Testo integrale con note e bibliografia

1. Lo stato dell’arte, fra luci e ombre
Oscillante tra i «diritti della persona di nuova generazione, i c.d. diritti digitali, quale sfaccettatura del diritto alla privacy» e il «diritto alla salute e, quindi, alla tutela della integrità fisica e psichica dei lavoratori, in quanto adattamento tecnologico del diritto al riposo» , il diritto alla disconnessione è certamente figlio della rivoluzione Industria 4.0: il costante incremento nell’utilizzo delle nuove tecnologie nei rapporti di lavoro è stato infatti il motore che ha avviato una riflessione sull’individuazione di nuovi strumenti in grado di garantire ai lavoratori l’effettivo godimento dei diritti al riposo e alla riservatezza, pur in un contesto produttivo profondamente mutato. Come i primi motori a scoppio, anche la predisposizione di “panni digitali” per il diritto al riposo è però partita lentamente: pur muovendosi nella corretta direzione, la norma introdotta dal legislatore italiano sull’onda delle prime sperimentazioni realizzate all’estero (v. infra, § 2) presenta infatti non pochi limiti, in gran parte derivanti dal suo carattere eccessivamente sfumato (di cui si dirà infra, § 4.1), che finiscono per compromettere l’effettività del diritto in questione.
Nuova legna da ardere nella locomotiva della digitalizzazione del rapporto di lavoro è stata ad ogni modo gettata dal ricorso massiccio al lavoro da remoto impresso dall’epidemia Covid-19, che ha reso maggiormente evidente il rischio dell’incremento dell’orario di lavoro e della sovrapposizione fra tempi di lavoro e tempi di riposo derivante dall’utilizzo non adeguatamente regolamentato degli strumenti tecnologici nel lavoro. Le normative emanate per fronteggiare l’emergenza hanno infatti derogato l’obbligatoria sottoscrizione di un accordo individuale fra le parti a cui l. n. 81/2017 demanda il compito di regolare alcuni importanti diritti del lavoratore, fra cui vi è proprio il diritto alla disconnessione: il vuoto normativo che ne è derivato ha reso urgente una regolamentazione più robusta del diritto (v. infra, § 4.1), necessità che è emersa non soltanto a livello interno – dove è stato convocato un tavolo di confronto con le parti sociali sul lavoro agile che dovrebbe a breve condurre a una nuova regolamentazione della materia – ma anche a livello europeo (v. infra, § 5). All’inizio dell’anno il Parlamento Ue ha infatti approvato una Risoluzione con cui ha raccomandato alla Commissione l’adozione di una direttiva al fine di tutelare il diritto alla disconnessione , riconoscendone il carattere di «diritto fondamentale» nell’ambito dei nuovi modelli di lavoro dell’era digitale e precisando altresì che «tale diritto dovrebbe essere considerato un importante strumento della politica sociale a livello dell’Unione al fine di garantire la tutela dei diritti di tutti i lavoratori» . È dunque più che mai utile, in questo peculiare momento storico, fare il punto della situazione, analizzando da dove si è partiti per meglio comprendere dove dovrebbe condurre questo tortuoso percorso normativo.

2. Al di là delle Alpi: le origini del diritto alla disconnessione
La ricerca di strumenti con cui rendere il tempo di riposo impermeabile a eventuali infiltrazioni di lavoro è divenuta particolarmente impellente nel corso dell’ultimo decennio, a seguito del crescente utilizzo delle nuove tecnologie nell’ambito dei rapporti di lavoro che finiscono per rendere chiunque reperibile in qualsiasi momento, indipendentemente dall’orario o dal luogo in cui ci si trovi. I primi risultati di tale dibattito sono stati raggiunti in Germania ove sono stati sottoscritti alcuni interessanti accordi aziendali con cui si è cercato di delimitare la possibilità di contattare i dipendenti al di fuori dell’orario di lavoro . È tuttavia la Francia ad essere considerata la genitrice del diritto alla disconnessione : al di là delle Alpi tale tema si è infatti posto al centro del dibattito dottrinale fin dal volgere del nuovo secolo, quando già ci si interrogava sulla totale diluizione della frontiera del tempo derivante dal sempre più massiccio utilizzo di strumenti tecnologici. Ed è stata proprio la Francia a regolamentare per la prima volta il diritto in questione con un testo di legge.
