale autonomo, il problema dei limiti al “tempo a disposizione” torna cruciale e rende più che comprensibile l’opinione di chi vi rinviene uno “strappo al tessuto sistemico del diritto del lavoro” .
Uno strappo che esige grande cautela, perché, secondo la nota impostazione della giurisprudenza costituzionale, l’inderogabilità vincola anche il legislatore . Sullo sfondo di siffatte affermazioni, forte è la tentazione di rinvenire nella l. 81 un’alterazione irreparabile degli equilibri costituzionali, ma la cautela è, ancora una volta, d’obbligo. L’inderogabilità, “fondamento e problema del diritto del lavoro” , è al centro di un dibattito ampio e, nonostante le ambiguità legislative, nessuno mette in discussione il suo essere un pilastro del diritto del lavoro. In dottrina si è anche chiarito - ecco il motivo della cautela - che l’inderogabilità non impedisce al legislatore di modulare le regole sul lavoro subordinato: a giustificarlo - si scrive - è l’impostazione pluralista della Costituzione, che ammette “semplificazioni” della disciplina inderogabile, purché, ed è un punto cruciale, costituiscano l’esito di un rigoroso “bilanciamento” tra valori di pari rango .
Tornando al lavoro agile, ne deriva che l’interprete, al cospetto delle regole sui tempi di lavoro da remoto, non deve giungere a “conseguenze affrettate”. Le leggi - afferma la Corte costituzionale - “non si dichiarano costituzionalmente illegittime perché è consentito darne interpretazioni incostituzionali, ma perché sono precluse interpretazioni costituzionali” . Muovendo da tale indicazione di metodo, è doveroso ricostruire il dato normativo conformandolo al principio che governa gli equilibri assiologico-sistematici dell’ordinamento costituzionale: ossia, quello del bilanciamento, “condizione di legittimità della norma, ogni volta che essa prova a mediare interessi/principi istituzionali di eguale rango” . E questo per precisarne le possibili ripercussioni sull’accordo individuale.
6. Una breve digressione: vincoli (limitati) sull’orario e riflessi sul luogo di lavoro
Prima, però, va affrontata una rilevante implicazione dei vincoli sull’orario imposti dalla l. 81.
Stabilendo che il lavoro da remoto va svolto senza “una postazione fissa”, la legge della quale si discorre ha indotto taluni autori a ritenere che la prestazione possa essere eseguita “ovunque il dipendente voglia”, non occorrendo predefinire il luogo della prestazione : le cose sono più complicate di quanto prima facie appaiono e, a ben vedere, non solo perché il luogo della prestazione compone gli equilibri organizzativi della prestazione da remoto.
Stando alla prospettata lettura, dalla l. 81 affiorerebbe una deroga evidente all’art. 1, co. 2, lett. a), del d.lgs. n. 66/2003. Per comprenderne il perché, è utile considerare che la norma definisce l’orario di lavoro, anzitutto ma non solo, come il “periodo in cui il lavoratore sia al lavoro”: un requisito che, secondo le note indicazioni della Corte di giustizia, va inteso come “presenza fisica su un luogo di lavoro, anche esterno ai locali aziendali” . Chiariti i termini della deroga, potrebbe sostenersi che essa consegua alla scelta di collegare il lavoro agile a un’ampia flessibilità temporale: flessibilità che si esprime in un altrettanto ampio arretramento del d.lgs. 66/2003, nel quale includere anche la norma richiamata.
