TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA

1. Premessa.
Il Convegno veneziano su Lavoro e diritti nella rivoluzione di internet ha il pregio di avere messo insieme prospettive diverse e temi eterogenei per i quali è necessario trovare un fil rouge, non necessariamente unificante, ma capace di connettere logicamente e normativamente le fattispecie considerate entro una coerente linea di politica del diritto, oltre che di stretta interpretazione e ricostruzione dei dati del diritto positivo.
Da un punto di vista materiale e sociale, non v’è dubbio che questo fil rouge è costituito dal rapporto tra il lavoro e la tecnica, da sempre foriero di ambivalenze e difficoltà analitiche (basti pensare al significato greco antico del termine techne, che riporta sia al concetto di mestiere sia quello di arte), complicantesi nel corso della modernità con l’avvento del capitalismo. Il capitalismo ha impiegato la tecnica rovesciando il paradigma originario, e facendo di essa non più un instrumentum nelle mani dell’uomo ma uno strumento di dominio del capitale sull’uomo, una Gestalt tecno-economica. E’ questa la cupa visione heideggeriana della tecnica, che da strumento in vista di fini posti dall’uomo, si trasfigura in un modo del dominio e di un’imposizione annichilente: descritta come pro-vocazione che pretende dalla natura che essa fornisca energia che possa come tale essere estratta e accumulata in un “fondo”, di cui lo stesso uomo ormai fa parte (lo stesso concetto manageriale, ma diffuso anche nel linguaggio giuridico, di “impiego” delle “risorse umane” dissimula questo dis-velamento). Nel capitalismo digitale, che sfrutta le nuove tecnologie per incrementare i profitti derivanti dall’impiego di piattaforme e “risorse umane” da esse intermediate, ritroviamo questi elementi in rapporto con il lavoro. Il lavoratore è un soggetto app-driven che esegue servizi ordinati on demand impartiti e monitorati da un erogatore sovraordinato all’interno di una oppressiva riedizione del taylorismo su base digitale.
Alla visione negativa del lavoro nell’economia delle piattaforme digitali se ne oppone, invero, un’altra, in cui la digitalizzazione viene considerata un vettore di trasformazione – non necessariamente in senso negativo – del lavoro: come tecnica produttiva che impone un vero e proprio cambiamento di paradigma annunciato dall’avvento nell’impresa di metodi di ideazione, produzione e collaborazione che sono altrettanti metodi di pensiero, di lavoro e di organizzazione. In questa ottimistica prospettiva la rivoluzione basata sull’information technology è fonte di valorizzazione economica dell’attività lavorativa umana.

2. I lavoratori della piattaforma: tutti subordinati?
La rivoluzione digitale, con l’ambivalenza che ho descritto tra tecnica come poiesis e tecnica come dominio, rappresenta una delle più difficili sfide per il diritto del lavoro, sotto molteplici profili. Vi è anzitutto da ripensare l’ambiguo rapporto tra il diritto e la tecnica, in una fase storica in cui quest’ultima, sempre più correlata con i valori dominanti dell’economia, tende incessantemente ad imporre la propria razionalità attraverso continue rivoluzioni tecnologiche guidate dagli imperativi economici. Ciò riguarda temi di base come la qualificazione dei rapporti di lavoro: e non mi riferisco solo ai riders, ma a tutti i lavoratori delle piattaforme, al lavoro della GIG economy, al crowdworking ecc. Una prospettiva, questa, adottata anche dalla proposta di Direttiva UE sul lavoro tramite piattaforme digitali, che riguarda “qualsiasi lavoro organizzato tramite una piattaforma di lavoro digitale e svolto nell'Unione da persone fisiche sulla base di un rapporto contrattuale tra la piattaforma di lavoro digitale e la persona fisica, indipendentemente dal fatto che esista o no un rapporto contrattuale tra tale persona e il destinatario del servizio”. Ricordo che nell’UE circa 28 milioni di persone lavorano con piattaforme e si prevede che nel 2025 diventino 43 milioni: un fenomeno, quindi, per nulla trascurabile, o di nicchia, ma una vera e propria trasformazione strutturale del mercato del lavoro.