Dopo alcune significative sperimentazioni per lo più di carattere aziendale , il droit à la déconnexion è stato infatti oggetto di un intervento normativo cui si è giunti alla luce degli esiti di una ricerca condotta nel 2015 dal Ministero del Lavoro francese: ritenendo che «il lavoro connesso e le sue articolazioni con la vita privata rappresentano una zona di tensione», il c.d. Rapporto Mettling aveva infatti auspicato l’adozione di strumenti idonei a risolvere tale conflitto, quali la chiusura dei server, il diritto a non rispondere alle sollecitazioni, la separazione di indirizzi mail e di numeri di telefono professionali da quelli personali. In particolare, con la 19° raccomandazione era stata rimarcata la necessità di riconoscere «un diritto e un dovere di disconnessione», sulla base di accordi tra l’azienda e i lavoratori, favorendo al contempo una più adeguata formazione nell’utilizzo degli strumenti digitali : nel sottolineare il carattere di diritto-dovere alla disconnessione, il Rapporto si era mostrato consapevole del fatto che la sola previsione di un obbligo a carico delle imprese di astenersi dall’invio di messaggi di lavoro nei periodi di riposo potrebbe risultare vana senza la promozione di una nuova cultura con cui indurre i lavoratori, specie appartenenti alla nuove generazioni, a spegnere gli strumenti tecnologici al di fuori dell’orario di lavoro.
Introdotto dall’art. 55 della c.d. Loi travail, vale a dire la l. 8 agosto 2016, n. 1088, tale diritto è stato regolamentato dall’art. L. 2242-8, comma 7, del Code du Travail, il cui contenuto è stato successivamente trasfuso senza significative modifiche nell’art. L. 2242-17, comma 7 (ad opera dell’art. 107 della L. 5 settembre 2018, n. 771). Tale disposizione prevede l’obbligo per le aziende con più di cinquanta dipendenti di regolamentare – nell’ambito della negoziazione annuale sull’uguaglianza professionale fra gli uomini e le donne e sulla qualità della vita lavorativa (prevista dall’art. L. 2242-1) – le modalità che garantiscano al lavoratore il pieno diritto alla disconnessione e la realizzazione da parte dell’azienda degli strumenti di regolazione dell’utilizzo degli strumenti tecnologici, al fine di assicurare il rispetto dei tempi di riposo e di ferie e i tempi riservati alla vita personale e familiare. In assenza di tale accordo, il datore di lavoro è tenuto a elaborare un regolamento aziendale, sentito il parere del comité d’entreprise, con cui devono essere definite le modalità di esercizio del diritto alla disconnessione e deve essere previsto lo svolgimento di attività di formazione e di sensibilizzazione dei lavoratori, dei quadri e dei dirigenti nell’utilizzo ragionevole degli strumenti tecnologici.
L’onere di regolamentare il diritto in questione è stato dunque delegato alla contrattazione collettiva o, in sua mancanza, al datore di lavoro, senza che il legislatore francese si sia fatto carico di dettare uno standard minimo di tutela destinato ad operare in via suppletiva in caso di inadempimento delle parti sociali. La norma, che peraltro non individua neppure le sanzioni destinate ad essere applicate in caso di sua violazione, si limita perciò a rendere obbligatoria nelle imprese di dimensioni maggiormente elevate la “buona prassi” già avviata da alcune aziende.