Tuttavia, la deroga al d.lgs. 66/2003 non è piena, perché, lo si diceva in precedenza, la l. 81 impone di rispettare l’orario massimo giornaliero e settimanale: nell’organizzare i tempi della prestazione da remoto, tali garanzie non vanno compromesse. Sicché, se un orario di lavoro deve esserci, anche solo per applicare i richiamati vincoli del d.lgs. 66/2003, lo stesso non può non presentare i requisiti oggettivi elaborati dall’art. 1, co. 2, lett. a), perché da tale nozione dipende lo stesso operare del limite riguardante l’orario massimo sia giornaliero sia settimanale. D’altronde, la l. 81, quando richiama questi vincoli, non adotta una propria nozione di orario di lavoro: né, a ben vedere, potrebbe. Il d.lgs. 66/2003, infatti, “eredita” la nozione di orario di lavoro dal diritto eurounitario, che, afferma la Corte di giustizia, la “elabora secondo criteri oggettivi, facendo riferimento al sistema e alle finalità” della direttiva e non in funzione delle diverse prescrizioni nazionali, “essendo impedito agli Stati membri” di “definire unilateralmente la portata” . Sul punto, la Corte di giustizia compie un successivo passo in avanti estremamente importante, perché aggiunge che i requisiti in parola non sono modificabili in ambito nazionale in quanto “cruciali nel garantire il diritto fondamentale di ciascun lavoratore a una limitazione della durata massima del lavoro” .
Sulla sfondo di tali osservazioni, la l. 81, discorrendo di “mancanza di postazione fissa”, non allude alla possibilità di lavorare “ovunque il dipendente voglia”: se non al prezzo di compromettere uno dei requisiti ritenuti dalla Corte di giustizia decisivi per “misurare in termini oggettivi il tempo di lavoro” e per “tutelare il diritto fondamentale alla durata massima del lavoro”. La norma, piuttosto, intende ribadire la piena libertà nell’individuare il luogo della prestazione, escludendo ogni vincolo di sorta al riguardo: il luogo di lavoro, al contrario, va precisato di volta in volta. A determinarlo, poi, non può che essere l’accordo sull’esecuzione della prestazione: a consentirlo è la regola generale, che rimette alle parti la sua individuazione .
7. Lo scopo della deroga
Ripresa l’indagine sul bilanciamento, secondo una letteratura pacifica e una giurisprudenza altrettanto consolidata, il primo passo per esaminare la ragionevole modulazione delle tutele è la finalità perseguita, che deve rispondere a univoci principi costituzionali .
Stando all’art. 18 l. 81/2017, questa finalità va rinvenuta nello “scopo” di incrementare la competitività aziendale e agevolare la conciliazione del tempo vita-lavoro. L’ordinamento tiene insieme le due “componenti” dello scopo con la congiunzione “e”, escludendone, così, il carattere alternativo. La deroga all’orario di lavoro, ne consegue, deve assicurare alla persona un tempo da destinare “a sé” , evitando la scelta del non lavoro, senza arrecare alcun “danno” al ciclo produttivo, ma, anzi, integrandosi proficuamente con esso.
Sull’astratta legittimità dello scopo non ci sono dubbi: si tratta di una finalità sociale di sicura rilevanza costituzionale, perché la disponibilità di un tempo “libero”, oltre che nell’integrità psico-fisica e nella partecipazione alla vita familiare, trova un fondamento condiviso nella necessità di garantire la piena esplicazione della persona . Nella norma, inoltre, è rinvenibile un evidente riferimento ai noti orientamenti di law and economics, tornati alla ribalta con Industria 4.0, che, nel “massimizzare” il benessere sociale, reputano la stringente disciplina dell’orario di lavoro un ostacolo alle aspirazioni delle parti: solo riducendone la pervasività si possono conciliare meglio gli interessi del prestatore e del datore di lavoro.
È per calare il binomio competitività - conciliazione nella specificità del singolo rapporto, che l’ordinamento, con il lavoro agile, delinea uno spazio dove la prestazione da remoto si svolge “libera” dal d.lgs. 66/2003, nel rispetto delle sole regole negoziali. Uno spazio cui le parti accedono mediante l’accordo, al quale la legge collega un significativo effetto derogatorio. Sia chiaro, le parti non delimitano l’ambito della deroga né scelgono se applicarla, essendo direttamente la legge, per stimolare regole negoziali funzionali ad assicurare lo scopo, a prevederne l’operare quando si sceglie il lavoro agile. All’accordo, invece, la legge devolve la competenza nell’organizzare i tempi del lavoro da remoto, definendo gli obblighi contrattuali che circoscrivono il “tempo a disposizione” del dipendente: entro la cornice di siffatti obblighi, giova rimarcarlo, la soggezione al potere organizzativo-gestionale è piena e, soprattutto, svincolata dal d.lgs. 66/2003. È a questa organizzazione negoziale che la l. 81 riconosce il compito di conseguire gli scopi legislativi e, nel senso che verrà spiegato, il permanere stesso della deroga.
