Il contesto
Negli anni Ottanta si fece strada, soprattutto negli Stati Uniti, la nozione di “electronic cottage” ovvero di residenze private dotate di dispositivi elettronici che avrebbero permesso alle persone di lavorare da casa. In quel periodo, infatti, lo sviluppo e l’introduzione sul mercato dei primi personal computer stava condizionando non solo il funzionamento delle attività produttive ma anche l’immaginario collettivo. Tra gli scenari futuristici proposti da scrittori e saggisti vi era proprio l’idea di un “rivoluzionario” spazio domestico privato che sarebbe diventato il centro della vita sociale e produttiva grazie all’uso degli strumenti elettronici (Toffler, 1980). Eppure, prima del 2020 a lavorare in modo abituale da remoto era una ristretta e stabile minoranza di lavoratori, pari al 3-4% in Italia e a circa il 5% in Europa.
Il cambiamento imposto dall’emergenza sanitaria è stato, dunque, radicale se pensiamo che, secondo l’Istat, oltre quattro milioni di lavoratori italiani hanno sperimentato, in molti casi per la prima volta, il lavoro da remoto nella primavera del 2020 (Istat, 2020a). La necessità, da una parte, di ridurre il rischio di contagio e, dall’altra, di consentire il prosieguo delle attività produttive e l’erogazione dei servizi essenziali alla cittadinanza ha spinto il governo ad introdurre procedure semplificate per favorirne il ricorso, obbligando le imprese a convertire - laddove possibile - le proprie attività in modalità remota.
Tuttavia, un salto così significativo in un contesto di profonda incertezza causata dalla diffusione del virus COVID-19, ha rivelato subitaneamente una serie di criticità e problematiche riguardanti sia la platea dei soggetti interessati (lavoratori ed imprese) che le modalità di adozione di tale strumento e l’adeguatezza dell’assetto normativo.
Come ampiamente documentato in diversi lavori scientifici, la possibilità di lavorare da remoto dipende in prima istanza dalla natura delle mansioni svolte dal lavoratore, dagli strumenti utilizzati, dal grado di interazione sociale, dall’esposizione a rischi bio-chimici e dalla necessità di operare all’aperto (Cetrulo et al. 2022). In base alle analisi svolte su banche-dati che raccolgono informazioni sulle professioni, si è stimato che in Italia (così come nella maggior parte delle economie avanzate, Dingel and Neiman, 2020) solo il 30% del totale della forza lavoro può effettivamente svolgere il proprio lavoro da remoto, mentre il restante 70% non ha questa possibilità. Di conseguenza la spinta verso una remotizzazione delle attività lavorative non ha potuto che riguardare solo una parte dell’intera forza lavoro. È allora interessante sottolineare la presenza di profonde differenze tra le due tipologie di lavoratori, in termini di composizione di genere, stabilità occupazionale, remunerazione e condizioni di salute e sicurezza sul luogo di lavoro (Cetrulo et al., 2022). A non poter lavorare da remoto troviamo non solo medici ed infermieri, ma anche e soprattutto lavoratori e lavoratrici impiegati nei settori dei servizi alla persona, addetti alle pulizie, operatori dell’industria manifatturiera, artigiani ed agricoltori.
La seconda criticità riguarda il diseguale grado di diffusione del lavoro da remoto all’interno delle imprese e l’eterogeneità tra aziende di dimensioni e settori diversi. Come dimostrano infatti le indagini svolte dall’Istat durante il 2020 (Istat, 2020b), sebbene la quasi totalità delle imprese italiane sia stata interessata dai provvedimenti di chiusura o riconversione delle attività in remoto, l’entità di questo cambiamento è stata profondamente diversa. Se da una parte solo l’8% delle imprese con meno di 10 addetti ha adottato il lavoro da remoto, oltre il 77% delle imprese con più di 250 addetti ne ha fatto uso. Differenze altrettanto significative si rintracciano tra i settori produttivi, dove tra le attività che registrano un maggiore ricorso a questo strumento troviamo il comparto ICT, il settore finanziario ed assicurativo. Laddove vi è stato un più marcato ricorso al lavoro da remoto, si è osservato anche un maggiore investimento in nuove tecnologie e potenziamento della digitalizzazione dei processi e dei servizi offerti a lavoratori e clienti, confermando come la dimensione organizzativa e tecnologica risultino fondamentali per garantire un’effettiva adozione del lavoro da remoto.