Al legislatore francese va ad ogni modo riconosciuto il merito di aver mosso un primo timido passo verso la sperimentazione di soluzione innovative in grado di diffondere una maggiore consapevolezza dei rischi e dei benefici connessi all’utilizzo degli strumenti tecnologici , dando impulso a una innovativa riflessione sfociata anche in altri Paesi in regolamentazioni normative: è quanto è accaduto in Belgio con gli artt. 14 e 15 della legge 26 marzo 2018, con cui la disconnessione e la regolazione dell’utilizzo degli strumenti tecnologici di lavoro sono state incluse fra le tematiche oggetto di negoziazione nell’ambito del Comité pour la Prévention et la Protection au Travail; e in Spagna, ove è stato riconosciuto per la prima volta il diritto alla disconnessione con l’art. 88 della legge 6 dicembre 2018, n. 3, sulla protezione dei dati personali e la garanzia dei diritti digitali , a cui è poi seguita un paio di anni dopo una regolamentazione dettata con specifico riguardo ai lavoratori da remoto . Il solco tracciato da questi Paesi è stato da ultimo seguito dal Portogallo, che è recentemente intervenuto in materia prevedendo il divieto per i datori di lavoro che abbiano almeno dieci dipendenti di contattare i lavoratori al di fuori dell’orario di lavoro, garantendo dunque il diritto alla disconnessione a prescindere dal fatto che la prestazione sia svolta da remoto o meno .
Fra i primi Paesi ad essersi occupati della materia vi è naturalmente anche l’Italia che ha però seguito un percorso parzialmente diverso, riconoscendo espressamente il diritto alla disconnessione con specifico riguardo ai soli lavoratori agili, senza nulla prevedere con riguardo agli altri lavoratori subordinati (v. infra, § 3). Pur con alcune differenze, la nostra normativa ha ad ogni modo tratto ampio spunto dal modello francese, finendo per mutuare dalla regolamentazione d’oltralpe non soltanto i punti di forza ma anche alcuni significativi elementi di debolezza .

3. Il diritto alla disconnessione in salsa italiana: solo per i lavoratori agili?

Varcate le Alpi, dopo alcune prime timide sperimentazioni realizzate dalle parti sociali, il diritto alla disconnessione è stato riconosciuto dal nostro legislatore mediante la l. 22 maggio 2017, n. 81, testo normativo che – com’è noto – regolamenta (nella sua seconda parte) il lavoro reso in modalità agile: l’art. 19, comma 1, secondo capoverso, stabilisce infatti che l’accordo scritto relativo allo svolgimento della prestazione lavorativa “in modalità agile” deve individuare «i tempi di riposo del lavoratore nonché le misure tecniche e organizzative necessarie per assicurare la disconnessione del lavoratore dalle strumentazioni tecnologiche di lavoro».
Il riconoscimento del diritto in questione nei confronti dei soli lavoratori agili non implica tuttavia l’impossibilità di estendere tale diritto anche nei confronti dei lavoratori tradizionali che facciano largo utilizzo degli strumenti tecnologici: non esistendo alcun obbligo legale per i dipendenti di rispondere a e-mail o a telefonate di lavoro al di fuori dell’orario, l’eventuale disconnessione (e, dunque, la mancata risposta) non potrà certo essere sanzionata dal datore di lavoro. Del resto, il diritto alla disconnessione costituisce l’adattamento in chiave 4.0 del diritto al riposo e del diritto alla riservatezza: diritti che affondano le radici in profondità nell’ordinamento interno, internazionale e uni-europeo e che non necessitano certo di ulteriori specificazioni per potersi applicare nei moderni contesti lavorativi .
Benché il potere organizzativo dell’imprenditore non possa dilatarsi al punto di imporre al lavoratore l’obbligo di rispondere alle chiamate giunte dopo il termine della giornata lavorativa, l’espressa previsione del “diritto di non rispondere” con riguardo a tutti i lavoratori subordinati (a prescindere dalla sottoscrizione di un patto di agilità) potrebbe ad ogni modo rivelarsi utile tenuto conto che in determinati contesti una risposta potrebbe apparire dovuta per il formarsi di una prassi o in forza delle caratteristiche del lavoro prestato, specie in conseguenza della crescente precarizzazione dell’impiego che rende i dipendenti maggiormente esposti alle pressioni del datore. Il riconoscimento ex lege del diritto alla disconnessione nell’ambito di tutti i rapporti di lavoro avrebbe infatti l’indubbia utilità di disincentivare il datore dal tentare di contattare il lavoratore al di fuori dell’orario pattuito, evitando così di effettuare pressioni su quest’ultimo durante il periodo di riposo, rafforzando al contempo la tutela della privacy dei lavoratori .