Sappiamo che le piattaforme tendono ad auto-qualificarsi come intermediari sul mercato e a rifiutare la qualità di datore di lavoro, con la conseguenza che, assai spesso, molti rapporti di lavoro subordinato vengono qualificati come autonomi (in UE 9/10 delle piattaforme classificano come autonomi i lavoratori; si stima che oltre 5 milioni di persone potrebbero essere vittime di una scorretta qualificazione del rapporto di lavoro con le conseguenze di un mancato accesso alle tutele sociali).
Dall’altro lato è anche vero che i rapporti di lavoro tramite piattaforma si atteggiano diversamente rispetto ai canoni classici, sia per elementi distonici rispetto alla subordinazione (ad esempio la libertà di accettare o meno la proposta della piattaforma, ciò che a mio avviso rende difficile almeno nella fase genetica del rapporto identificare un obbligo di prestazione, che è costitutivo della fattispecie di subordinazione: anche nella proposta di Direttiva - considerando 25 - si afferma che la libertà di rifiutare le mansioni o di scegliere l’orario di lavoro è caratteristica di lavoro autonomo genuino), sia per una maggiore pregnanza dell’elemento della etero-organizzazione rispetto alla direzione in senso stretto come elemento legale-tipico della fattispecie di subordinazione, e ciò anche a prescindere dalla distinzione tra momenti genetico e momento funzionale (segnalo che su questo tema uno dei contributi più importanti in Italia è la monografia di Laura Tebano, che teorizza la nascita di un nuovo “potere di controllo direttivo”, cioè una ibridazione tra potere direttivo e potere di controllo).
Ecco quindi le difficoltà qualificatorie, ed ecco la ragione delle diverse attitudini qualificatorie della stessa giurisprudenza, almeno nei sistemi che conoscono categorie intermedie, onde per cui il ciclofattorino italiano può essere qualificato come etero-organizzato e non subordinato, così come nel Regno Unito l’autista di Uber viene classificato come worker (e non come employee).
Ora, Maurizio Falsone, organizzatore del nostro Convegno, ci riferisce di essersi messo alla ricerca di una qualificazione unitaria nei termini della subordinazione, sulla base di una serie di criteri, quali la continuità o durevolezza (ma questo elemento è presente sia nel lavoro subordinato sia in quello autonomo; inoltre non è affatto detto che l’interesse del lavoratore sia continuativo, ben potendo essere un interesse occasionale o intermittente); la presenza di strumenti di induzione/ pressione (ma non si tratta di elementi normativi, bensì di dati sociologici, peraltro presenti in qualsiasi rapporto obbligatorio ove esista una asimmetria di potere tra le parti); un potere direttivo/organizzativo virtuale attraverso l’algoritmo (ma questo potere, secondo le distinzioni introdotte nel nostro ordinamento, deve essere più precisamente qualificato o in termini di potere direttivo, o in termini di potere organizzativo, essendo queste diverse prerogative riconducibili a due diverse “fattispecie”: art. 2094 c.c. e art. 2, co. 1, d. lgs. mn. 81/2015). Attendiamo con interesse l’esito della ricerca di Falsone, mettendolo però in guardia dal rischio di un’eccessiva generalizzazione di un concetto, quello di subordinazione, che presenta precisi requisiti tecnico-normativi e - almeno sotto il profilo interpretativo - non può essere ampliato a dismisura. Peraltro, a mio avviso la questione della qualificazione è risolta, in Italia dall’art. 2, co.1, del d.lgs. 81/2015, norma che di fatto supera il problema della assoluta necessità di ricondurre il rapporto di lavoro nella categoria della subordinazione, e ciò grazie ad una mossa del cavallo: non occorre più dimostrare la subordinazione per offrire al lavoratore tutte le tutele necessarie, comprese quelle processuali (come ha ricordato oggi Spinelli). Soprattutto, vorrei ricordare che la finalità del diritto del lavoro, oggi, non è quella di classificare il lavoratore come subordinato per applicargli delle tutele, ma di liberare la persona che lavora, sia essa subordinata o autonoma, dal dominio del capitale: un compito ben più complesso e sfidante di quello basato sulla continua valorizzazione della categoria di subordinazione, la quale, è bene ricordarlo, assieme alle tutele comporta ex se la legittimazione del dominio altrui sulla sfera soggettiva del prestatore.