Di fronte ad un fenomeno di portata così ampia ed eterogenea è stato complesso, soprattutto nella prima fase emergenziale, riuscire a valutare sia la capacità di risposta in termini organizzativi delle imprese che l’impatto di questa esperienza “straordinaria” di lavoro da remoto su lavoratori e lavoratrici che, contestualmente, vivevano in molti casi ulteriori difficoltà legate alla gestione dei figli a causa della chiusura delle scuole.
L’organizzazione del lavoro nella legge 81/2017
Oltre all’inesperienza in merito a modelli di lavoro da remoto da parte della maggior parte dei soggetti interessati, tra gli elementi di incertezza che hanno caratterizzato il contesto emergenziale per ciò che riguarda il ricorso al lavoro da remoto, vi è stata sicuramente l’assenza di una normativa chiara che potesse offrire delle linee di indirizzo precise, individuando soggetti e meccanismi di intervento. In particolare, il tema dell’organizzazione del lavoro - oggetto di questo breve saggio - era stato trattato in maniera generica all’interno delle due principali fonti di riferimento, l’accordo interconfederale sul telelavoro del 2004 e la legge 81/2017 sul lavoro agile. È interessante notare come in entrambi i testi, la dimensione organizzativa venga riconosciuta chiaramente senza però essere declinata nel dettaglio. Nella definizione fornita del telelavoro all’interno dell’Accordo interconfederale, si sottolinea proprio come questo rappresenti:
“una forma di organizzazione e/o di svolgimento del lavoro che si avvale delle tecnologie dell'informazione nell'ambito di un contratto o di un rapporto di lavoro, in cui l'attività lavorativa, che potrebbe anche essere svolta nei locali dell'impresa, viene regolarmente svolta al di fuori dei locali della stessa”.
Tuttavia, il testo non prevede raccomandazioni precise volte a rendere efficace tale modalità organizzativa, ma riconosce al lavoratore il diritto a gestire autonomamente l'orario di lavoro garantendo un carico di lavoro paragonabile a quello di chi lavora in ufficio. In maniera simile, la legge n.81 del 2017 introduce il concetto di lavoro agile, ponendo l’accento sulla possibilità di promuovere modalità flessibili di organizzazione del lavoro: si tratta, appunto, solo della possibilità di promuovere tale modalità flessibile, dal momento che il testo di legge prevede che il lavoro agile possa essere realizzato “anche con forme di organizzazione per fasi, cicli e obiettivi e senza precisi vincoli di orario o di luogo di lavoro.” (legge . n. 81 del 2017, art. 18 comma 1, corsivo nostro). Come è stato sottolineato fin dal periodo immediatamente successivo all’uscita della legge (Proia, 2018), la normativa non esclude la possibilità di organizzare il lavoro agile in base a criteri e principi più tradizionali rispetto alle fasi, ai cicli e agli obiettivi, al punto che è stato possibile all’interno della letteratura giuslavorista individuare almeno due varianti di lavoro agile, “il lavoro agile a tempo” e “il lavoro agile per obiettivi” (Carinci e Ingrao, 2021), facendo emergere una sorta di ambiguità identitaria sul piano organizzativo di questa modalità di lavoro.
Dalla lettura congiunta dei testi emergono, quindi, ambiguità identitarie rispetto all’organizzazione del lavoro e due poli di tensione.
Le ambiguità, in particolare, si riferiscono alla parziale sovrapposizione sul piano organizzativo tra una delle due varianti di lavoro agile di fatto contemplate dalla legge n. 81 del 2017 (la variante del “lavoro agile a tempo”) e il telelavoro, con il rischio di dare luogo ad una dinamica competitiva tra due diverse regolazioni o ad un’incertezza procedurale nell’adozione di queste pratiche.
Il primo polo di tensione riguarda, invece, la contrapposizione tra la dimensione individuale dell’esperienza lavorativa e quella collettiva. Sia il telelavoro che il lavoro agile vengono regolati essenzialmente attraverso la stipula di un accordo individuale in cui devono essere definite nel dettaglio le modalità di esecuzione della prestazione. Tuttavia, l’esperienza lavorativa non si esaurisce nella sfera individuale, ma piuttosto si sviluppa e si esprime compiutamente nella dimensione collettiva, attraverso la divisione sociale delle fasi del processo, l’apprendimento e l’interazione con gli altri lavoratori. Un ricorso sistematico al lavoro da remoto pone, dunque, imprese, sindacati e lavoratori di fronte all’urgenza di regolare non solo gli aspetti individuali, ma anche quelli collettivi per assicurare un funzionamento virtuoso di questa pratica ed evitare il deterioramento dell’esperienza lavorativa (i.e. senso di esclusione ed alienazione, difficoltà a comunicare con colleghi, etc.).