4. Nel lavoro agile: un possibile equilibrio fra assenza di vincoli temporali e rispetto dei limiti di durata massima

È però con riguardo al lavoro agile che il riconoscimento del diritto alla disconnessione assume un’importanza peculiare, rappresentando lo strumento con cui tentare di conciliare il potenziale superamento dei vincoli temporali ammesso da questa modalità di lavoro con il necessario rispetto dei limiti di durata massima della prestazione. Com’è noto, l’art. 18 della l. n. 81/2017 ammette infatti la possibilità per i lavoratori che abbiano sottoscritto un patto di agilità di svolgere la prestazione senza «precisi vincoli» non solo di luogo di lavoro ma anche di orario di lavoro: si tratta di una disposizione senza dubbio innovativa (ancorché finora abbia stentato a trovare concreta applicazione pratica) , che consente al lavoratore di prestare la propria opera nei momenti a lui più consoni così da poter rendere effettiva quella conciliazione vita-lavoro che – nelle intenzioni del legislatore – dovrebbe costituire il principale obiettivo di tale modalità di impiego.
Tale libertà non deve tuttavia ripercuotere i suoi effetti negativi sul lavoratore stesso: pur in assenza di una precisa collocazione dell’orario, la prestazione deve essere svolta «entro i soli limiti di durata massima dell’orario di lavoro giornaliero e settimanale, derivanti dalla legge e dalla contrattazione collettiva» (art. 18, comma 1, l. n. 81/2017). Nel redigere questa norma il legislatore è stato in verità piuttosto impreciso, non avendo verificato l’esistenza di un raccordo fra la norma in questione e il d.lgs. n. 66/2003 in materia di orario: la legge sul lavoro agile utilizza infatti come parametro di riferimento il limite della durata massima dell’orario di lavoro giornaliero derivante dalla legge, dimentica del fatto che il d.lgs. n. 66 non fissa invece alcun tetto massimo alla prestazione giornaliera, a sua volta non curandosi della riserva di legge in materia prevista dall’art. 36, comma 2, Cost. Al di là dello scarso coordinamento del legislatore, è ad ogni modo senz’altro apprezzabile la scelta di imporre ai lavoratori agili il rispetto dei limiti di durata massima, a differenza invece da quel che accade nei confronti dei «lavoratori la cui durata dell’orario di lavoro, a causa delle caratteristiche dell’attività esercitata, non è misurata o predeterminata o può essere determinata dai lavoratori stessi»: nei confronti di tale categoria, che per espressa previsione del legislatore ricomprende i telelavoratori, l’art. 17, comma 5, del d.lgs. n. 66/2003 ha infatti escluso l’applicazione delle norme in materia di orario normale, orario massimo settimanale, lavoro straordinario e riposo giornaliero .
Ancorché corredata dal necessario rispetto dei limiti di durata massima della prestazione, è però evidente che la flessibilità oraria ammessa dal lavoro agile unita all’utilizzo di strumenti tecnologici per il lavoro può rendere più difficile la separazione fra il tempo dedicato all’attività professionale e quello riservato alla propria vita privata: tale rischio è stato posto in luce da molteplici ricerche che hanno evidenziato come il lavoro da remoto renda maggiormente difficile delineare confini netti nel tempo, determinando spesso un prolungamento di quello dedicato al lavoro . Eppure anche nei rapporti di lavoro da remoto occorre mantenere una contrapposizione binaria fra il tempo di lavoro e il tempo di riposo, in modo tale da porre l’orario di lavoro «in opposizione al periodo di riposo, ciascuna delle due nozioni escludendo l’altra» : la Corte di giustizia ha infatti più volte ribadito che tale contrapposizione è volta a consentire alla normativa sull’orario di adempiere al duplice compito di tutela della salute dei dipendenti e di misurazione della prestazione che le è proprio e rappresenta pertanto l’elemento fondativo su cui si regge la direttiva n. 2003/88.