3. Qualificazione del rapporto, presunzione di subordinazione, diritti della persona.
Giova rilevare, ancora, come, rispetto al problema qualificatorio, e alla sua rilevanza come strumento non solo di natura interpretativa ma di respiro assiologico, si aprano in realtà, sul piano comparato e sovranazionale, diverse prospettive, entrambe espressione di un tendenziale superamento e relativizzazione della grande dicotomia tra lavoro subordinato e lavoro autonomo. Analizziamo brevemente queste due prospettive, prendendo a riferimento, da un lato la proposta di Direttiva sul lavoro tramite piattaforme digitali, dall’altro le indicazioni proposte dal notevole Rapporto dell’OIL del 2021, avente ad oggetto il medesimo tema.

3.1. La Direttiva UE sul lavoro tramite piattaforme digitali.
La prima prospettiva è offerta dalla proposta di Direttiva UE sul lavoro tramite piattaforma. La dottrina si è generalmente focalizzata soprattutto sulla prevista presunzione legale (relativa) di subordinazione (3.1.1), tralasciando, a mio avviso, il vero elemento di novità della Direttiva (3.1.2), vale a dire la volontà del legislatore sovranazionale di stabilire “diritti minimi che si applicano a tutte le persone che svolgono un lavoro mediante piattaforme digitali nell'Unione e che hanno, o che sulla base di una valutazione dei fatti si può ritenere abbiano, un contratto di lavoro o un rapporto di lavoro quali definiti dal diritto, dai contratti collettivi o dalle prassi in vigore negli Stati membri, tenuto conto della giurisprudenza della Corte di giustizia”. Conformemente all’articolo 10, “i diritti stabiliti nella presente Direttiva concernenti la protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali nel contesto della gestione algoritmica si applicano anche a tutte le persone che svolgono un lavoro mediante piattaforme digitali nell'Unione e che non hanno un contratto di lavoro o un rapporto di lavoro”. Ma vediamo più in dettaglio queste due direttrici regolative.

3.1.1. Le sfide della qualificazione e la presunzione di subordinazione.
La proposta di Direttiva riconosce come il lavoro mediante piattaforma digitale comporti una serie di sfide, soprattutto in punto di qualificazione dei rapporti di lavoro. Tale platform work, infatti, “può rendere più labili i confini tra il rapporto di lavoro e l'attività autonoma e tra le responsabilità dei datori di lavoro e quelle dei lavoratori. Un'errata classificazione della situazione occupazionale ha conseguenze per le persone interessate, in quanto rischia di limitare l'accesso ai diritti sociali e dei lavoratori esistenti. Essa determina inoltre disparità di condizioni rispetto alle imprese che classificano correttamente i propri lavoratori e ha implicazioni per i sistemi di relazioni industriali degli Stati membri, per la loro base imponibile e per la copertura e la sostenibilità dei loro sistemi di protezione sociale. Tali sfide, sebbene non riguardino soltanto il lavoro mediante piattaforme digitali, sono particolarmente impegnative e pressanti nell'economia delle piattaforme” (punto 6).
Per vincere la sfida della qualificazione, e ridurre i casi di misclassification, la proposta di Direttiva prevede una presunzione legale relativa di subordinazione operante laddove ricorrano almeno due dei criteri previsti dalla proposta, che possiamo definire come indici eurounitari di presunzione di subordinazione: a) determinazione effettiva del livello della retribuzione o fissazione dei limiti massimi per tale livello; b) obbligo, per la persona che svolge un lavoro mediante piattaforme digitali, di rispettare regole vincolanti specifiche per quanto riguarda l'aspetto esteriore, il comportamento nei confronti del destinatario del servizio o l'esecuzione del lavoro; c) supervisione dell'esecuzione del lavoro o verifica della qualità dei risultati del lavoro, anche con mezzi elettronici; d) effettiva limitazione, anche mediante sanzioni, della libertà di organizzare il proprio lavoro, in particolare della facoltà di scegliere l'orario di lavoro o i periodi di assenza, di accettare o rifiutare incarichi o di ricorrere a subappaltatori o sostituti; e) effettiva limitazione della possibilità di costruire una propria clientela o di svolgere lavori per terzi.
E’ la presunzione relativa di subordinazione la soluzione del problema? A mio avviso è una soluzione parziale, nella misura in cui, trattandosi di presunzione relativa, il presunto datore di lavoro-piattaforma potrà confutare tale qualificazione sulla base di elementi/indici di qualificazione presenti nelle definizioni nazionali di lavoro subordinato. Come dire che gli indici eurounitari di presunzione di subordinazione, che costituiscono un’inedita struttura normativa sovranazionale di qualificazione prima facie di subordinazione, cedono di fronte ai diversi indici normativi, secondo i variabili ordinamenti nazionali.