Il secondo polo di tensione, infine, nasce, soprattutto nella variante di lavoro agile per obiettivi, dall’attribuzione al lavoratore di una (presunta) autonomia in termini di gestione del proprio tempo e luogo di lavoro, autonomia che, tuttavia, si trova a collidere inevitabilmente con un’organizzazione particolarmente gerarchica delle imprese italiane, in cui l’adozione di modelli orizzontali che favoriscono un’effettiva partecipazione dei lavoratori risulta ancora molto rara (Istat, 2020c).
Guardare al rapporto tra individuale e collettivo, autonomo e gerarchico diventa allora utile per discutere di uno scenario futuro e post-pandemico in cui il ricorso al lavoro da remoto sarà strutturato e sistematico.
Il protocollo
Il protocollo nazionale sul lavoro agile del 7 dicembre del 2021 introduce alcune novità che possono essere utili a dirimere, almeno parzialmente, le ambiguità identitarie e le tensioni ereditate dalla normativa di legge. All’art. 3 del protocollo è trattato esplicitamente il tema dell’organizzazione del lavoro. Due sono i principali elementi di rilievo: l’introduzione del concetto di fascia oraria e il rafforzamento della concezione del lavoro agile come una prestazione lavorativa organizzata per obiettivi, anche se bilanciata dalle esigenze di coordinamento con l’attività complessiva svolta dell’impresa di cui il lavoratore è dipendente.
Al comma 2 del medesimo articolo, infatti si contempla esplicitamente la possibilità di organizzare la prestazione di lavoro in fasce orarie, evocando la possibilità di introdurre fasce di cosiddetta reperibilità e ribadendo l’obbligo di individuazione e attuazione di una fascia di disconnessione tramite apposite misure tecniche e organizzative. Questa prima novità (nella legge n. 81 del 2017 non c’è alcun cenno al concetto di fasce orarie) è certamente lontana dal risolvere il problema di come rendere effettiva la disconnessione e, senza dubbio, apre l’ulteriore problema di come mantenere di fatto le fasce orarie di reperibilità distinte da quelle di lavoro. Allo stesso tempo, essa rappresenta un nuovo importante strumento regolativo per distinguere l’organizzazione del tempo di lavoro del lavoratore agile dalla mera traslazione del tempo di lavoro in presenza tipica delle forme di telelavoro, arginando però i rischi, anche attraverso la contrattazione collettiva, di una radicale destrutturazione del tempo di lavoro (Rinaldini, 2017a; Rinaldini, 2017b). Non a caso nell’articolo è richiamata la conformità dei tempi complessivi di lavoro del lavoratore agile alle previsioni di legge e dei contratti nazionali, territoriali e/o aziendali in materia.
Il comma 1 dell’art. 3, inoltre, stabilisce che il lavoro agile “si caratterizza per l’assenza di un preciso orario di lavoro e per l’autonomia nello svolgimento della prestazione nell’ambito degli obiettivi prefissati”, rafforzandone l’identità organizzativa. Il riconoscimento della centralità del lavoro per obiettivi nel lavoro agile è però ancorata, da una parte, alla predefinizione di tali obiettivi, aprendo uno spazio di intervento per la loro definizione alla contrattazione decentrata, e, dall’altra, al rispetto “dell’organizzazione delle attività assegnate dal responsabile a garanzia dell’operatività dell’azienda e dell’interconnessione tra le varie funzioni aziendali”. I firmatari del protocollo sembrano, quindi, accettare la sfida di una più puntuale definizione identitaria del lavoro agile, ma, consapevoli della diversità dei contesti organizzativi in cui esso può essere introdotto, rimandano alle peculiarità settoriali o alle singole realtà aziendali la possibilità di declinarlo nei dettagli e di ricercare di caso in caso un suo specifico equilibrio organizzativo.
In questo senso, per il protocollo l’architrave e il principio fondamentale su cui deve essere disciplinato il lavoro agile (anche nelle sue implicazioni organizzative) rimangono, in continuità con la legge n. 81 del 2017, il contratto individuale e l’adesione volontaria, ma la novità rispetto alla normativa è il riconoscimento del ruolo della contrattazione collettiva nel regolare il primo e nel rendere sostanziale la seconda. La legge n. 81 del 2017, infatti, non faceva alcun riferimento al ruolo della contrattazione collettiva, nemmeno nel momento in cui stabiliva che l’accordo che disciplina l’esecuzione della prestazione agile dovesse essere stipulato per iscritto tra il datore di lavoro e il lavoratore. Il protocollo, invece, all’art. 2 comma 1, richiama esplicitamente la conformità a quanto stabilito in materia dai contratti collettivi e, al comma 2 dello stesso articolo, stabilisce, oltre ciò che l’accordo individuale deve contenere, che quest’ultimo debba risultare conforme alla eventuale contrattazione collettiva di riferimento.