Del resto, il nesso indissolubile fra tutela della salute e rispetto dei limiti massimi in materia di orario permane stringente anche nel lavoro digitale e non a caso è stato rimarcato nel Framework Agreement on Digitalisation sottoscritto il 22 giugno 2020 dalle parti sociali a livello europeo : in tale accordo è stata infatti sottolineata la necessità di prevenire il rischio di una difficile separazione tra il lavoro e la vita personale derivante dal crescente utilizzo di strumenti tecnologici, promuovendo la diffusione di linee guida e informazioni per lavoratori e datori di lavoro sulle modalità con cui garantire il rispetto delle norme in materia di orario di lavoro, al fine di ridurre al minimo i pericoli per la salute derivanti dall’eccessiva connessione.
Non solo. Riflettendo alla luce del primario obiettivo della tutela della salute perseguito dalla direttiva 2003/88 così come interpretato dalla Corte di giustizia, si deve ritenere che «anche per il lavoro in modalità agile sussiste l’obbligo di instaurare un sistema obiettivo, affidabile e accessibile che consenta la misurazione della durata dell’orario di lavoro» : rimarcato dai giudici di Lussemburgo in una pronuncia di un paio di anni fa , tale obbligo non può che applicarsi anche al lavoro reso in modalità agile, dal momento che pure nei confronti dei lavoratori che abbiano sottoscritto tale patto deve essere naturalmente riconosciuto il diritto – sancito dall’art. 31, par. 2, della Carta di Nizza e precisato nella direttiva n. 2003/88 – a una limitazione della durata massima del lavoro e a periodi di riposo giornaliero e settimanale . Pur con una sentenza non riguardante direttamente il lavoro da remoto, la Corte di giustizia ha dunque contribuito a correggere la tendenza a considerare il lavoro digitale immune dalla misurazione dell’orario di lavoro, cogliendo altresì l’occasione per sottolineare la necessità di garantire la determinazione del numero di ore di lavoro non soltanto su base settimanale ma anche a livello giornaliero .
I giudici di Lussemburgo hanno peraltro mostrato di essere consapevoli degli ostacoli che l’applicazione della direttiva 2003/88 potrebbe dover affrontare dinnanzi a modalità di lavoro innovative, ampliando progressivamente la nozione di orario di lavoro. Dopo aver ammorbidito il vincolo dell’effettivo esercizio dell’attività o delle funzioni , la Corte ha disancorato la nozione di orario dal requisito della presenza fisica del lavoratore nel luogo indicato dal datore : nelle pronunce più recenti è stato infatti precisato che per valutare se un frammento di tempo costituisce orario di lavoro occorre verificare la sussistenza di vincoli in capo al lavoratore «di natura tale da pregiudicare in modo oggettivo e assai significativo la facoltà, per quest’ultimo, di gestire liberamente, nel corso del periodo in questione, il tempo durante il quale i suoi servizi professionali non sono richiesti e di dedicare questo tempo ai propri interessi» , restando poco significativo il dato topografico. Il risultato è un progressivo degrado del requisito spaziale a «criterio non determinante ai fini della qualificazione del tempo» come orario di lavoro.
Tenendo ben presenti i vincoli uni-europei e interni che occorre rispettare, il diritto alla disconnessione pare dunque destinato ad assumere un rilievo di importanza centrale, crescente di pari passo al progresso tecnologico: facendo coincidere i momenti di spegnimento dei dispositivi e la conseguente condizione di off line con i periodi di non lavoro , il “diritto di non rispondere” potrebbe agevolare la separazione fra il tempo di lavoro e quello di riposo, facilitando la verifica del rispetto delle norme poste in materia di tutela della salute.