Di conseguenza, per fare un esempio, a fronte della compresenza di due indici eurounitari (come possono essere la supervisione e la determinazione del compenso) la piattaforma potrà ribaltare la presunzione facendo valere elementi quali l’insussistenza di un potere direttivo in senso stretto, la presenza di un potere di etero-organizzazione del committente (art. 2, co.1), o ancora la libertà di rifiutare l’offerta di prestazione (si consideri che secondo la stessa Direttiva “la libertà di scegliere l'orario di lavoro o i periodi di assenza, di rifiutare incarichi, di ricorrere a subappaltatori o sostituti o di lavorare per terzi è una caratteristica del vero lavoro autonomo” ). In tal modo la fattispecie presuntiva di lavoro subordinato cessa di essere tale per transitare nell’alveo del lavoro etero-organizzato o coordinato e continuativo, avvero addirittura autonomo tout court (con eventuale applicazione delle tutele previste ad hoc, per i riders, dalla legge n.128/2019).
3.1.2. Tutele minime legate alla persona
La vera novità della proposta di Direttiva consiste nella sua complessa ratio, che non si limita alla disposta presunzione legale di subordinazione a favore dei lavoratori delle piattaforme, ma si propone di tutelare tutti i lavoratori, o, meglio, le persone che lavorano tramite piattaforme. La Direttiva, sotto questo profilo, riconosce che “sebbene gli atti giuridici dell'Unione esistenti o proposti prevedano alcune garanzie generali, le sfide nel lavoro mediante piattaforme digitali richiedono ulteriori misure specifiche. È necessario che l'Unione stabilisca nuove norme minime in materia di condizioni di lavoro per far fronte alle sfide derivanti dal lavoro mediante piattaforme digitali al fine di inquadrarne adeguatamente lo sviluppo in modo sostenibile. Le persone che svolgono un lavoro mediante piattaforme digitali nell’Unione dovrebbero godere di una serie di diritti minimi volti a garantire la corretta determinazione della loro situazione occupazionale, a promuovere la trasparenza, l'equità e la responsabilità nella gestione algoritmica e a migliorare la trasparenza del lavoro mediante piattaforme digitali, anche in situazioni transfrontaliere. Tali diritti minimi dovrebbero essere introdotti con l'obiettivo di migliorare la certezza del diritto, creare condizioni di parità tra le piattaforme di lavoro digitali e i fornitori di servizi offline e favorire la crescita sostenibile delle piattaforme di lavoro digitali nell'Unione”.
A tal proposito la Direttiva ricorda che una serie di disposizioni di diritto eurounitario si indirizzano non solo ai lavoratori subordinati, ma anche a quelli autonomi: la raccomandazione 2019/C 387/01 del Consiglio sull'accesso alla protezione sociale per i lavoratori subordinati e autonomi raccomanda agli Stati membri di adottare misure per garantire a tutti i lavoratori subordinati e autonomi la copertura formale, la copertura effettiva, l'adeguatezza e la trasparenza dei sistemi di protezione sociale. Del pari, il regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio ("regolamento generale sulla protezione dei dati") garantisce la protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali e in particolare prevede determinati diritti e obblighi nonché garanzie relativi al trattamento lecito, corretto e trasparente dei dati personali, anche per quanto riguarda il processo decisionale automatizzato relativo alle persone fisiche. Di conseguenza, la proposta di Direttiva non intende lasciare il lavoratore autonomo inerme di fronte al potere algoritmico, rivolgendosi, in generale (art.2, 2), al “lavoro mediante piattaforme digitali”, definito come qualsiasi lavoro organizzato tramite una piattaforma di lavoro digitale e svolto nell'Unione da persone fisiche sulla base di un rapporto contrattuale tra la piattaforma di lavoro digitale e la persona fisica, indipendentemente dal fatto che esista o no un rapporto contrattuale tra tale persona e il destinatario del servizio; nonché alla persona (art. 2, 3) “che svolge un lavoro mediante piattaforme digitali”: vale a dire qualsiasi persona fisica che svolge un lavoro mediante piattaforme digitali, indipendentemente dalla qualificazione contrattuale, da parte delle parti interessate, del rapporto tra tale persona e la piattaforma di lavoro digitale.
