Testo integrale con note e bibliografia
1. La tutela dei professionisti non ordinistici tra conquiste e sfide ancora aperte.
Nell’ambito di una riflessione sul reddito da lavoro non subordinato acquista una rilevanza particolare la situazione delle professioni non organizzate in ordini e collegi per le caratteristiche e la “pluralità” di tale gruppo professionale.
Da un lato, la crisi pandemica ha penalizzato con forza il lavoro indipendente e i comparti del terziario in cui si concentrano prevalentemente i professionisti non ordinistici, e ha frenato il trend di espansione costante di questo gruppo professionale che ha registrato infatti una battuta d’arresto nell’ultimo anno . Si è al contempo aggravata la penalizzazione di questi lavoratori sul fronte reddituale: i redditi dei professionisti non ordinistici sono mediamente molto più bassi rispetto a quelli dei professionisti ordinistici , avvalorando l’ipotesi che il settore, in alcuni casi, funga da “spugna” per gli esclusi da mercati professionali asfittici .
Dall’altro, e in termini più generali, tale gruppo professionale esprime in modo esemplificativo l’evoluzione della dicotomia subordinazione/autonomia ( ) di fronte all’emergere di processi di professionalizzazione diffusa ( ) ma soprattutto di esigenze concrete di protezione che “precedono” ( ) la questione tecnica della qualificazione giuridica dei rapporti di lavoro.
Il problema del “lavoro povero”, in particolare, travalica tale dicotomia in modo evidente con riferimento al lavoro professionale, interessandolo trasversalmente, qualsiasi sia lo statuto contrattuale con cui i professionisti esercitano la loro attività ( ), e ciò è particolarmente vero con riferimento ad alcune “nuove professioni” che stanno conoscendo notevole espansione (si pensi solo all’area dei servizi di ausilio domestico e familiare).
Per inquadrare correttamente il problema occorre innanzitutto tracciare alcune coordinate sul piano definitorio, partendo dall’ambito di applicazione della Legge n. 4/2013 che per la prima volta introduce nel nostro ordinamento una disciplina per le professioni non organizzate in ordini e collegi. L’art. 1 della l. 4/2013, infatti, presenta un dato normativo di estremo interesse, dapprima, definendo una macro-categoria connotata da alcuni elementi caratterizzanti (commi da 1 a 4): contenuto dell’attività (prevalentemente intellettuale), esercizio della professione libero e fondato sulla autonomia, sulle competenze, sulla indipendenza di giudizio intellettuale e tecnica, sulla specializzazione dell’offerta dei servizi, sulla responsabilità del professionista. Poi (comma 5) precisando che la professione può essere esercitata in forma individuale, in forma associata, societaria, cooperativa, o nella forma del lavoro dipendente. Un perimetro definito, dunque, sulla base della natura e del contenuto della prestazione professionale, non della specifica forma giuridica che assume l’obbligazione di lavoro, ricomprendendo diverse fattispecie tutte qualificabili dall’impiego di specifiche capacità professionali in funzione di una collaborazione lavorativa che ha come contropartita l’obbligo della di prestare un corrispettivo, che può assumere diversa natura (retribuzione, corrispettivo, partecipazione ai guadagni, accesso a prestazioni mutualistiche, …).
L’analisi degli statuti e dei regolamenti delle associazioni professionali (ad oggi 266)( ) che rappresentano questi lavoratori ( ), iscritte nell’elenco del Ministero dello sviluppo economico istituito dalla l. 4/2013 proprio per aumentare la trasparenza del settore, conferma due dati: l’ampiezza del perimetro delle “nuove professioni” in termini di aree professionali interessate ( ); la compresenza di lavoratori autonomi e subordinati ( ), fino al caso limite delle “associazioni datoriali sindacali professionali” che rappresentano imprese, lavoratori autonomi e lavoratori subordinati che operano in uno specifico mercato professionale.
Un elemento che rende certamente complessa l’operazione di individuazione di un adeguato apparato di tutele per questi lavoratori.