8. La necessità della deroga e il nodo delle tutele minime
Il binomio deroga-accordo va indagato, oltre che dalla prospettiva dello scopo, anche dal versante della proporzionalità e, in particolare, della necessità e dell’adeguatezza, che ne costituiscono principali declinazioni. È opportuno muovere dal primo dei criteri indicati, che scongiura “sacrifici eccessivi” o perché manca una “connessione razionale tra i mezzi predisposti dalla legge e i fini perseguiti” o perché “l’obiettivo prefissato non è ottenuto con il minor sacrificio possibile per gli altri diritti” .
La l. 81 non pone serie perplessità in termini di connessione “razionale mezzi-scopo”, perché il binomio deroga - accordo consente, senza dubbio, di calibrare l’equilibrio tra tempi di lavoro e tempi di vita sulle specifiche esigenze delle parti.
Lo stesso non può dirsi, invece, quando si passa al criterio del “minor sacrificio possibile”, da leggere in stretta relazione al problema del nucleo essenziale del diritto. Secondo la Corte costituzionale - si è scritto - il “minor sacrificio possibile di altri diritti o interessi costituzionalmente protetti” non permette alla medesima limitazione, pur se funzionale a perseguire scopi di interesse generale, di essere “tanto invasiva da compromettere il contenuto essenziale” dei diritti o degli interessi in questione. Sicché - si è aggiunto - mancando una gerarchia rigida e formalmente determinata di valori, “come nessun diritto costituzionale è protetto in termini assoluti dalla Costituzione, in egual modo nessun diritto” può farsi “tiranno e portare all’annientamento degli altri” : eventualità che si configura qualora il legislatore intacchi il “contenuto essenziale” del diritto fondamentale.
Il problema nasce dalla scelta della l. 81 di dilatare come non mai la deroga al d.lgs. 66/2003. Fatta eccezione per la durata massima dell’orario, nessun altro vincolo viene richiamato, riconoscendo all’accordo una competenza insolitamente ampia: solo per fare qualche esempio le parti sono libere di regolare il “tempo a disposizione” del dipendente agile senza osservare le norme sul lavoro straordinario, sulle pause, sui riposi settimanali, sulle limitazioni al lavoro notturno e su molto altro ancora. Ebbene, potrebbe anche sostenersi che il legislatore ritenga imprescindibile allo “scopo” sacrificare pressoché completamente il d.lgs. 66/2003: simile scelta agevolerebbe le finalità della legge. Imboccando questa strada, però, la l. 81 non affronta il delicato problema del nucleo essenziale del diritto e il pericolo di varcare il confine prima individuato risulta estremamente concreto. Ecco perché su tale profilo è doveroso insistere, ampliando lo spettro dell’indagine al rapporto tra il comma 5 dell’art. 17 d.lgs. 66/2003 e la l. 81: una relazione problematica, non essendo scontato l’operare della prima disposizione rispetto al lavoro agile, ma, come si dirà, estremamente proficua.
9. Un possibile “argine” alla “liberalizzazione” dell’orario di lavoro da remoto
Per meglio intendere la questione, è utile, con la sintesi consentita dalla notorietà del dibattito, fare il punto sull’art. 17, co. 5, d.lgs. 66/2003. La norma introduce una deroga al d.lgs. 66/2003 ben definita nella sua estensione e giustificata dall’autonomia del prestatore nel determinare i tempi di lavoro ovvero dall’impossibilità di misurare l’orario della prestazione: nel primo caso, viene ridimensionata la ratio protettiva delle garanzie legali; nel secondo, la loro applicabilità è preclusa. Nell’indicare le norme derogate, inoltre, il comma in parola, pur se indirettamente, precisa le disposizioni del d.lgs. 66/2003 che operano nonostante il sussistere dei presupposti per la deroga. In questo modo - si è scritto - l’ordinamento seleziona le “tutele volte a presidiare superiori interessi generali”: per essere chiari, pure quando i tempi di lavoro sono stabiliti dal solo dipendente o quando gli stessi non sono misurabili, il comma 5 dell’art. 17 tutela i “superiori interessi generali”, riconoscendo al dipendente taluni “diritti fondamentali” .