4.1. Un diritto soltanto enunciato?
Riconosciuto dal nostro legislatore e enfatizzato, a livello europeo, dal Framework Agreement on Digitalisation, il diritto alla disconnessione costituisce un tassello imprescindibile per consentire l’effettiva delimitazione del tempo dei lavoratori “digitali”, specie di quelli che abbiano sottroscritto un patto di agilità. Eppure il concreto godimento del diritto in questione non può dirsi al momento sufficientemente garantito: già si è detto che la norma enuncia il diritto con riguardo ai soli lavoratori agili senza chiarirne la sua applicabilità nei confronti di tutti i lavoratori che si avvalgano delle nuove tecnologie per lo svolgimento della prestazione; per di più il testo di legge è scritto in termini davvero troppo blandi, finendo per comprometterne l’effettiva capacità di raggiungere i rilevanti obiettivi preposti.
Discutibile è anzitutto la mancata previsione di sanzioni per l’eventuale violazione del diritto da parte del datore di lavoro. Ma soprattutto è censurabile la scelta di limitarsi ad enunciare il diritto, rinviando la sua regolamentazione all’accordo individuale fra datore di lavoro e lavoratore (art. 19, comma 1). La fiducia del legislatore nella capacità delle parti di stabilire un equilibrio tra i contrastanti interessi in gioco non sembra infatti ben riposta: molto spesso alla firma del lavoratore è sottoposto nient’altro che un format precompilato di contratto individuale, nell’ambito del quale si rintraccia un generico riferimento al diritto alla disconnessione senza che ne vengano illustrate le concrete modalità applicative . La spinta verso l’individualizzazione del rapporto di lavoro rischia dunque di tradursi, senza opportuni correttivi, in un rafforzamento del potere datoriale.
A tale rischio hanno cercato di porre rimedio le parti sociali, tentando di riempire di contenuto il diritto che la legge si è limitata a enunciare. Il numero di accordi collettivi intervenuti su tale aspetto è tuttavia ancora limitato, pur se in costante crescita : segno che sta aumentando la consapevolezza in ordine alla centralità della tutela del diritto alla disconnessione quale alter ego del diritto al riposo e complemento del diritto alla privacy.
Peraltro, come già accennato, i risvolti problematici della scelta di rinunciare in partenza a dettare uno standard minimo di tutela valido per tutti i lavoratori sono emersi con maggiore evidenza a seguito della deroga alla necessaria sottoscrizione dell’accordo individuale introdotta per fronteggiare l’emergenza sanitaria: ad eccezione dei pochi casi in cui il diritto alla disconnessione era già stato disciplinato dalla contrattazione collettiva, la deroga si è infatti tradotta in un vuoto normativo che ha finito per esporre i dipendenti a una inedita forma di lavoro da remoto non regolamentata e di carattere spesso invasivo. Al fine di porre rimedio a tali effetti distorsivi, il legislatore è tornato ad occuparsi di questo delicato tema con l’art. 2, comma 1-ter della l. 6 maggio 2021, n. 61, che – nel convertire il d.l. 13 marzo 2021, n. 30 – ha da ultimo riconosciuto «al lavoratore che svolge l’attività in modalità agile il diritto alla disconnessione dalle strumentazioni tecnologiche e dalle piattaforme informatiche, nel rispetto degli eventuali accordi sottoscritti dalle parti e fatti salvi eventuali periodi di reperibilità concordati», precisando altresì che «l’esercizio del diritto alla disconnessione, necessario per tutelare i tempi di riposo e la salute del lavoratore, non può avere ripercussioni sul rapporto di lavoro o sui trattamenti retributivi». Inserita in un testo normativo recante «misure urgenti per fronteggiare la diffusione del Covid-19 e interventi di sostegno per lavoratori con figli minori in didattica a distanza o in quarantena», tale disposizione ha il merito di ribadire e, al contempo, rafforzare il diritto alla disconnessione garantendone l’effettività in questo delicato momento a prescindere dalla regolamentazione mediante accordo individuale. Si tratta di una norma senz’altro apprezzabile la cui applicabilità meriterebbe però di essere “sganciata” dall’attuale contesto di emergenza sanitaria travalicandone i confini temporali , così da attribuire carattere strutturale al riconoscimento ex lege del diritto alla disconnessione e superare in tal modo i problemi finora posti dalla l. n. 81/2017.