La Direttiva stabilisce quindi diritti minimi che si applicano a tutte le persone che svolgono un lavoro mediante piattaforme digitali nell'Unione e che hanno, o che sulla base di una valutazione dei fatti si può ritenere abbiano, un contratto di lavoro o un rapporto di lavoro quali definiti dal diritto, dai contratti collettivi o dalle prassi in vigore negli Stati membri, tenuto conto della giurisprudenza della Corte di giustizia. Conformemente all'articolo 10, i diritti stabiliti nella Direttiva concernenti la protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali nel contesto della gestione algoritmica si applicano anche a tutte le persone che svolgono un lavoro mediante piattaforme digitali nell'Unione e che non hanno un contratto di lavoro o un rapporto di lavoro.
Inoltre “le disposizioni in materia di gestione algoritmica relative al trattamento dei dati personali dovrebbero applicarsi anche ai veri lavoratori autonomi e alle altre persone che svolgono un lavoro mediante piattaforme digitali nell'Unione e che non hanno un rapporto di lavoro”. Con questa disposizione, che identifica anche nel lavoro autonomo “vero” un terreno elettivo per controllare il potere algoritmico, limitandolo e rendendolo trasparente, la Direttiva dimostra quanto ormai sia avanzato il percorso di estensione delle tutele del lavoro oltre la subordinazione, verso la persona che lavora indipendentemente dal tipo contrattuale impiegato.

3. 2. Oltre la qualificazione: il Rapporto OIL sul lavoro tramite piattaforme digitali.
La seconda prospettiva di regolazione, che guarda più decisamente oltre la tradizionale dicotomia tra lavoro subordinato e lavoro autonomo, è fatta propria dal Rapporto OIL 2021 coordinato dall’economista Uma Rani, dal titolo World Employment and Social Outlook. The role of digital labour platforms in transforming the world of work (2021). Il Rapporto ha il pregio di delineare i contorni e la portata del cambiamento in atto, definito di natura epocale, oltrechè globale, ponendo alle forze produttive del lavoro il tema dell’egemonia della tecno-economia, che conforma i sistemi e i processi sociali di produzione grazie all’entrata sulla scena delle “piattaforme”, vero e proprio elemento distintivo dell’economia digitale. L’attività delle piattaforme digitali, sia pure in uno stadio ancora relativamente precoce, è in rapida crescita, sia dal punto di vista delle cifre di affari sia del numero di attori sul mercato. La loro caratteristica è di sfruttare un vero e proprio “modello economico”, che prevede sia l’interazione con altre imprese (tradizionali) e con lavoratori in gran parte autonomi (o presunti tali) e quindi lo svolgimento di un’attività di “intermediazione” tra fornitori individuali (i lavoratori delle piattaforme o altre imprese) e i clienti, sia la realizzazione di servizi direttamente immessi sul mercato. Sotto il profilo qualificatorio il Rapporto, pur ribadendo l’importanza di una corretta classificazione, opta per una visione decisamente universalistica, adatta all’attuale scenario di trasformazione del lavoro e di parziale obsolescenza dei criteri normativi recepiti in punto di qualificazione dei rapporti di lavoro. In questa prospettiva non si tratta tanto di qualificare presuntivamente la fattispecie nel senso della subordinazione, ma, rovesciando la logica fattispecie-effetti, di identificare una serie ampia di diritti sociali e del lavoro, relativi al “lavoro dignitoso tramite piattaforme”, da applicarsi a prescindere dalla qualificazione dei rapporti. Si tratta, invero, di una lunga serie di tutele in materia di retribuzione, licenziamento, trattamento dati, condizioni di impiego, libertà di mobilità professionale, risoluzione delle controversie, che trovano applicazione indipendentemente dalla natura subordinata del rapporto. E’, questa, una risposta regolativa che prende atto della complessità del reale (che non si può ricondurre forzatamente ad un modello) e della complessità normativa (che non si può forzatamente ricondurre ad una unica tipologia contrattuale).

