Testo integrale con note e bibliografia

1. La specialità del lavoro autonomo in cooperativa.
La regolamentazione complessiva del lavoro in cooperativa, ad opera della legge 3 aprile 2001, n. 142, così come parzialmente riformata dalla legge 14 febbraio 2003, n. 30, ha definitivamente espropriato la giurisprudenza del ruolo definitorio circa la qualificazione della prestazione resa dal socio che, in assenza di cornice legale, si era consolidata sulla configurazione del mero adempimento del contratto sociale; nel contempo, la legge ha dato ingresso ad una specifica disciplina delle tipologie, e delle modalità di esecuzione e di trattamento, dei rapporti di lavoro «ulteriori» instaurabili tra il socio e la cooperativa che mantengono, pur nel generale richiamo alla forma «subordinata o autonoma o in qualsiasi altra forma, ivi compresi i rapporti di collaborazione coordinata non occasionale», un non trascurabile grado di specialità.
Questo perché il lavoro del socio non può dirsi, pur all’indomani della legge n. 142/2001, del tutto impermeabile alle regole del diritto societario in cui è calato, che hanno infatti imposto rilevanti eccezioni alla disciplina comune del lavoro (si pensi, nel caso di rapporto subordinato, al tormentato tema della relazione tra esclusione e licenziamento); nel contempo, si è resa necessaria una specifica barriera normativa che, rafforzandone i diritti, tuteli il socio lavoratore dalle possibili forme di abuso che spesso, in passato, venivano ricavate dall’applicazione del solo schema societario, capace di sottrarre al sistema di tutele inderogabili del diritto del lavoro prestazioni rese in una complessiva equiparabilità di condizioni, traendo, da questa differenza di trattamento, indubbi vantaggi, non solo economici.
La combinazione di queste due differenti prospettive ha consentito non solo la garanzia, ma anche, in qualche maniera, la promozione del lavoro in cooperativa , divenendo la sede per codificare misura e qualità di trattamenti considerati essenziali, da riconoscere al lavoro, in qualsiasi forma reso.
Non è di secondario rilievo il contesto in cui queste scelte normative sono state adottate, ossia quello di un mercato del lavoro popolato da prestatori subordinati non sempre adeguatamente garantiti, ed il fronte composito dei lavori non standard, non più solo subordinati ma anche, e forse soprattutto, autonomi: è quest’ultimo il confine che, a lungo ritenuto di scarso, se non nullo, interesse per il diritto del lavoro, ha invece progressivamente infranto la tipica dicotomia della materia, spingendo a recepire, anche a livello normativo, le istanze di tutela di lavoratori che, pur senza essere tecnicamente subordinati, sono caratterizzati da una identica, se non superiore, debolezza economico-sociale, che il più delle volte non trova, nello schema contrattuale proposto, un’adeguata fonte di tutela.
Per questo, il lavoro in cooperativa può rivelarsi “attrattivo” per lavoratori non subordinati e, forse proprio per questo, adatti ad uno scambio di prestazioni all’interno di un contesto maggiormente protetto da equilibrate regole sulle tutele dei diritti costituzionali dei soci lavoratori, sul rispetto delle regole della concorrenza – per evitare un ingiustificato ribasso del costo del lavoro –, sulla combinazione di posizioni giuridiche tutelate e partecipazione al rischio d’impresa e alla decisione sulla destinazione dei ricavi economici ottenuti .
L’ulteriore contratto di lavoro che vede parte il socio di cooperativa rappresenta una delle più importanti novità introdotte dalla legge n. 142/2001, e nel ricordato riscontro testuale di cui all’art. 1, comma 3, apre ad una forbice che va dalla classica subordinazione alle figure più recenti che abbracciano l’ormai vasta gamma di categorie lavorative diverse dal lavoro subordinato, collocabili nell’autonomia, nei rapporti di collaborazione coordinata non occasionale, ma anche “in qualsiasi altra forma”, così da ricomprendere ogni apporto lavorativo in grado di contribuire al raggiungimento degli scopi sociali, come richiesto dalla medesima disposizione .