È fin troppo agevole, allora, comprendere perché sia così discussa la relazione tra la norma da ultimo citata e la legge 81 . Il comma 5 è una disposizione sulla quale alta è l’attenzione, perché il quadro di tutele da essa garantito è tutt’altro che cristallizzabile: molto si discute sul se tale quadro vada ampliato e in che termini . Ma è evidente che, estendendo il comma 5 dell’art. 17 al lavoro agile, tutti i dubbi in precedenza sollevati verrebbero risolti, in quanto a tutelare i “superiori interessi generali” sarebbe proprio la suddetta norma. La complicazione deriva dalla scelta della l. 81 di imporre solo il limite dell’orario massimo sia giornaliero sia settimanale, che, per di più, il comma 5 deroga: insomma, univoci dati letterali esprimono l’intenzione della l. 81 di non applicare l’art. 17, co. 5.
Affiora, così, uno dei profili più incerti della disciplina sul lavoro agile, che esige, se il legislatore intende insistere sulla strada tracciata con la legge 81, delucidazioni normative urgenti. Tuttavia, sebbene puntuali elementi testuali impediscano l’operare dell’art. 17, co. 5, rispetto al lavoro agile, occorre essere molto cauti nell’escludere ogni sua rilevanza: le conseguenze potrebbero essere serie.
Nel perimetrare la deroga al d.lgs. 66/2003 - si diceva - il comma 5 stabilisce le “tutele di superiori interessi generali” riservate al dipendente pure quando determina in autonomia il proprio tempo di lavoro: ossia, secondo le letture più accreditate, unilateralmente. È plausibile sostenere, pertanto, che la l. 81, se avesse realmente voluto prescindere del tutto dalla norma in esame, avrebbe dovuto dichiaralo o, in alternativa, individuare tecniche funzionalmente equivalenti nell’assicurare un corrispondente livello di protezione. In alternativa, dovrebbe ammettersi che la l. 81 abbia, sì, introdotto una deroga più circoscritta rispetto a quella del comma 5, ma limitatamente alla durata massima giornaliera e settimanale. E dovrebbe ammettersi, altresì, che le restanti garanzie del d.lgs. 66/2003, quelle rese “comunque applicabili” dal comma 5, risulterebbero completamente inoperanti, con l’aggravante che nel lavoro agile la determinazione unilaterale del lavoratore dei tempi di lavoro cede il passo alla determinazione di entrambe le parti. Ciò significa, in definitiva, riconoscere che la legge 81 intenda non solo privare il dipendente agile della garanzia di precisi diritti fondamentali, ma che lo faccia nella consapevolezza del maggiore bisogno di tutela da egli espresso: nessuno può dubitare che la determinazione bilaterale dei tempi di lavoro renda la posizione del dipendente più “vulnerabile” rispetto alla sua determinazione unilaterale.
È plausibile ritenere, quindi, che l’assenza “di vincoli di orario” riduca la disciplina legislativa dei diritti fondamentali individuati dal comma 5, ma senza annullare completamente i diritti stessi: il loro nucleo essenziale, infatti, è intangibile . Come noto, il dibattito sul nucleo essenziale, data la difficoltà di “materializzarne il contenuto”, è più che mai aperto e non mancano autori che ne mettono finanche in discussione l’utilità , ma, è altrettanto noto, la dottrina maggioritaria ne sostiene con convinzione il ruolo imprescindibile nel bilanciamento . Dai silenzi della legge 81, pertanto, non può derivare l’esclusione per il lavoratore agile quantomeno del livello essenziale dei diritti ricavabili dal comma 5: ammetterlo, significa riconoscere l’incostituzionalità della medesima legge.