5. Qualche cosa bolle in pentola: uno scorcio sul futuro
Tenuto conto della delicatezza del tema, ben venga la crescente attenzione ad esso dedicata, emersa da ultimo anche a livello uni-europeo. Nella Risoluzione volta a promuovere l’adozione di una direttiva in materia , il Parlamento Ue – pur sottolineando che ai lavoratori digitali «dovrebbero essere garantiti una certa autonomia, flessibilità e il rispetto della sovranità sul tempo» consentendo di «organizzare il loro orario di lavoro in base alle responsabilità personali» – ha ribadito «che il rispetto dell’orario di lavoro e della sua prevedibilità è considerato essenziale per garantire la salute e la sicurezza dei lavoratori e delle loro famiglie nell’Unione» , rimarcando ancora una volta l’indissolubile nesso esistente fra rispetto dei limiti massimi in materia di orario di lavoro e tutela della salute. Richiamando in proposito la giurisprudenza della Corte di giustizia , la proposta di direttiva intende affidare agli Stati membri il compito di garantire che «i datori di lavoro istituiscano un sistema oggettivo, affidabile e accessibile che consenta la misurazione della durata dell’orario di lavoro giornaliero svolto da ciascun lavoratore, nel rispetto del diritto dei lavoratori alla vita privata e alla tutela dei dati personali», riconoscendo altresì il diritto per i lavoratori di «richiedere e ottenere il registro del loro orario di lavoro» . A tal fine, «previa consultazione delle parti sociali al livello adeguato», dovranno essere garantite modalità dettagliate che consentano ai lavoratori di esercitare il diritto alla disconnessione e dovrà essere accertato «che i datori di lavoro attuino tale diritto in modo equo e trasparente»: il richiamo delle parti sociali è senz’altro opportuno, giacché la contrattazione collettiva (specie di categoria) se adeguatamente stimolata può certamente costituire il livello di regolamentazione più adatto per garantire uno sviluppo del lavoro da remoto ordinato e aderente alla realtà da regolare. La proposta di direttiva elenca inoltre un nucleo minimo di condizioni di lavoro che dovranno essere garantite a livello nazionale, fra cui le modalità pratiche per scollegarsi dagli strumenti digitali a scopi lavorativi e il sistema per la misurazione dell’orario di lavoro , sulla base del presupposto che anche nel lavoro digitale persiste un nesso indissolubile fra tutela della salute e rispetto dei limiti massimi in materia di orario.
I tempi per l’adozione della direttiva si preannunciano, tuttavia, piuttosto lunghi, a causa dell’approvazione di un emendamento presentato dal Partito Popolare Europeo con cui è stato chiesto alla Commissione di posticipare di tre anni l’iniziativa in materia: termine che, stando alle dichiarazioni dei proponenti, dovrebbe risultare funzionale a consentire alle parti sociali di adottare misure di attuazione dell’accordo quadro sulla digitalizzazione ma che rischia di tradursi in un’inutile dilazione . Ad ogni modo, la presa di posizione del Parlamento europeo merita di essere enfatizzata fin da ora, pur nelle more dell’approvazione della direttiva, e deve essere tenuta in debito conto così da alimentare la riflessione sul tema avviata a livello interno.