Il fronte aperto da questi estremi ha consentito alle cooperative di seguire ed accogliere, in potenza, i vasti processi di modificazione dei rapporti di lavoro degli ultimi anni , con particolare riferimento proprio alle forme contrattuali, in generale, non subordinate, rispetto alle quali, con un qualche anticipo rispetto al lavoro nell’impresa, la normativa in tema di lavoro in cooperativa permette di sperimentare l’introduzione di esplicite, e per certi versi innovative, formule di garanzia.

2. Il trattamento economico del socio lavoratore autonomo.
Se, in generale, la legge n. 142/2001 ha risposto al bisogno di evitare, disciplinandole, le possibili derive al dumping di trattamento consentito dalla presenza del vincolo sociale, la formulazione normativa che ne è derivata si è tradotta, anche involontariamente, nel rafforzamento delle tutele riconosciute al socio lavoratore, a partire dall’espressione con cui la legge ne definisce il trattamento economico da ricollegare alla prestazione di lavoro.
Questo è certamente vero per il caso del lavoro prestato in forma subordinata, per il quale l’art. 3, comma 1, prevede l’obbligo per la cooperativa di garantire un «trattamento economico complessivo proporzionato alla quantità e qualità del lavoro prestato e comunque non inferiore ai minimi previsti, per prestazioni analoghe, dalla contrattazione collettiva nazionale del settore o della categoria affine»: qui la riproposizione del principio di proporzionalità, di cui all’art. 36 Cost., consente una copertura costituzionale considerata, per alcuni aspetti,, maggiore di quella usualmente riservata al lavoro nell’impresa, quando riferita alla retribuzione nel suo ammontare minimo (paga base, indennità di contingenza e tredicesima mensilità), risultando viceversa estesa per il socio di cooperativa agli altri emolumenti che ne compongono la versione “complessiva”, rapportata a quanto previsto dal contratto collettivo nazionale, oltre ad eventuali somme ulteriori aggiunte da accordi provinciali ed aziendali se più favorevoli, in virtù dell’esplicito richiamo all’art. 36 st. lav. . Il tutto nella garanzia di non poter derogare al minimo ricavabile, per relationem, dal confronto con quanto previsto dalla contrattazione collettiva nazionale del settore – cioè al contratto relativo al tipo di attività economica esercitata dalla cooperativa – o, in mancanza di questo, dal contratto che regola un’attività affine alla prima: in entrambi i casi, con prevalenza «ai contratti collettivi per le cooperative, considerando quelli per le imprese lucrative solo in assenza dei primi» .
Senza dimenticare la singolare condizione di cui godono i lavoratori soci di cooperativa, per i quali risultano “legificate” le clausole sui trattamenti economici complessivi minimi previsti dai contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative , le quali assumono secondo alcuni, proprio in virtù della loro copertura normativa, una sorta di “salario minimo” legale ante litteram .
Si trova conferma di contenuti innovativi anche con riferimento alle previsioni sul trattamento economico del socio coinvolto in forme di lavoro non subordinato: poiché la prima parte dell’art. 3, comma 1, legge n. 142/2001 riferisce del trattamento economico del socio lavoratore senza introdurre, in apertura, alcuna distinzione quanto a natura, subordinata o meno, della prestazione, se ne ricava che il richiamato principio di proporzionalità trova applicazione anche nel caso di soci lavoratori autonomi, ed è questo un elemento di importante novità rispetto alla disciplina del corrispettivo del lavoratore autonomo non socio . Come osservato, la disciplina del corrispettivo del prestatore d’opera, contenuta nel codice civile, non riprende né considera il principio di proporzionalità, indicando, quali criteri per la sua determinazione, «il risultato ottenuto» e il «lavoro normalmente necessario per ottenerlo» (art. 2225 c.c.), i quali non paiono in alcun modo riferibili alla quantità e alla qualità del lavoro svolto, quanto, nel solco della tradizione sulle obbligazioni di risultato, alla relazione tra prestazione e valore dell’opus concluso .
