Testo integrale con note e bibliografia

1. Per tracciare il filo rosso che unisce gli interventi dell’Unità di ricerca napoletana, impegnata nell’indagare l’impatto della rivoluzione digitale sul piano collettivo, è utile partire da due domande che, nella loro radicalità, meritano la massima attenzione: il sindacato può avere un ruolo nella platform economy e quale? Domande non secondarie se si considerano le note difficoltà che il sindacato incontra, per dirla con recenti analisi empiriche, a non “giocare solo di rimessa”: un esito condizionato dall’essere la platform economy quel segmento dell’economia digitale dove più è percepibile la spinta verso la disintermediazione - per via della marcata tendenza a instaurare relazioni dirette tra utenti, lavoratori e piattaforme - e dove, al contempo, più è diffusa l’idea del lavoratore digitale quale “imprenditore di sé stesso”.
Di tutto questo – si è sostenuto - nemmeno ci si deve stupire, perché il rapido mutare del modo di organizzare e, si potrebbe aggiungere, finanche di concepire il lavoro sta spingendo il sistema giuridico lavoristico a confrontarsi con dinamiche nuove e a “rivedere profondamente” le proprie tecniche di regolazione. Tali affermazioni colgono un profilo di sicura attualità, ma solo in parte sono condivisibili: se nessuno mette in discussione che il diritto del lavoro debba rispondere alle sfide imposte dalla realtà digitale, sembra più che mai attuale l’insegnamento di chi invita a sviluppare il sistema giuridico filtrandone la necessaria apertura gnoseologica mediante i principi fondanti dell’ordinamento. Non c’è dubbio che proprio i suddetti principi impongano di dare il giusto peso al sindacato, la cui “assenza” rischierebbe di generare fratture pericolose.
In sintesi, poiché nell’era dei sistemi cibernetici il lavoro svolto in condizioni di debolezza deve continuare a essere espressione reale della persona nonché strumento di partecipazione alla vita e allo sviluppo del Paese, è ragionevole rinvenire nel sindacato un prezioso veicolo di valori solidaristici, attraverso cui a recuperare la “missione civilizzatrice (o antropologica) del lavoro” e permettere a chi lo presta di riappropriarsi del suo essere “persona”: al tempo della quarta rivoluzione industriale, quindi, il ruolo del sindacato continua a sostanziarsi nel fare del rapporto di lavoro un genuino rapporto di “scambio”, scongiurando rischiose mistificazioni.
Simili considerazioni, solo apparentemente “troppo tradizionali”, sono rimesse al centro del dibattito da significativi interventi della giurisprudenza costituzionale (per tutti Corte Cost. n. 198/2018). E, soprattutto, non sono più appannaggio del solo lavoro subordinato, perché la condizione di debolezza del prestatore costituisce, sì, un tratto “tipico” del contratto di lavoro subordinato, ma non più un suo tratto esclusivo: in molti evidenziano come anche la prestazione autonoma (rectius non etero-diretta) possa risultare assorbita nella struttura datoriale, non consentendo a chi la svolge di maturare quella soggettività economica piena e indipendente che è stata un tradizionale profilo identitario del lavoratore autonomo.

 

2. È questo il caso di chi opera nell’area della platform economy, imponendo di esaminare i principali ostacoli giuridici allo sviluppo del ruolo prima riconosciuto al sindacato: tale indagine non può che muovere dal piano euro-unitario e proseguire con il piano nazionale, su cui si dilungherà Costantino Cordella.
I problemi euro-unitari derivano, anzitutto, dal diritto della concorrenza e, per l’esattezza, dalla complessa relazione tra contratto collettivo, quale strumento per realizzare obiettivi di politica sociale, e disciplina della concorrenza: una relazione al centro della nota sentenza Albany del 1999. Si tratta di una pronuncia prontamente e ampiamente criticata sia perché aprirebbe la strada a un sindacato sull’oggetto e sugli scopi del contratto collettivo, sconosciuto a molti ordinamenti nazionali, sia, ed è il punto che qui più rileva, per gli esiti cui condurrebbe rispetto al lavoro autonomo. Dalla prospettiva del diritto europeo, chi svolge lavoro autonomo viene equiparato a un’impresa individuale anche quando realizza la sua prestazione in forma esclusivamente personale. Pertanto, se riferito a un lavoratore autonomo (rectius impresa), il contratto collettivo non è esente dall’applicazione integrale dell’art. 101 TFUE e, in particolare, del suo paragrafo 2, lett. a), che preclude qualsivoglia determinazione collettiva di compensi minimi inderogabili.
Tornando al piano nazionale, non è difficile intuire i problemi che simile impostazione genera riguardo alla platform economy. Su questa peculiare sezione dell’economia digitale, infatti, l’ordinamento interviene sia con l’art. 2 sia con il Capo V-bis del d.lgs. 81/2015 e, in ambedue i casi, conferisce al contratto collettivo un ruolo di primo piano, collegando alle regole da esso introdotte l’“arretramento” di significative previsioni legali. Per cui, sebbene l’ordinamento sembri in qualche modo continuare a non trascurare il sindacato, occorre verificare quanto l’utilizzo del contratto collettivo sia compatibile con il diritto della concorrenza.