Il modello di tutela introdotto dal Legislatore della l. 4/2013, infatti, è connotato da una specifica attenzione al problema della qualificazione dei servizi professionali e del riconoscimento delle capacità professionali dei professionisti, nel prisma della tutela dei consumatori attraverso elevati standard di qualità dei servizi professionali. La parzialità di tale intervento di tutela è accentuata dalla prospettiva selettiva adottata dal legislatore anche nei successivi interventi di regolazione che hanno riguardato solo il lavoro professionale autonomo, o solo una parte del lavoro professionale ( ). Ciò che si cercherà di mettere in evidenza nei paragrafi che seguono è però come la disciplina delle professioni non organizzate in ordini e collegi offra almeno due elementi innovativi che possono contribuire a tracciare nuove coordinate per ripensare in chiave unitaria il tema della tutela del lavoro professionale, anche con specifico riferimento alla determinazione della giusta misura del valore dell’attività professionale prestata. Da un lato, introduce un sistema di qualificazione delle capacità professionali potenzialmente in grado di offrire standard di riferimento comuni per tutti i professionisti; dall’altro, assegna alla rappresentanza un ruolo centrale che potrebbe essere ulteriormente valorizzato nella prospettiva di un coordinamento tra forme di azione di diversi attori della rappresentanza, funzionale anche a rafforzarne il ruolo di autorità salariale nel lavoro professionale.
In questo contributo, nella consapevolezza della complessità e vastità del “problema reale” ( ), ci si concentrerà sul tema del “lavoro povero” e dunque sulle questioni regolatorie relative al riconoscimento di un compenso giusto ed equo a questi professionisti e non sulla problematica, altrettanto importante, della assenza di adeguate tutele nelle situazioni di mancanza di lavoro, che interessa in particolare i professionisti non ordinistici iscritti alla gestione separata INPS, tema oggetto di approfondimento in altri contributi di questo focus ( ).
2. Il problema del lavoro povero nelle professioni non organizzate in ordini e collegi.
Alla luce degli elementi richiamati nel paragrafo precedente, sembra allora opportuno condurre una riflessione che provi a tenere insieme almeno i due mondi del lavoro subordinato e autonomo, partendo dalla considerazione che per molti professionisti non ordinistici (che siano subordinati o indipendenti) l’attuale quadro normativo non offre risposte adeguate a fondamentali istanze di giustizia distributiva e di giustizia contrattuale ( ).
Molte delle professioni ricomprese nel perimetro della l. 4/2013 sono presenti in settori coperti dalla contrattazione collettiva. Non si fa qui riferimento solo alla realtà degli studi professionali ( ), dove la copertura contrattuale ha tradizionalmente riguardato i dipendenti dei professionisti, ma ad almeno altri due fenomeni.
Da un lato, l’esistenza di CCNL il cui ambito di applicazione è espressamente circoscritto ai dipendenti di professionisti non ordinistici ( ) o di loro società, che sono in molti casi essi stessi professionisti non ordinistici. Dall’altro, il fatto che nell’area delle professioni di cui alla l. 4/2013 sono inquadrabili profili professionali presenti in moltissimi settori merceologici, e che rientrano al contempo nell’area di rappresentanza delineata dalle associazioni professionali di riferimento (formatori, esperti di sicurezza del lavoro, esperti in gestione delle risorse umane, mediatori familiari e culturali, educatori, designer, tecnici informatici ed energetici, interpreti, professionisti della privacy, programmatori, professionisti dell’informazione, ecc…). Settori spesso interessati da problemi di dumping contrattuale e salariale: si ripropongono, dunque, per questi professionisti, le problematiche già ampiamente evidenziate dalla letteratura su contrattazione collettiva e giusta retribuzione ( ).
Non mancano, nel panorama delle professioni non organizzate, esempi di contrattazione collettiva che si colloca fuori dal perimetro del lavoro subordinato, nella forma di accordi collettivi ex art. 2, comma 2, d. lgs. 81/2015 ( ) ma non solo. Si segnala tra tutti, anche per l’importanza sociale dei settori di riferimento, il caso del CCNL ausilio familiare ( ), che integra, sostituendoli, due precedenti accordi ex art. 2, comma 2, d. lgs. 81/2015 volti a regolamentare i rapporti di collaborazione per le figure professionali “operatore di aiuto” e “tagesmutter”, ma si pone l’obiettivo più ampio di regolamentare “in un unico testo i rapporti di lavoro destinati all’ausilio familiare, distinguendo tra le differenti fattispecie [rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, contratti subordinati di lavoro domestico, contratti alla pari ] ma riconducendoli a una sintesi comune”.
Con riferimento ai professionisti non ordinistici autonomi, d’altra parte, sono note le problematiche connesse alla concreta esigibilità di un diritto ad un corrispettivo equo, sebbene la giurisprudenza non abbia mancato di evidenziare “(…) ragioni sistematiche volte a tutelare il lavoro e il lavoratore anche nelle prestazioni d'opera intellettuale (…)”( ), individuando nell’art. 2233, comma 2, c.c., un limite al riconoscimento di somme “non consone al decoro della professione”( ).