Trattandosi di lavoratori non subordinati, non è richiamato, né risulta applicabile, però, il principio di sufficienza, che integra quello di proporzionalità nella previsione costituzionale di cui all’art. 36 Cost.: poiché esso esula dalla considerazione della corrispettività della retribuzione, per guardare piuttosto alla sua funzione di mezzo di sostentamento e, di conseguenza, al valore sociale della sua adeguatezza, se ne ricava solitamente la sua riconducibilità al solo lavoro dei dipendenti, e non dei prestatori autonomi; l’art. 3, comma 1, l. n. 142/2001, nell’individuare i parametri di riferimento per garantire il trattamento “minimo” dei soci lavoratori non subordinati, propone una speciale combinazione che, ancora una volta, rivela l’originalità della scelta normativa , la cui ratio è da far discendere dalla volontà di mantenere la specialità del lavoro in cooperativa, in ragione del carattere di mutualità che risiede nel fondamento causale del contratto.
Innanzitutto, per determinare il trattamento economico “minimo”, il parametro di raffronto viene individuato nelle previsioni contenute in contratti o accordi collettivi definiti dalla legge 142 “specifici”: la preferenza è da accordarsi, ancora una volta, ad una produzione contrattual collettiva non generica, ma puntualmente riferita, laddove esistente, al lavoro autonomo, ovvero, se presente, a quegli accordi che regolano «particolari rapporti di lavoro diversi da quello subordinato (ad esempio gli accordi collettivi in tema di rapporto di agenzia)», ovvero ai «contratti che disciplinano contestualmente il lavoro subordinato e le collaborazioni coordinate» .
In seconda battuta, e a rafforzare ulteriormente la tutela del lavoro autonomo in cooperativa, è poi previsto che, in assenza di contrattazione collettiva specifica, sia consentito il raffronto con i compensi medi in uso, per prestazioni analoghe, rese in forma di lavoro autonomo .

3. I rapporti di lavoro autonomo in cooperativa.
Potrebbe allora trovare conferma l’idea che la forma cooperativa possa essere la realtà di impresa all’interno della quale ricavare promozione, e protezione, per quel lavoro autonomo, si potrebbe dire, meno “robusto” di quello tipico e tradizionale , passibile della declinazione in quelle diverse tipologie che formano la costellazione di prestazioni ai confini della subordinazione, pur che si rivelino compatibili con la realizzazione dello scopo sociale .
Per quanto poco esplorato in dottrina e in giurisprudenza, il tema della compatibilità tra disciplina cooperativistica e regole nel corso del tempo stabilite per i rapporti di lavoro non subordinato richiede un rigoroso processo di coordinamento, per consentire di accedere ad un ampliamento delle fattispecie con cui il socio contribuisce al raggiungimento dello scopo sociale, riuscendo altresì a soddisfare l’aspettativa di ottenere continuità di impiego (e di reddito), diversamente da quanto accade di norma nei diversi ambiti di lavoro. La peculiarità del contesto consente ad un tempo di ridefinire i trattamenti in deficit di garanzia, ma di evitare una meccanica estensione di regole prelevate dal lavoro nell’impresa, che rischierebbe di alimentare un possibile appiattimento sul trattamento previsto per il socio lavoratore subordinato, con conseguente perdita delle diverse tipicità .
Tra le ipotesi di lavoro non subordinato “tipizzato” dal legislatore, la forma della collaborazione a progetto in cooperativa è stata valutata non solo per consentirne la compatibilità con il lavoro in cooperativa, ma altresì, per quanto qui interessa, nel confronto con la disciplina introdotta dal d.lgs. n. 276/2003 sul compenso del collaboratore. L’abolizione della disciplina sulla collaborazione a progetto cancella oggi gli interrogativi sulla compatibilità con il lavoro in cooperativa, ma non vieta di conservare l’elaborazione maturata nel vigore di quelle disposizioni, per rintracciare una possibile chiave di lettura che consenta di dare coerenza alle specificità del contesto che ci occupa, con la singolarità delle previsioni di legge sopraggiunte sul lavoro autonomo, o comunque non subordinato.