 

3. Diventa, così, prioritario individuare l’esatto perimetro della labor exemption , che, dopo la sentenza FNV del 2014, è scandito dal binomio “falso autonomo” - “lavoratore”.
Per comprendere le implicazioni di simile binomio, è utile una premessa. Il diritto euro-unitario, diversamente da molti ordinamenti nazionali, non conosce una nozione positiva di lavoratore intorno alla quale ruotano le tutele sociali: a scandirne l’operare ratione personae è la Corte di Giustizia con un approccio marcatamente “funzionale”, ossia diretto a garantire l’effettività delle regole europee e, soprattutto, degli equilibri di volta in volta elaborati tra esse.
Pur nella sua estrema sintesi, tale osservazione aiuta a comprendere perché, nel bilanciare le regole sulla politica sociale e sulla concorrenza, la Corte introduce i falsi autonomi, riconoscendogli una posizione “paragonabile a quella dei lavoratori” (punto 31). Valorizzando il proprio approccio funzionale, la Corte torna sulla c.d. dottrina Albany e, attraverso il falso autonomo, definisce “in negativo” l’ambito soggettivo entro cui le regole sulla politica sociale prevalgono sul diritto della concorrenza, lasciando percorrere la via della contrattazione. Più precisamente, se il ricorso al contratto collettivo è ammesso qualora la sua “natura” e il suo “oggetto” consentano di “ricondurlo nell’ambito delle trattative collettive tra parti sociali e di giustificarne l’esclusione … dall’ambito di applicazione dell’articolo 101 TFUE”, in FNV si specifica, anzitutto, in quale circostanza la “natura” del contratto impedisce - perciò in negativo - di sottrarre la trattativa collettiva alle regole della concorrenza: eventualità che, muovendo dagli artt. 153 e 155 TFUE, viene ravvisata laddove il contratto si applichi a chi svolge un’attività economica realmente imprenditoriale (punti 28 e 29).
Simile impostazione, è fin troppo agevole intuirlo, esige di specificare quando si è fuori da tale ipotesi. A tal fine, la Corte “paragona” la nozione di lavoratore elaborata per la libera circolazione, poi “estesa” alle direttive “coesive” , al prestatore di servizio privo di autonomia nel mercato: in entrambi i casi il contratto collettivo è tale per il diritto europeo, perché non è rivolto a lavoratori autonomi in senso proprio e, cioè, a imprese. È questo il senso del “paragone” su cui la Corte insiste, accostando a chi “per un certo periodo di tempo, a favore di un’altra e sotto la sua direzione, esegue prestazioni in contropartita delle quali riceva una retribuzione” il prestatore di servizi che perde “la qualità di operatore economico indipendente, e quindi d’impresa, qualora non determini in modo autonomo il proprio comportamento sul mercato” (rispettivamente punti 33 e 34)”: più che la dicotomia subordinazione - autonomia, preme stabilire quando non c’è impresa per il diritto della concorrenza, in modo da rendere operanti le regole sulla politica sociale.
Sulla nozione di lavoratore tanto potrebbe essere detto, ma è utile concentrare l’attenzione sul suo tratto più enigmatico, da rinvenire nel riferimento alla “direzione del datore”. Al riguardo, per restare alla sentenza FNV, la Corte valorizza il caso Allonby del 2004 e identifica il contenuto della direzione datoriale nella restrizione della “libertà di determinare l’orario, il luogo o il contenuto del loro lavoro” (v. punti 71 cui rimanda FNV): a costituire l’essenza del concetto di direzione, come tra l’altro rimarcato da diversi autori, è la limitazione dell’autonomia nell’organizzare la prestazione .
Tuttavia - si diceva poc’anzi - la Corte “paragona” al lavoratore il prestatore di servizi che non “determina in modo autonomo il proprio comportamento sul mercato”: eventualità che lo priva della qualifica di impresa, instaurando una relazione di unità economica con il committente. Il problema è come definire tale condizione: sulla base di quali indici. È qui che il rinvio ai precedenti sulla nozione di impresa, operato nella sentenza FNV, si fa più interessante, perché, muovendo dal proprium di siffatta nozione, non è peregrino individuare la perdita dell’autonomia in parola qualora l’autore della “prestazione di servizio” non ne stabilisca le “condizioni di vendita” e, principalmente, non ne fissi il “prezzo di vendita” sul mercato.
Le riflessioni fatte non risolvono ogni problema, restando da definire quando la contrattazione collettiva, secondo l’impostazione Albany, travalichi i confini del suo “oggetto a tutela delle condizioni di lavoro”. Sul punto la sentenza FNV non è chiara, limitandosi a puntualizzare, con uno sguardo molto tarato sui fatti dedotti in giudizio, che le tariffe minime contribuiscono “direttamente al miglioramento delle condizioni di occupazione e di lavoro”. D’altronde, questa mancanza di chiarezza nemmeno deve stupire se, ad avviso della letteratura che più si è occupata del tema, “i Giudici di Lussemburgo non hanno mai espressamente chiarito tale aspetto … simile confine implicitamente risulta, però, dover esser assai esteso se le previsioni dei contratti collettivi [sottoposti alla] giurisprudenza di quest’ultimo ventennio … nella maggior parte dei casi … sono usciti indenni ...” e - prosegue l’A. - “una esenzione così estesa dalla disciplina della concorrenza non può che essere naturalmente riconosciuta anche ai lavoratori autonomi non imprenditori” .