La disciplina dell’equo compenso (per cui si rimanda ai contributi dedicati in questo focus) – introdotta nel nostro ordinamento per contrastare situazioni di squilibrio nei rapporti contrattuali tra professionisti (ordinistici) e clienti, soprattutto con riferimento ai clienti “forti” (tipicamente individuati nelle imprese bancarie e assicurative nonché nelle grandi imprese) – non è ad oggi applicabile ai professionisti non ordinistici.
Due problematiche sembrano emergere dal dibattito in merito alla possibile estensione di tale disciplina a tutti i professionisti: la possibilità che questo si riveli incompatibile con le norme europee della concorrenza; il problema della individuazione delle concrete modalità di determinazione dei parametri di riferimento per la determinazione dell’equo compenso, considerato che a questi professionisti non si applicano i Decreti ministeriali per la liquidazione giudiziale dei compensi richiamati dall’articolo 13-bis della Legge 247/2012.
Sul primo fronte, senza entrare nel merito dell’articolata questione relativa, in generale, alla compatibilità di interventi di fissazione di standard tariffari per i lavoratori autonomi con il diritto della concorrenza, per cui si rimanda al contributo di Giovanni Piglialarmi in questo numero, ci si limiterà a richiamare la sentenza del 4 luglio 2019 (C -377/17) con cui la Corte di giustizia ha affermato che in materia di compensi professionali, l’indicazione delle tariffe minime e massime è vietata in quanto incompatibile con il diritto dell’Unione Europea, ma sono comunque ammesse deroghe per motivi di interesse pubblico, come la tutela dei consumatori, la qualità dei servizi e la trasparenza dei prezzi. Rileva, però, che l’imposizione di tariffe sia finalizzata a garantire l’interesse generale degli utenti/consumatori rappresentando uno strumento di discernimento della natura e del livello di qualificazione dei servizi, ma anche che tale obiettivo sia perseguito in concreto con diversi strumenti ( ).
Entrambi i requisiti sembrano soddisfatti nel caso delle professioni non organizzate in ordini e collegi, da un lato per il concreto rischio di abbassamento della qualità dei servizi in molte situazioni di mercato in cui i professionisti possono essere spinti a offrire tariffe al ribasso per battere la concorrenza (si pensi alla diffusione di tali professioni in aree sensibili quali i servizi di cura, e anche alla continguità/concorrenza tra diverse professioni non ordinistiche e tra queste e alcune professioni ordinistiche); dall’altro (perseguimento in concreto della garanzia di qualità dei servizi) in virtù delle disposizioni adottate con la legge n.4/2013 (artt. da 6 a 9) e in particolare dello specifico sistema di qualificazione dei servizi e delle attività professionali introdotto ( ).
Con riferimento al problema delle concrete modalità di determinazione dei parametri di riferimento per la definizione di un compenso equo per le professioni non organizzate in ordini e collegi, anche la proposta di legge sull’equo compenso attualmente in discussione alle camere ( ), pur nel tentativo di ampliare l’ambito di applicazione della disciplina a tutte le prestazioni d’opera intellettuali, non scioglie tale nodo.
Può essere utile osservare come il legislatore regionale abbia affrontato il problema, in assenza di un quadro legislativo di riferimento a livello nazionale: la legge regionale 5 giugno 2020, n. 35, della Regione Toscana fa riferimento alle “prestazioni similari” per la determinazione dei parametri di riferimento nel caso delle professioni non organizzate in ordini e collegi, mentre la legge regionale del 12 aprile 2019, n. 6, della Regione Lazio prevede di tenere conto, ove possibile, di omologhe attività svolte da altre categorie professionali. Tali previsioni lasciano tuttavia irrisolto il problema centrale di definire quali prestazioni siano di fatto “similari” od “omologhe” e sulla base di quali criteri: rispetto a tale problema potrebbe risultare centrale proprio la valorizzazione del sistema di qualificazione dell’attività professionale introdotto dalla l. 4/2013 (artt. 6 e 9)(vd. infra, §3).
Merita altresì considerazione l’ipotesi di un meccanismo di determinazione dei trattamenti economici per i professionisti sulla base dei parametri fissati dalla contrattazione collettiva (laddove esistenti). Soluzione già sperimentata in passato ( ), coerente con le più recenti evoluzioni ordinamentali a livello nazionale ( ) e da parte della dottrina ritenuta comunque preferibile ad altre opzioni (salario minimo legale)( ).
3. Una possibile traiettoria di sviluppo verso una tutela uniforme per il lavoro professionale.
Sembra essersi oramai affermato in dottrina e in giurisprudenza l’orientamento secondo cui la determinazione di una giusta misura del reddito dal lavoro, per tutti i lavoratori, non possa che basarsi su parametri che devono essere definiti coerentemente con l’articolo 36 della Carta costituzionale ( ) e quindi in modo tale che il compenso sia proporzionato alla quantità e alla qualità del lavoro svolto, alle caratteristiche e al contenuto della prestazione, oltre che risultare sufficiente ad assicurare una esistenza libera e dignitosa.