Per il lavoro a progetto, l’art. 63 d.lgs. n. 276/2003, così come introdotto dall’art. 1, comma 23 lett. c) della legge 28 giugno 2012, n. 92, prevedeva che il compenso per il collaboratore fosse, oltre che proporzionato alla quantità e alla qualità del lavoro prestato, non inferiore ai minimi determinati facendo riferimento a quelli previsti dai contratti collettivi per il lavoro subordinato; il riscontrato parallelismo tra questa previsione e quella già contenuta al comma 1 dell’art. 3 della l.n. 142/2001 per tutte le forme di lavoro diverse da quelle subordinate aveva mosso a ritenere prevalente la disciplina specifica per la tipologia contrattuale, indicata dal d.lgs. n. 276/2003, allontanandone il parametro di riferimento dai trattamenti previsti per il lavoro autonomo .
Oggi, a seguito dell’abrogazione della disciplina sul lavoro a progetto, e la ricomposizione delle collaborazioni coordinate e continuative sotto lo schema di cui all’art. 409, n. 3 c.p.c., e della conseguente estensione di alcune norme sostanziali proprie del diritto del lavoro subordinato, lascia impregiudicata la natura autonoma delle collaborazioni, con applicazione, per ciò che attiene al trattamento economico, di quanto previsto dall’art. 3, comma 1 l. n. 142/2001.
La conclusione raggiunta non allontana però del tutto il bisogno di coordinamento tra quanto previsto dalla legge n. 142 del 2001, da un lato, e le eventuali nuove regole introdotte in tema di collaborazioni di tipo autonomo, dall’altro : la progressiva tendenza a riconoscere tutele ai lavoratori autonomi non può infatti considerarsi paralizzata, nel lavoro cooperativo, per la presenza di norme concepite all’interno di un quadro di riferimento oggi arricchito di nuovi, ma non per questo incompatibili, tasselli. Se, con riferimento al trattamento economico, la legge n. 142 del 2001 ha introdotto, nella misura vista supra, una previsione innovativa quanto a garanzia di commisurazione del compenso per il lavoro autonomo, sconosciuta nell’economia della disciplina privatistica, così come in quella lavoristica, questa è da riferire a tutte quelle fattispecie, a partire dai collaboratori di cui all’art. 409, n. 3, c.p.c., per le quali manchi una tipizzazione normativa quanto a definizione del corrispettivo della prestazione di lavoro dedotta in cooperativa.
Trova in questo modo rinnovata coerenza anche la previsione conclusiva dell’art. 3, comma 1, sul trattamento economico dei soci con rapporti di lavoro diversi da quello subordinato: l’indicazione del parametro di riferimento per i trattamenti minimi è rimessa, come visto, a quanto previsto da contratti o accordi collettivi specifici, nella previsione che, in mancanza di diverse indicazioni di tutela ex lege, la contrattazione collettiva possa di per sé sufficientemente garantire anche le prestazioni non subordinate; tuttavia, l’eventuale introduzione, per alcune fattispecie, di una tipizzazione normativa, con riferimento alla determinazione dell’ammontare del corrispettivo, e all’utilizzo di specifici parametri di riferimento, deve far concludere per il prevalere di questa, i cui principi dovranno essere rispettati, perché divenuti, a quel punto, imperativi.
I compensi medi in uso per prestazioni analoghe rese in forma di lavoro autonomo diventano progressivamente elemento di raffronto, ma in via residuale, qualora manchi un intervento collettivo, ovvero una (sopraggiunta) disciplina di legge che si sia pronunciata, quanto a trattamento economico, per le singole, diverse forme di lavoro non subordinato.