D’altra parte, l’analisi della contrattazione collettiva svolta dallo stesso gruppo di lavoro che ha accompagnato la costruzione del protocollo, evidenziava come a partire dalla comparsa della pandemia e del conseguente ricorso ad una massiccia remotizzazione del lavoro si fosse verificata una significativa diffusione di contratti collettivi, sia nazionali, che aziendali, diretti a disciplinare il lavoro agile. La stessa analisi, inoltre, faceva emergere che la contrattazione era intervenuta a disciplinare gli aspetti organizzativi del lavoro agile in modo puntuale, mostrando la capacità di individuare, a seconda dei contesti aziendali o delle caratteristiche di settore, specifici punti di equilibrio tra l’agilità della prestazione lavorativa e gli specifici vincoli di carattere organizzativo.
Conclusioni
Il protocollo, dunque, ha riconosciuto un ruolo già attivo della contrattazione collettiva in materia di lavoro agile e ne ha sancito, in qualche misura, l’importanza anche nella sua regolazione “situata”. Tale risultato non va tuttavia interpretato come punto di arrivo, ma piuttosto come il preludio di un processo di confronto che ha e deve aver luogo tra le parti sociali. Tale confronto, se inserito in un clima di ritrovato dialogo sociale (che in alcuni casi fatica ad emergere), potrà orientare, proprio alla luce delle esperienze raccolte, una proposta più strutturata di intervento normativo una volta superata del tutto l’emergenza pandemica.
In particolare, il forte rimando alla contrattazione collettiva, che rappresenta, come si è scritto, una delle novità fondamentali del protocollo, sottende la necessità di dare “voce” a lavoratrici e lavoratori rispetto ad una pratica che condiziona e condizionerà molteplici aspetti della propria esperienza lavorativa e personale. L’inusuale coincidenza del luogo di lavoro con il proprio domicilio ha svelato, infatti, in maniera dirompente contraddizioni e problematiche spesso sottaciute o confinate esclusivamente alla sfera personale. Lo squilibrio di genere nella gestione del lavoro domestico all’interno delle famiglie è andato a collidere con la sempre maggiore partecipazione delle donne al mercato del lavoro e l’assenza di infrastrutture in grado di garantire un’efficace copertura di rete su tutto il territorio nazionale ha precluso a molti la possibilità di lavorare da remoto. In altri termini, le diverse condizioni socio-materiali delle famiglie italiane si riflettono in una molteplicità di aspetti, come l’inadeguatezza e scarsa salubrità degli spazi (non più solo) privati o la diseguale dotazione di strumentazioni e conoscenze tecnologiche. Tali divari andranno inevitabilmente a condizionare l’esperienza individuale del lavoro da remoto, determinando, ad esempio, un’eccessiva dilatazione dei tempi di lavoro (secondo il modello “working anytime, everywhere”, Eurofound and ILO, 2017) ed un possibile aumento dei rischi di salute e sicurezza, temi di cui si discuterà in maniera più dettagliata in altri contributi di questo numero della rivista.
Chiaramente, l’organizzazione del lavoro attraversa in maniera trasversale tutte queste tematiche e le modalità con cui essa verrà declinata non possono ridursi ad un’unica disposizione. Allo stesso tempo, è evidente, come gli studi organizzativi sottolineano (si veda, ad esempio: Albano et al., 2019; Butera, 2020; Frigotto et al., 2021), che i cambiamenti dell’organizzazione del lavoro legati all’introduzione del lavoro agile, compreso l’aumento di peso del lavoro per obiettivi, non sono deterministicamente indotti dalla remotizzazione del lavoro o dall’utilizzo delle nuove tecnologie, ma necessitano di un ripensamento complessivo dei processi organizzativi e questo comporta inedite sfide progettuali e la necessità di mettere in campo modalità di reale co-progettazione della cosiddetta new way of working (Butera, 2022). Molto dipenderà dall’insieme di regole e pratiche che le parti sociali sapranno darsi nell’ambito della contrattazione collettiva, a partire dalla necessità di garantire non solo un’efficace adozione del lavoro agile, ma soprattutto un miglioramento delle condizioni di lavoro per milioni di lavoratrici e lavoratori.