Con specifico riferimento ai professionisti non ordinistici, le considerazioni esposte nei paragrafi precedenti suggeriscono inoltre di ragionare sulla creazione di meccanismi di coordinamento idonei a realizzare una tutela unitaria (mediante strumenti differenziati) a lavoratori che operano con differenti status contrattuali.
Ciò potrebbe avvenire attraverso l’ancoraggio di diversi meccanismi di determinazione della retribuzione/del compenso ad uno standard professionale comune, nell’ottica della integrazione tra fonte eteronoma e fonte collettiva, e tra queste e diversi sistemi normativi deputati dal legislatore a definire standard professionali di riferimento per queste professioni (la normazione tecnica).
Tra i numerosi e rilevanti nodi da sciogliere in tale prospettiva rilevano in particolare: quello della definizione del perimetro delle categorie professionali e della loro rappresentanza ( ); quello del ruolo, della qualificazione e della rappresentatività degli attori della rappresentanza, che nel caso delle nuove professioni includono anche le associazioni professionali disciplinate dalla l. 4/2013.
Con riferimento al primo punto, occorre ricordare che la l. 4/2013 prevede che siano definiti standard professionali in sede di normazione tecnica (UNI) che fungono da riferimento per tutti i professionisti che esercitano una determinata attività, ed affida alla rappresentanza un ruolo centrale in questo sistema (alle associazioni professionali disciplinate dalla stessa legge, che potrebbero però – anzi sarebbe auspicabile – operare in coordinamento con la rappresentanza “tradizionale” del settore di riferimento). Tali standard dovrebbero però essere definiti in modo utile a garantire un coordinamento – ad oggi inesistente – con i profili omologhi inseriti nei sistemi di classificazione e inquadramento della contrattazione collettiva, in modo da creare una osmosi tra diversi sistemi di qualificazione delle professionalità, utile ai fini del loro riconoscimento (in varie forme). Operativamente sarebbe necessario un coordinamento tra i diversi soggetti interessati, che potrebbe iniziare da un confronto in sedi già esistenti come il tavolo tecnico di confronto permanente per il lavoro autonomo istituito dalla l. 81/2017 (art. 17).
Molto può arduo immaginare possibili soluzioni al secondo, ma preliminare, ordine di problemi, che va ben oltre le specifiche problematiche dei professionisti non ordinistici (e le prerogative di questo scritto). Ci si limiterà a segnalare come, alle sfide che interessano il sistema italiano della rappresentanza “tradizionale” ( ), si aggiungano le ambiguità che connotano il panorama attuale della rappresentanza professionale, che pone specifiche problematiche sul piano della qualificazione giuridica, ma più in generale dell’inquadramento delle specifiche funzioni e concrete forme di azione dei soggetti coinvolti ( ), e della misura della loro rappresentatività.
In questo scenario, ancora tutto da definire nei suoi risvolti operativi, anche i nuovi attori della rappresentanza contribuirebbero però alla tradizionale funzione di «disturbo dell’equilibrio spontaneo del mercato e della formazione del prezzo naturale del lavoro» ( ) e si allargherebbe, anziché restringersi ( ) lo spettro delle modalità di azione della rappresentanza quale autorità salariale, in una prospettiva maggiormente orientata ad una determinazione della “giusta misura” del reddito da lavoro sulla base dei contenuti del lavoro e delle capacità professionali effettivamente messe in gioco dal lavoratore.
Resta evidentemente aperta la questione se tale prospettiva risponda efficacemente ai bisogni dei “nuovi professionisti”, destinatari di un modello di regolazione (quello della l. 4/2013) che si muove in una logica diversa, e cioè quella di offrire una tutela basata sulla trasparenza del mercato e sulla valorizzazione della professionalità dei lavoratori ( ). Un sistema che, dunque, interpreta la regolazione della concorrenza in termini di definizione di standard qualitativi e professionali per competere sul mercato e di strumenti volti ad assicurare la marginalizzazione dei concorrenti sleali (attraverso la tutela dell’utente/consumatore finale), e non in termini di fissazione della tariffa. La contrapposizione tra queste due differenti visioni – che dividono anche la rappresentanza ma trovano una composizione nel complesso quadro degli interessi rivendicati dai nuovi professionisti – può rappresentare un’occasione per la dottrina giuslavoristica per sviluppare la riflessione su temi centrali per il futuro del lavoro.