L’adeguamento e il raccordo della legge n. 142/2001 con eventuali norme specifiche sopraggiunte è del resto già affermato in giurisprudenza, laddove, con riferimento alla tutela assicurativa, ed alla conseguente obbligazione contributiva dovuta dalla cooperativa per i soci lavoratori, ha deciso il (logico) superamento del R.D. n. 1422 del 1924 che allora, riconosceva le società cooperative come datori di lavoro, onerati dell’obbligazione contributiva senza distinzione delle attività concretamente svolte, ricondotte tutte, con una sorta di fictio iuris, al prelievo proprio del lavoro subordinato. Il richiamo all’applicazione delle “norme vigenti” quanto a trattamento previdenziale, di cui all’art. 4, comma 1, legge n. 142/2001, è dunque da intendere non come autorizzazione a derogare alle normative previdenziali sopraggiunte, per riaffermare la risalente disciplina speciale per le cooperative, ma «solo precisare che l’ammissibilità di tipologie di rapporti di lavoro diversi da quello subordinato comportano anche l’applicazione del relativo statuto previdenziale» . Se, dunque, il trattamento previdenziale deve seguire le specifiche previsioni per le diverse tipologie contrattuali svolte dal socio per la realizzazione dello scopo sociale, anche sopraggiunte rispetto alla legge n. 142/2001, tale principio pare debba accompagnare anche le previsioni che attengono al trattamento economico, in una stagione normativa che evidenzia sempre più spesso come anche il lavoratore autonomo sia esposto a vulnerabilità derivante dalla dipendenza economica.
Situazione, questa, che può ben presentarsi nel caso di lavoratore autonomo di cooperativa, il quale tenderà ad affiancare al rapporto sociale, duraturo, una parimenti continuativa forma di apporto lavorativo, pur nelle consentite forme dell’autonomia. Le incertezze che hanno accompagnato la possibilità di stipulare contratti di lavoro autonomo “occasionale” sono state infatti risolte a favore della loro compatibilità con il lavoro cooperativo solo nei limiti fissati dal d.lgs. n. 276/2003, art. 61, comma 2, al quale viene riconosciuta la natura di prestazione «tecnicamente definibil(e) come continuativ(a) (…), compatibil(e) con la norma (…) in quanto la cooperativa potrebbe avere delle limitate e temporanee possibilità di distribuzione delle occasioni di lavoro fra i soci» . Non diversa la situazione del lavoratore autonomo tout court, per il quale pare possa dirsi che sia la stessa legge n. 142/2001, al suo art. 1, comma 2, a delineare uno status che ne identifica la posizione «in termini di stabilità collaborativa, sia all’interno degli assetti organizzativi dell’impresa che a quelli più propriamente societari» : difficilmente la prestazione del lavoratore autonomo potrà avere natura occasionale, poiché l’appartenenza alla compagine sociale condiziona ad una medesima stabilità e continuatività della prestazione, che si accompagna al vantaggio mutualistico che può ben essere dato, nel caso del prestatore autonomo, dalla garanzia di continuità nell’erogazione del trattamento economico.
Un ragionamento parzialmente diverso deve invece essere fatto nel caso in cui la cooperativa ammetta, tra le altre possibili forme di lavoro, quella delle collaborazioni etero-organizzate, di cui all’art. 2, comma 1, d.lgs. n. 81/2015: la formula “aperta” di cui all’art. 1, comma 3, della l. n. 142/2001, pare consentirlo, per quanto, secondo alcuni, in via eccezionale, e comunque «esposta ad alto rischio di sindacato» , risultandone pregiudicata in radice la condizione di autonomia; tuttavia, nel caso di socio lavoratore coinvolto in questo tipo di relazione negoziale, qualche questione potrebbe porsi sull’individuazione della disciplina applicabile, quanto a definizione del trattamento economico spettante.