4. Potere algoritmico e discriminazione.
Molti casi di studio, ampiamente conosciuti in dottrina, sono ormai rappresentativi di un’ampia evidenza empirica volta a dimostrare come il potere dell’impresa-piattaforma sia ormai incorporato negli strumenti tecnologici digitali, ed in particolare dall’algoritmo. Da quanto emerge dal rapporto OIL tra le caratteristiche che vanno all’uopo considerate la prima è la gestione algoritmica dei processi produttivi e delle prestazioni di lavoro. Questo punto è di fondamentale importanza per comprendere il lavoro tramite piattaforma, posto che, per la prima volta nell’evoluzione del capitalismo, il lavoro umano è quasi interamente gestito, diretto, controllato e valutato, da un algoritmo, cioè da un meccanismo non umano (benchè dietro l’algoritmo ci sia sempre una regia umana). Il rapporto dell’OIL sottolinea giustamente come questo modo di gestione algoritmica si allontani dai modelli tradizionali di gestione delle risorse umane e prefiguri un vero e proprio cambiamento di paradigma rispetto all’interazione umana nella attribuzione del lavoro e delle mansioni. Il lavoro viene attribuito non più in base a un’interazione umana ma grazie all’operare di un algoritmo che impiega una serie di indicatori, i quali spesso sfuggono al controllo e alla stessa consapevolezza del lavoratore: nelle piattaforme di consegne a domicilio questi indicatori sono rappresentati dal giudizio espresso dai clienti e la disponibilità del lavoratore ad accettare le offerte, la disponibilità nelle ore di punta ecc., mentre nelle piattaforme che hanno ad oggetto lo svolgimento di micro-mansioni il parametro è costituito dalla capacità di consegnare un lavoro di alta qualità e mantenere un livello di approvazione elevato.
Ora è evidente che questo cambiamento di paradigma, questo modo algoritmico di gestione del lavoro, in quanto opaco, non trasparente, comporta dei rischi di abuso, che già sono emersi sia nell’analisi sociologica del lavoro tramite piattaforma, sia nei casi che iniziano ad essere portati all’attenzione dei tribunali. Per esempio le prassi di customer satisfaction attraverso le quali la piattaforma acquisisce dagli utenti le valutazioni dei lavoratori pongono una serie di problemi, che vanno dalla privacy nel trattamento dei dati, al controllo indiretto sulla prestazione tramite il giudizio dell’utenza, dall’ esercizio di poteri disciplinari come la disconnessione dell’account a vere e proprie discriminazioni.
L’esempio più grave di abuso è quello della discriminazione, dell’impatto discriminatorio dell’algoritmo, apparentemente neutro ma in realtà capace di mettere in atto discriminazioni dirette o indirette. Un caso italiano, affrontato dal Tribunale di Bologna, è esemplare di questo problema di arbitrio algoritmico. Accertando la discriminatorietà della piattaforma Deliveroo, governata da un algoritmo che disciplina le condizioni di accesso alle sessioni di lavoro, il Tribunale felsineo ha accolto il ricorso delle OO.SS. che lamentavano come l’algoritmo, sanzionando con la perdita di punteggio i riders che non rispettano le sessioni di lavoro, penalizza le iniziative di autotutela collettiva coincidenti con il suo turno, determinando la retrocessione nella fascia di prenotazione e limitando le future occasioni di lavoro. Le medesime considerazioni possono essere svolte in relazione alle ulteriori ipotesi di mancata partecipazione del lavoratore alla sessione prenotata (o in caso di cancellazione tardiva della sessione) per altre cause legittime di astensione dal lavoro come la malattia, l’handicap, le esigenze legate alla cure di figli minori, ecc.: in tutti questi casi il lavoratore vede penalizzate le sue statistiche indipendentemente dalla giustificazione della sua condotta e ciò per la semplice motivazione, espressamente riconosciuta da Deliveroo, che la piattaforma non conosce e non vuole conoscere i motivi per cui il rider cancella la sua prenotazione o non partecipa ad una sessione prenotata e non cancellata.
Ma è proprio in questa “incoscienza” (come definita da Deliveroo), questa cecità del programma di elaborazione delle statistiche di ciascun rider, che sta la potenzialità discriminatoria dell’algoritmo.
E’ quindi necessario da un lato applicare i principi di non discriminazione, che nel diritto dell’UE riguardano sia i lavoratori subordinati che i lavoratori autonomi, dall’altro apprestare dei nuovi diritti per evitare che l’impiego di algoritmi nella valutazione dei lavoratori comporti delle discriminazioni o danneggi il lavoratore.