Il problema, piuttosto, riguarda i criteri per determinare il “corpo materiale” del nucleo essenziale, perché dalla l. 81, consapevoli o meno che siano, emergono assetti meritevoli della massima attenzione. Per comprenderlo, è sufficiente considerare che tra le garanzie dell’art. 17, co. 5 rientrano il diritto alle ferie e il diritto a un tempo di non lavoro sia giornaliero sia settimanale, i quali, per il lavoratore agile, prendono “corpo” mediante i “tempi di riposo” e la “disconnessione”: ambedue costituiscono quanto “rimane” della disciplina inderogabile sui diritti in parola, ossia il loro nucleo essenziale. Ma non è tutto. Coerentemente agli equilibri regolativi della legge 81, l’articolazione dei “tempi di riposo” e della “disconnessione” viene affidata all’accordo, su cui, in definitiva, grava un compito della massima delicatezza: declinare i profili materiali del contenuto minimo dei richiamati diritti, adattandolo alle peculiarità del singolo rapporto.
Il cuore del dibattito sul nucleo essenziale - poc’anzi lo si accennava - riguarda la sua determinazione: pur mancando un criterio univoco, dalla legge 81 affiorano scelte estremamente problematiche, perché, valorizzando l’accordo individuale, si rischia di compromettere proprio la garanzia di un livello minimo e inviolabile di tutele. Sulle ragioni di simile affermazione si tornerà più approfonditamente a conclusione dell’indagine, per ora va aggiunto che “tempi di riposo” e “disconnessione” non permettono al lavoratore agile di fruire, pur entro il limite del nucleo essenziale, dei restanti diritti precisati dall’art. 17, co. 5. Tuttavia, sul contenuto essenziale di siffatti diritti non ci si può dilungare: occorre una puntuale e più specifica analisi, che qui, per evitare di ampliare ulteriormente la riflessione, non è possibile svolgere.
10. Scopo, struttura dell’accordo e “vincoli di contenuto”
Sono maturi, a questo punto, tutti i presupposti per chiarire che, diversamente da come si è scritto , l’ordinamento non utilizza lo scopo per introdurre vincoli funzionali interni alla struttura contrattuale. Siffatti vincoli, esclusi dalla tradizionale ricostruzione dell’autonomia privata, sono “tollerati solo in ipotesi del tutto eccezionali” , che non pare ricorrano nella fattispecie in esame. Stando alla legge 81, non è l’accordo a definire l’entità della deroga: elemento non secondario, giacché, spiega la giurisprudenza , è proprio tale competenza a costituire una di quelle “circostanza eccezionali” che giustificano, anzi impongono, di funzionalizzare l’atto negoziale. Nel caso del lavoro agile, l’ordinamento, per raggiungere lo scopo, riconosce all’accordo la capacità di organizzare i tempi del lavoro da remoto in “autonomia” e, cioè, senza la “concorrenza” della norma: all’accordo non si chiede di individuare le diposizioni da derogare in funzione di uno scopo, ma di modulare in “autonomia” i tempi di lavoro per assicurare l’utilità che giustifica l’“autonomia” stessa.
La rilevanza dello scopo, dunque, si esaurisce sul piano normativo: a esso l’ordinamento collega l’arretramento del d.lgs. 66/2003 e la conseguente riconfigurazione della competenza negoziale sui tempi di lavoro, privandola del suo tradizionale carattere “derivato”. La scelta è di assoluto primo piano, perché lo scopo diventa il fulcro di un delicato bilanciamento legislativo i cui riflessi sull’accordo si esprimono, al più, in vincoli “di contenuto minimo”.