Seppure, infatti, le prestazioni di lavoro etero-organizzate siano considerate, a livello di fattispecie, formalmente parte del lavoro autonomo, tuttavia la loro attrazione, quanto a disciplina applicabile, a quella del lavoro subordinato, derivante dalla legge e dalla contrattazione collettiva, impedisce di poterle considerare parte di quel genus indistinto di lavoro “diverso da quello subordinato” cui l’art. 3, comma 1, l. n. 142/2001 ricollega il trattamento economico minino, commisurato a quanto previsto dai compensi medi per prestazioni analoghe rese in forma di lavoro autonomo . Nel rispetto dei contenuti dell’art. 2, comma 1, d.lgs. n. 81/2015, se al lavoratore etero-organizzato deve accostarsi la disciplina della subordinazione, da intendersi ricomprensiva dei principi in tema di trattamento retributivo , quando tale prestazione sia resa dal socio dovranno però essere presi in considerazione, e applicati, i criteri “speciali” del lavoro subordinato in cooperativa: cioè a dire che, nel caso delle prestazioni etero-organizzate, siamo di fronte ad una “doppia specialità”, che ricollega ad una relazione contrattuale formalmente autonoma la disciplina scaturente dall’art. 2094 c.c., la quale tuttavia, se riferita ad una prestazione resa in cooperativa, non può che attrarre su di sé gli aspetti “speciali” dettati dalla legge n. 142/2001, tra cui quelli riferiti al trattamento economico. Ne risulterebbe frustrato, in caso contrario, l’intento complessivo della legge n. 142/2001, di garantire il lavoro in cooperativa, in qualunque forma reso, nel rispetto della compatibilità con la posizione di socio. La disciplina sul lavoro subordinato cui può dare accesso la collaborazione etero-organizzata non potrà che essere, all’interno delle cooperative, quella “speciale” tratteggiata dalla legge n. 142/2001, che si impone data la presenza del collegamento negoziale tra rapporto associativo e rapporto di lavoro.

4. I trattamenti economici «ulteriori».
Il secondo comma dell’art. 3 consente di erogare ai soci lavoratori trattamenti economici ulteriori, previa deliberazione dell’assemblea, indicandole in due diverse fattispecie – le maggiorazioni (lett. a), e i ristorni (lett. b) –, entrambe riconducibili alle due distinte componenti (sinallagmatica e associativa) che caratterizzano il rapporto di lavoro del socio lavoratore. Si ritiene pertanto che esse spettino anche al socio lavoratore non subordinato , il cui trattamento economico si rivela, come per il socio lavoratore subordinato, «di carattere composito (…) per una parte ricollegabile alla retribuzione sindacale e per un’altra alla gestione aziendale» .
La modalità di erogazione delle maggiorazioni deliberate dall’assemblea deve trovare sede nella contrattazione collettiva, a conferma della centralità riconosciuta alla fonte sindacale sui temi retributivi; il rinvio operato dal legislatore si indirizza, come ormai di consueto, verso l’identificazione di una specifica contrattazione, individuata dal richiamo agli agenti contrattuali che, in prima battuta, risultano essere quelli indicati all’art. 2 della l. n. 142/2001, ovvero gli accordi tra le associazioni nazionali del movimento cooperativo e le organizzazioni sindacali dei lavoratori comparativamente più rappresentative: a questi, nulla vieta di interessarsi e di disciplinare nello stesso documento anche i trattamenti dei soci lavoratori con rapporto non subordinato; al contempo, la norma non esclude, ma anzi stimola ad una contrattazione esclusiva per il rapporto lavorativo non subordinato, aggiungendo, con il tema delle maggiorazioni, un ulteriore tassello alla confermata importanza della contrattazione collettiva come fonte di garanzia del reddito del prestatore di lavoro che operi «in realtà non omologabili al lavoro subordinato tradizionale» .
La seconda forma di compenso suppletivo, i ristorni, sono invece ad esclusiva definizione assembleare, con l’unico vincolo di non superare il 30% della retribuzione di base e del trattamento eventualmente riconosciuto ai sensi dello stesso art. 3, lett. a). Una delle modalità di attribuzione dei ristorni è quello della integrazione della retribuzione; ovvero, in alternativa, un aumento del capitale sociale sottoscritto e versato; o, ancora, la distribuzione gratuita di titoli azionari di partecipazione alla società cooperativa.