In questa prospettiva non è stata ancora sufficientemente valorizzata la norma, contenuta nella legge n.128/2019, che prevede il diritto del lavoratore autonomo a non essere escluso dalla piattaforma a causa della mancata accettazione del lavoro. In applicazione di tale disposto, la piattaforma non potrà più sanzionare il lavoratore escludendolo dall’accesso alle successive occasioni di lavoro o negargli l’accesso ai livelli premiali, o escluderlo dagli accessi prioritari in ragione di statistiche sul tasso di assenza, e questa esigenza di tutela risponde a quanto indicato nel rapporto dell’OIL, soprattutto nel capitolo quarto, in cui viene bene evidenziato il circolo vizioso che dal rifiuto del lavoratore porta alla disattivazione del suo account.
I problemi derivanti dal potere algoritmico (in particolare quelli che si concretano in situazioni di discriminazione algoritmica) sono largamente indipendenti dalla natura (e quindi dalla qualificazione) del rapporto, perché riguardano la prestazione resa del lavoratore della piattaforma nella sua generica qualità di “lavoratore”. Rispetto a questi problemi si dovrebbe impiegare un diverso approccio: non tanto quello della subordinazione, che rilegittima i poteri, ma un progetto di democratizzazione algoritmica a prescindere dalla qualificazione del rapporto di lavoro. Non a caso, come ricorda Valeria Nuzzo, le risposte più efficaci vengono dal regolamento privacy. Ricordo che quest’ultimo stabilisce che “Il trattamento dei dati personali dovrebbe essere al servizio dell'uomo. Il diritto alla protezione dei dati di carattere personale non è una prerogativa assoluta, ma va considerato alla luce della sua funzione sociale e va contemperato con altri diritti fondamentali, in ossequio al principio di proporzionalità”. Il regolamento “rispetta tutti i diritti fondamentali e osserva le libertà e i principi riconosciuti dalla Carta, sanciti dai trattati, in particolare il rispetto della vita privata e familiare, del domicilio e delle comunicazioni, la protezione dei dati personali, la libertà di pensiero, di coscienza e di religione, la libertà di espressione e d'informazione, la libertà d'impresa, il diritto a un ricorso effettivo e a un giudice imparziale, nonché la diversità culturale, religiosa e linguistica”. Un altro tessello, insomma, di una regolazione dei rapporti di lavoro che guarda oltre la fattispecie di subordinazione, verso la persona e i suoi bisogni universali di tutela.

5. Osservazioni conclusive.
Il diritto del lavoro, assieme ad altri settori del diritto (diritto dell’impresa, diritto della concorrenza, diritto della privacy, diritto antidiscriminatorio) deve contribuire a ridefinire, entro un quadro di razionalità normativa, il rapporto tra l’uomo, il lavoro e la tecnica, assoggettando quest’ultima alla prospettiva assiologica di protezione della persona umana e di liberazione del lavoro. Ma per attendere a questo compito, imprescindibile se si vuole indirizzare la tecnica e non subirla come strumento di dominio, abbiamo bisogno di nuova ecumene, di un nuovo pensiero, e non di semplici soluzioni interpretative, magari nel senso di una universale categorizzazione dei rapporti di lavoro nel senso della subordinazione. Valorizzare la connessione tra la nozione di homo faber e quella di technikòs ánthropos, cioè di un artifex che si serve di strumenti sempre più sofisticati per risparmiare la forza lavoro dell’animal laborans sino a sostituire ad essa la forza lavoro delle macchine, non è una questione di interpretazione, ma di politica del diritto. Solo la politica del diritto può costruire una tecnica democratica e sostenibile, rispetto alla quale il giurista del lavoro, come scienziato sociale, deve lasciare spazio ad una valutazione problematica e articolata dei fenomeni relativi al lavoro umano: una analisi attenta, volta a verificare i nessi tra la tecnica e il lavoro in una prospettiva aperta alle nuove sollecitazioni che il nuovo modello economico propone, anche in termini di tutela dei diritti sociali e della persona del lavoratore, senza rinchiudersi entro la cornice regolativa tradizionale (con la “salvifica” riconduzione a subordinazione di tutto il lavoro) e senza perdere di vista le nuove possibilità di crescita, non solo economica ma anche umana e sociale, offerte dalla nuova era delle macchine.

 

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