Attraverso i tempi di riposo e la disconnessione, si è detto, al lavoratore agile si garantisce il nucleo minimo di taluni diritti fondamentali. Nel trarne le dovute conseguenze, ciò significa che l’accordo non può non essere vincolato a definire ambedue: disconnessione e tempi di risposo, cioè, costituiscono parti indispensabili del contenuto negoziale, la cui mancanza ne provoca la nullità ai sensi dell’art. 1418 c.c. È questo l’unico riflesso del bilanciamento legislativo sul piano contrattuale: enucleare elementi necessari dell’equilibrio negoziale, al fine di garantire che l’organizzazione del lavoro da remoto assicuri il nucleo minimo dei diritti fondamentali prima indicati. Entro il limite dell’orario massimo giornaliero e settimanale - per non lasciare dubbi - l’accordo deve riempire di contenuto le pause e la disconnessione.
Nel colpire fatalmente l’atto negoziale, la nullità potrebbe sembrare un esito estremo, ma riflette la rilevanza che sia i tempi di riposo sia la disconnessione assumono sul piano negoziale. E, in ogni caso, non preclude la c.d. conversione sostanziale dell’accordo nullo in un diverso accordo del quale contenga i requisiti di forma e sostanza . Secondo una diffusa giurisprudenza, tale conversione opera, senza necessità che le parti lo vogliano, in presenza di due requisiti: “l’oggettivo rapporto di continenza tra l’accordo nullo e quello che dovrebbe sostituirlo”; “la compatibilità tra l’accordo nullo e il nuovo accordo” .
Sul primo, fatta eccezione per l’orario, l’accordo sul lavoro agile delinea un assetto organizzativo della prestazione da remoto improntato al rispetto rigoroso della norma e questo, è utile ribadirlo, vale anche per il luogo della prestazione: esso, si è dimostrato, viene pattuito sulla scia della regole generale, che ne rimette la determinazione alle parti. Applicando la logica della “continenza”, l’accordo sul lavoro agile nullo ben potrebbe “contenere” un accordo diverso, più circoscritto e potenzialmente valido: un accordo dove le parti individuano un luogo esterno all’azienda, presso il quale svolgere la prestazione, ma i cui tempi di lavoro sono scanditi dal rigido rispetto del d.lgs. 66/2003. Tale accordo, e veniamo al secondo requisito, deve perseguire “in tutto o in parte l’intento pratico ambito dalle parti” con l’accordo dichiarato nullo. È evidente che simile verifica, per dirla con la Cassazione , va “compiuta con rigore”, dovendo ricostruire l’equilibrio di interessi concretamente elaborato dagli attori negoziali. Un’indagine complessa, dunque, ma in sé non preclusa: limitandosi all’ipotesi più semplice, le parti, optando per il lavoro agile, potrebbero organizzare il tempo del lavoro da remoto senza stravolgere la disciplina legale e simile eventualità agevolerebbe non poco la verifica sugli interessi qui considerata.
11. L’adeguatezza della deroga
Si giunge, infine, all’ultimo tassello del bilanciamento legislativo: ossia il criterio dell’adeguatezza o, come altri scrivono, della “proporzionalità in senso stretto” o, ancora, della “razionalità in concreto”.
Questo criterio conferisce rilievo agli effetti della “norma bilanciata”, imponendo di verificare se i sacrifici necessari siano compensati dal conseguimento tangibile dello scopo. Per usare le parole di autorevole dottrina, lo “scopo, individuato dalla legge nel bilanciare diritti di egual rango, costituisce l’esito empirico cui il legislatore ambisce e che deve realizzare imprescindibilmente per compensare il sacrificio dei medesimi diritti”: in mancanza le logiche del bilanciamento “subirebbero un vulnus grave e la legge sacrificherebbe irrimediabilmente la sua stessa legittimità” . Ricostruire siffatti esiti empirici - in molti lo hanno scritto - non è agevole, dovendosi indagare l’impatto della norma nell’esperienza reale: il che significa “spalancare lo sguardo verso” i risvolti effettivi del dato positivo . Tuttavia, tale ricostruzione non può mai “essere pretermessa”, rispondendo sul piano morale a un’“etica della responsabilità” e su quello metodologico all’esigenza di “razionalizzare i valori coinvolti” : solo verificando l’“esito pratico”, “è possibile bilanciare i diritti e gli interessi in gioco, e perseguire in modo equilibrato la massima espansione di tutti i diritti e i valori” .