Nel caso del ristorno, diversamente dalle maggiorazioni che hanno rispondenza alla quantità e alla qualità del lavoro svolto, non pare configurabile un diritto del socio lavoratore a ricevere la remunerazione aggiuntiva, e dunque l’esistenza di un obbligo della cooperativa alla corresponsione della stessa, poiché ciò non trova alcuna corrispondenza nella legge. Di conseguenza, non appare configurabile un diritto soggettivo del socio al ristorno, ma semplicemente l’esistenza di una aspettativa che rimane in ogni caso subordinata alla determinazione di un bilancio economico di esercizio in positivo .
Le somme così erogate concorrono alla formazione di quel vantaggio mutualistico che sta alla base dell’associazione in cooperativa: la condizione di maggior favore, rispetto al mercato, nelle cooperative di produzione e lavoro si traduce nella previsione di un trattamento economico più favorevole di quello offerto dall’impiego ordinario, mediante somme aggiuntive che possono derivare direttamente, attraverso la corresponsione di «retribuzioni pari al provento netto dell’impresa», oppure, in maniera indiretta, «corrispondendo ai soci retribuzioni pari a quelle correnti per la generalità dei lavoratori e solo successivamente, in relazione all’andamento dei costi e dei ricavi, corrispondendo ai soci le differenze tra le retribuzioni già corrisposte e i ricavi» .
La previsione di trattamenti economici ulteriori manifesta l’interesse del legislatore ad esaltare il collegamento della remunerazione del lavoro in cooperativa con la causa mutualistica, ipotizzando compensi maggiori collegati alla prestazione e sottratti, per questo, alla completa disponibilità dell’assemblea, la quale dovrà prevederne la distribuzione, in relazione ai ricavi ottenuti dalla società grazie agli scambi mutualistici intrattenuti con i soci lavoratori.
Il trattamento economico, in generale, più favorevole per il socio lavoratore di cooperativa, anche nelle forme diverse da quella subordinata, cede tuttavia di fronte a situazioni che richiamano il peso riservato, nell’economia del collegamento negoziale, al vincolo associativo e, di conseguenza, alla partecipazione al rischio di impresa.
La legge prevede che il regolamento intervenga, quando risultino minacciati i livelli occupazionali, attribuendo all’assemblea la possibilità di introdurre deroghe, anche significative, ai trattamenti economici integrativi previsti per i soci lavoratori, vale a dire agendo su quegli emolumenti che costituiscono la principale estrinsecazione del vantaggio mutualistico legato alla partecipazione cooperativa. La ricerca di forme di risparmio per la società, recuperabili prima di tutto dalle voci accessorie del trattamento economico dei soci lavoratori – ristorni, prima, ed utili, poi – risponde alla logica solidaristica propria del movimento cooperativo. In una stagione di forti tensioni occupazionali, e di tutele ancora prive delle dimensioni universalistica, la dichiarazione di crisi aziendale da parte dell’assemblea permette di attivare «specifiche misure di salvataggio dell’impresa cooperativa che possono affiancarsi agli ordinari strumenti di salvaguardia dei livelli occupazionali previsti dalle normative lavoristiche» .
I soci lavoratori coinvolti in forme di prestazione non subordinata si ritrovano, all’interno della realtà cooperativa, a partecipare in questo modo ad una, per loro inedita, gestione del rischio di impresa, che li vede coinvolti, da un lato, nella diminuzione del vantaggio economico, ma, dall’altro, nella ricomprensione solidaristica sulla distribuzione del sacrificio: la salvaguardia dei livelli occupazionali, che attiva il piano di crisi, dovrebbe portare ad un risparmio di spesa da indirizzare non solo a ripianare carenze di gestione, ma anche ad investire nel sostegno ai soci lavoratori, anche non subordinati, mantenendo per essi occasioni di collaborazione, ovvero sostegno al reddito, nella permanenza del vincolo associativo.

 

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