 

5. Il quadro brevemente ricostruito consente di affrontare i dubbi collegati agli artt. 2 e 47-quater d.lgs. 81/2015, verificando, a prescindere dalle qualificazioni formali dell’ordinamento nazionale, se sussistono gli estremi per evitare il contrasto con l’art. 101, par. 1, TFUE.
Con l’art. 2 viene plasmata, oltre i confini della subordinazione, una fattispecie strutturata sulla centralità del potere di etero-organizzazione: un potere diverso da quello direttivo, permettendo al committente di intervenire unicamente su profili definiti della prestazione. Pur limitandosi a simili rilievi, non sembra potersi escludere l’applicabilità della labor exemption al platform workers etero-organizzato: quest’ultimo è senz’altro esposto alla “direzione” nell’accezione fatta propria dalla Corte di Giustizia, che la intende come limitazione dell’autonomia nell’organizzare la prestazione.
Certo, dopo le modifiche del 2019, tale restrizione può non riguardare il profilo spazio - temporale. Ma ciò poco rileva dalla prospettiva euro-unitaria, essendo “sufficiente” un’ingerenza unilaterale sul “contenuto della prestazione” sebbene limitata a profili diversi rispetto a quelli da ultimo indicati. Né rileva la distinzione tra lavoro etero-diretto e lavoro etero-organizzato: essa appartiene all’ordinamento nazionale e nulla aggiunge all’analisi della Corte. Insomma, chi svolge la sua attività in modalità etero-organizzata è, dal versante del diritto europeo della concorrenza, un lavoratore, risultando privo di una piena autonomia organizzativa.

 