Tanto altro andrebbe detto, ma, per non andare oltre la connessione tra questo “referente argomentativo” e il lavoro agile, due sembrano i punti da esaminare.
Per affrontare il primo, è utile, tirando rapidamente le fila di quanto finora emerso, precisare che l’ordinamento, derogando al d.lgs. 66/2003, crea un’“area libera da vincoli imperativi”, nella quale il “tempo a disposizione” è modellato unicamente dai diretti interessati. A essa si accede mediante un accordo cui l’ordinamento collega la deroga al d.lgs. 66/2003 - effetto “automatico” disposto direttamente dalla legge 81 - e al quale conferisce la competenza nell’organizzare il tempo del lavoro da remoto. Per completare il quadro con il criterio dell’adeguatezza, va ora aggiunto che il permanere di uno “spazio libero da norme” non può non essere collegato al conseguimento dello scopo o, per dirla con la giurisprudenza costituzionale, dell’“esito empirico” cui si ambisce con la sua determinazione: diversamente, dovrebbe ammettersi che il dipendente agile debba “subire” un “sacrificio”, ossia la deroga al d.lgs. 66/2003, anche quando non ne derivi alcun “vantaggio”, stravolgendo completamente le logiche legislative.
Il percorso seguito dalla l. 81, e veniamo al secondo punto, avrebbe consigliato di predisporre un sistema per monitorarne gli esiti empirici e realizzare, così, un’applicazione realmente proporzionata del lavoro agile. Si tratta di uno snodo importante nel bilanciamento legislativo; il monitoraggio in parola avrebbe consentito di appurare l’effettivo conseguimento delle finalità normative, sacrificando nella misura minore possibile i diritti dei lavoratori e stabilendo quando la riduzione di tutela sfoci in un reale “vantaggio”.
La l. 81, al riguardo, nulla dice, alimentando più di un dubbio. Anche perché tali sistemi di monitoraggio non costituiscono più dei “perfetti sconosciuti”, espressione “dell’adesione a questa o quella scelta metodologica”. I tentativi di predisporli, per controllare l’efficacia delle misure giuridiche destinate al rapporto di lavoro, non mancano: sebbene qualche esempio sia rinvenibile anche nell’ordinamento nazionale , è sicuramente il diritto eurounitario a fornire le esperienze più avanzate tanto da indurre a ritenere che “l’Unione impone una vera e propria macchina per la misurazione delle performance degli Stati membri, soprattutto in relazione alle leggi adottate dai parlamenti nazionali e non semplicemente promesse nelle prospettazioni dei governi”
12. Per uscire dal guado: verso un riassetto regolativo del lavoro agile?
Giunti al termine dell’indagine, sembra francamente difficile non reputare il percorso per attuare, a legislazione vigente, il lavoro agile “ordinario” irto di ostacoli.
Ostacoli che hanno natura variegata e riguardano: i limiti dell’accordo sull’“esecuzione della prestazione”, l’impatto del medesimo accordo sulla struttura dell’obbligo contrattuale, la determinazione del luogo della prestazione e le implicazioni che su tutto ciò comporta il permanere del lavoro agile nell’area della subordinazione. Ma è sicuramente la disciplina dell’orario di lavoro a generare i problemi maggiori, perché l’ordinamento consente all’accordo di occupare spazi “sottratti” alla disciplina inderogabile. La scelta in sé non è preclusa, ma esige uno sviluppo giuridico coerente e organico: l’inderogabilità non impedisce “semplificazioni normative”, ma esse vanno costruite dal legislatore nel rigoroso rispetto del principio di “ragionevolezza” ed è qui che la l. 81 diventa più incerta.