In seguito all’emergenza pandemica, nel settembre 2020 il governo italiano ha infatti avviato un tavolo di confronto con le parti sociali con l’obiettivo di prevedere alcuni correttivi agli aspetti della disciplina del lavoro agile che hanno mostrato particolari criticità. Soffermatasi in maniera peculiare sul diritto alla disconnessione nella consapevolezza della scarsa effettività della disposizione che attualmente lo riconosce, la discussione in corso dovrebbe verosimilmente condurre alla firma di un protocollo triangolare entro la fine del 2021: nonostante gli innegabili punti deboli di una norma che si limita ad enunciare il diritto alla disconnessione e il proliferare di disegni di legge in materia, l’intenzione del Governo sembra dunque essere quella di mantenere invariata la legge attualmente vigente, demandando all’intesa sindacale il compito di regolare i contenuti minimi dell’accordo individuale sul lavoro agile .
Un’analoga riflessione sta riguardando l’utilizzo del lavoro agile nell’ambito della Pubblica Amministrazione: poco dopo l’emanazione del D.p.c.m 23 settembre 2021 che ha ripristinato dopo il lungo periodo di emergenza sanitaria l’attività lavorativa in presenza come la modalità ordinaria di svolgimento della prestazione, il Ministero ha infatti presentato le “Linee guida sullo smart working nel pubblico impiego”, nelle quali il lavoro da remoto (inteso come svolgimento della prestazione da una sede diversa quella consueta, mantenendo però l’organizzazione oraria tradizionale) viene distinto dal più evoluto lavoro agile, che consente di lavorare a distanza «senza un vincolo di orario nell’ambito delle ore massime giornaliere e settimanali previste dai contratti nazionali». Con riguardo a questa seconda modalità di lavoro, le Linee guida stabiliscono che deve essere prevista una «fascia di inoperabilità» con cui garantire il diritto alla disconnessione nelle undici ore di riposo consecutive previste dalla legge; diritto che, a ben vedere, andrebbe però riconosciuto in tutti i momenti di non lavoro (ivi comprese le pause).
A quanto risulta, le Linee guida anticipano il contenuto del contratto collettivo per il comparto delle funzioni centrali del quale è in corso la trattativa per il rinnovo e che, stando a quanto finora trapelato, dovrebbe delineare regole fondamentali del rapporto di lavoro agile, così da fornire una cornice di riferimento per i contratti individuali a cui la l. n. 81/2017 demanda compiti assai rilevanti. In particolare, per quanto qui di interesse, il contratto collettivo dovrebbe definire regole chiare ed esigibili con cui garantire il rispetto dei limiti massimi di orario di lavoro: a tal fine le parti sociali intendono introdurre una distinzione del tempo in tre fasce, denominate “operatività”, “contattabilità” e “inoperabilità”, garantendo nel corso di quest’ultima il diritto alla disconnessione completa. Per poter fare una valutazione compiuta di tale regolamentazione occorre naturalmente attendere di poter leggere il testo definitivo dell’accordo. Sembra tuttavia possibile affermare che la regolamentazione del lavoro agile nel contratto collettivo per il comparto delle funzioni centrali potrebbe assurgere il ruolo di apripista non solo per l’intera contrattazione collettiva nel pubblico impiego (così come espressamente auspicato dal Governo) ma anche per l’azione delle parti sociali nelle categorie produttive in ambito privato che si sono finora scarsamente occupate del lavoro da remoto: la speranza è che possa emergere un modello virtuoso di regolamentazione da cui risulti rafforzata la catena fra le diverse fonti chiamate a regolare lo smart work.
L’esperienza degli ultimi anni ha infatti mostrato come le difficoltà legate al lavoro agile e, più specificamente, al diritto alla disconnessione sono frutto non solo di una normativa troppo soft, ma anche di un’eccessiva debolezza dell’anello che dovrebbe congiungere legge e contrattazione collettiva. Ben venga, dunque, la restituzione alla mediazione sindacale di un ruolo da protagonista: con l’auspicio che, guidata dalle parti sociali, la locomotiva della digitalizzazione del lavoro possa continuare a correre sterzando verso la corretta direzione.

 

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