6. Molto più problematico è lo scenario che si prospetta all’interprete quando si passa dall’art. 2 all’art. 47-quater d.lgs. 81/2015: i problemi derivano dalle ondivaghe indicazioni normative, che danno adito a variegate letture.
Secondo una prima interpretazione, l’art. 47-bis, co. 1, precisando che “le tutele del lavoro tramite piattaforma” operano “fatto salvo quanto previsto dall’art. 2”, configura una fattispecie distinta da quella dell’art. 2. A scandire la relazione tra le due norme è la natura bilaterale o unilaterale del raccordo organizzativo: nel primo caso ci si troverebbe entro il perimetro dell’art. 47-bis; nel secondo entro il perimetro dell’art. 2. Né tale lettura è preclusa dal discusso comma 2 dell’art. 47-bis, secondo cui “si considerano piattaforme i programmi e le procedure informatiche utilizzati dal committente che, indipendentemente dal luogo di stabilimento, sono strumentali alle attività di consegna di beni … determinando le modalità di esecuzione della prestazione”: la piattaforma digitale - si osserva - costituisce una modalità di organizzazione del committente, elemento di per sé neutro rispetto alle varie fattispecie di rapporti di lavoro.
Siffatta interpretazione - si diceva - non è la sola.
Si ritiene, infatti, che il comma 2 dell’art. 47-bis non introduca un elemento neutro, ma rilanci la centralità dell’unilateralità organizzativa. Ne deriva un’evidente antinomia tra il primo e il secondo comma dell’art. 47-bis, che è possibile superare solo escludendo l’assunto di partenza della precedente ricostruzione: la netta distinzione tra l’art. 47-bis e l’art. 2 d.lgs. 81/2015. Mediante il Capo V-bis, infatti, l’ordinamento ha introdotto un livello minimo di tutele applicabili alle prestazioni etero-organizzate dalle piattaforme nonostante “l’intervento derogatorio della contrattazione collettiva, la quale, ai sensi dell’art. 2, co. 2, è chiamata a svolgere una differenziazione disciplinare selettiva e modulare delle tutele”.
Infine, nel tentativo di dirimere le difficoltà operative del più volte citato 47-bis del d.lgs. 81/2015, si è proposto di valorizzare l’occasionalità della prestazione, da intendere come mancanza della continuità richiesta dall'articolo 2: requisito da determinare con riferimento sia alla reiterazione della prestazione sia alla durata del rapporto.

 

7. Il dibattito sull’art. 47-bis, qui ripercorso solo a grandi linee, è decisamente aperto ed esige approfondimenti che questa sede non permette di svolgere. Prendere atto di tale complessità, però, è importante, perché fa emergere la nitida difficoltà di rintracciare nell’art. 47-bis i requisiti tratti dal caso Allonby, per definire il lavoratore: la presenza e l’intensità dell’unilateralità organizzativa non sono pacifiche come non è univoca la continuità della collaborazione.
Tuttavia, la sentenza FNV, nel senso già chiarito, “paragona” al lavoratore il prestatore di servizi privo della qualità di “operatore economico indipendente sul mercato”: occorre verificare, pertanto, il ricorrere di simile condizione nell’art. 47-bis. Certo, la verifica non è agevole, perché l’art. 47-bis non si presta a letture univoche. Ma, se ciò è vero, è anche vero che, dalla prospettiva del diritto europeo, l’ordinamento nazionale deve proporre un impiego del contratto collettivo, quale tecnica per differenziare le regole e tutelare l’equilibrio negoziale, compatibile al diritto della concorrenza: diversamente, il rischio di antinomie con l’art. 101 TFUE è concreto e da alcuni già prospettato.
Fatte tali premesse, un utile spunto di riflessione sembra fornito dal secondo comma dell’art. 47-bis, dove si legge che è la piattaforma a determinare il compenso del servizio di consegna. La norma rende opportuna qualche delucidazione, giacché ci si è chiesti a quale compenso si riferisca il legislatore: quello che “versa il cliente della consegna dei beni alla (società che gestisce la) piattaforma” o quello che “versa l’impresa titolare della piattaforma al lavoratore ‘autonomo’ … che esegue la prestazione di lavoro”. A ben vedere, la norma si lascia alle spalle le incertezze del d.l. 101/2019 e, come pure si è detto, si riferisce al “costo” dell’“attività di consegna di beni”, che viene definito, quindi, unilateralmente dal committente.
Si tratta di un dato significativo, giacché, in base alla giurisprudenza sulla nozione di impresa citata da FNV, l’assenza di indipendenza economica nel mercato sussisterebbe proprio quando le condizioni e, in particolare, il prezzo di “vendita del servizio” - nel caso di specie l’attività di consegna - sono determinati dal committente. Sicché, dalla prospettiva della concorrenza, la prestazione in parola sembrerebbe formare un tutt’uno, anche se solo temporaneamente, con l’organizzazione del committente e, soprattutto, con quanto il committente “vende” sul mercato. Operando “per conto” di quest’ultimo e non stabilendo il “prezzo del servizio”, in definitiva, il rider “tipizzato” dall’art. 47-bis assumerebbe il ruolo di ausiliario del committente nel senso euro-unitario del termine: un soggetto privo della “qualifica di impresa”, legato al committente da una relazione di unità economica e per il quale non è vietato utilizzare il contratto collettivo.

 

Questo sito utilizza cookie necessari al funzionamento e per migliorarne la fruizione.
Proseguendo nella navigazione acconsenti all’uso dei cookie.