È sufficiente ricordare che si affida all’accordo individuale il compito di dare un contenuto al nucleo minimo di importanti diritti fondamentali: rimarcarlo non è assolutamente marginale, perché una centralità così spinta dell’accordo, nell’eliminare ogni argine alla debolezza del lavoratore, mette in serio pericolo l’effettività di garanzie cruciali per il virtuoso operare della legge 81. Anche il contratto di lavoro del “dipendente agile” è segnato da una profonda asimmetria di poteri, che, accentuandone il metus verso il datore di lavoro, compromette in radice la normale dialettica negoziale: la pandemia lo ha mostrato limpidamente. Il problema, noto al diritto del lavoro, è acuito dalla trasformazione vissuta dal contratto di lavoro negli ultimi tempi e culminata nel deciso rafforzamento dei poteri imprenditoriali. È sufficiente limitarsi a considerare che il fulcro, non solo simbolico, del nuovo corso legislativo è costituito dalla riforma dei rimedi ai licenziamenti ingiustificati: se la disciplina del licenziamento per giustificato motivo costituisce il baricentro delle tutele riservate al lavoro subordinato, depotenziarlo significa indebolire ogni altra protezione del dipendente.
La l. 81, dunque, esige interventi normativi urgenti per coniugare la flessibilità richiesta dal lavoro agile con il ripristino di una capacità negoziale effettiva del lavoratore.
A poco serve un riequilibrio della sola disparità informativa che separa dipendente e datore di lavoro : profilo importante, potendo sicuramente compromettere il buon esito delle trattative, ma non risolutivo del problema. Taluni “antidoti”, tra l’altro, sono già rinvenibili nel sistema giuridico: si pensi, ad esempio, alla buona fede in executivis, applicabile all’accordo in parola, da cui la giurisprudenza ricava, tra l’altro, l’obbligo di rendere la controparte edotta di tutte le informazioni utili alla “consapevole esplicazione dell’autonomia privata” .
Per ristabilire l’identità negoziale della parte debole del contratto, invece, sembra decisivo un netto cambio di passo negli assetti regolativi della l. 81, da realizzare valorizzando il contratto collettivo: la l. 81 non gli conferisce alcun ruolo nel costruire gli equilibri normativi del lavoro agile, optando per le tecniche giuridiche approfondite nelle pagine precedenti. Sia chiaro, valorizzare il contratto collettivo non significa privare di ogni spazio l’accordo individuale, ma affidare al primo il compito di modulare la flessibilità di cui il lavoro agile ha bisogno. Venendo ai tempi di lavoro, è al contratto collettivo che va affidato il compito di gestire le deroghe alla disciplina legale, al fine di migliorare la competitività e la conciliazione vita-lavoro: d’altronde, il d.lgs. 66/2003 già conferisce al contratto collettivo importanti poteri derogatori, che ben si presterebbero a modellare il regime dell’orario sulle peculiarità del lavoro da remoto. Tra l’arretramento normativo e l’accordo individuale si interporrebbe, così, il contratto collettivo, che, definendo i tempi del lavoro da remoto, offrirebbe un sostegno importante alle parti, soprattutto a quella debole, nella scelta di un diverso equilibrio organizzativo della prestazione: insomma, si discorre di un mutato assetto regolativo, che porta con sé anche un deciso e significativo riequilibrio dei poteri.
Per operare nel senso indicato - potrebbe osservarsi - non è indispensabile un intervento legislativo. Dopotutto, la l. 81, pur accentuando il protagonismo dell’accordo individuale, non “vieta” il ricorso alla contrattazione: non a caso, numerosi sono i contratti collettivi , sia nazionali sia aziendali, cui si aggiungono l’“Accordo Interconfederale per la regolazione del lavoro agile”, stipulato tra CIFA e CONFASAL del 25 febbraio 2021, e le “Linee guida per il Lavoro Agile nel settore assicurativo e di assicurazione/assistenza”, stipulate tra ANIA e FIRST-CISL, FISAC-CGIL, FNA, SNFIA e UILCA il 24 febbraio 2021, che, nell’affrontare i nodi del lavoro agile, provano a sperimentare tecniche giuridiche alternative a quelle legislative. Il rilievo è condivisibile, ma non del tutto: l’esperienza collettiva si è rivelata preziosa, ma va ora messa a sistema assumendo precise scelte anzitutto, è qui possibile solo un cenno, sul complicato nodo della selezione degli attori negoziali e del livello di contrattazione cui affidare i compiti regolativi prima enucleati.