1. Introduzione: varietà e frammentarietà dei regimi di determinazione del reddito e dell’imposta applicabili all’esercizio della professione in forma “collettiva”
In un precedente intervento su questa rivista abbiamo parlato di “frammentazione” del regime impositivo del reddito di lavoro autonomo prodotto dal professionista individuale, per indicare il fatto che, a fronte di fattispecie civilistiche riconducibili tutte, sostanzialmente, alla figura del prestatore d’opera, la normativa fiscale rende applicabili regole di determinazione dell’imponibile reddituale e dell’imposta spesso molto diverse tra loro, secondo le circostanze.
Analizzando lo svolgimento dell’attività professionale in forma associata o “collettiva” - e facendo in questa sede riferimento alle professioni rientranti nel c.d. sistema ordinistico, e quindi essenzialmente alle professioni intellettuali “protette” - lo scenario non appare diverso ed anzi, se possibile, più complesso.
Anche in quest’ambito sorgono innanzi tutto problemi legati al rapporto tra la legislazione fiscale e la normativa civilistica, problemi riconducibili alla “classica” alternativa tra l’assumere, ai fini tributari, determinati istituti e nozioni come disciplinati nel diritto comune oppure in modo del tutto indipendente da esso, secondo il c.d. particolarismo tributario.
Sono problemi vieppiù accentuati dal fatto che il legislatore delle libere professioni, negli interventi di riforma più recenti, ha sostanzialmente (e, parrebbe, coscientemente) del tutto trascurato e obliterato gli aspetti tributari. Ciò, in particolare, dopo l’avallo normativo che, da una decina d’anni a questa parte, la legge ha offerto allo svolgimento di prestazioni professionali in forma societaria, con l’introduzione della società tra professionisti (d’ora in avanti “StP”) come “figura generale” disciplinata dall’art. 10 della l. n. 183/2011, alla quale si affiancano figure speciali per l’esercizio di determinate professioni protette come, ad esempio, la società tra avvocati (“StA”), attualmente disciplinata dall’art. 4-bis della l. n. 247/2012 (aggiunto nel 2017) .
Almeno prima facie, l’impatto sulla fiscalità di queste riforme delle professioni svolte in forma associata o “collettiva” è stato quello di creare dei “vuoti” di disciplina (vedremo, però, apparenti). Vi sono alcune (poche) disposizioni fiscali che specificamente si rivolgono all’esercizio associato dell’attività professionale, ad esempio l’art. 5 del TUIR [d.p.r. n. 917/1986], che “equipara” alle società semplici le associazioni senza personalità giuridica, costituite fra persone fisiche per l’esercizio in forma associata di arti e professioni, ai fini dell’applicazione del regime di imputazione agli associati del reddito prodotto dall’associazione professionale secondo la tecnica della c.d. trasparenza fiscale. Ai fini dell’IVA, invece, l’art. 5 del d.p.r. n. 633/1972, nel definire la nozione di “esercizio di arti e professioni” fa riferimento non solo ai lavoratori autonomi persone fisiche ma anche alle società semplici e alle associazioni senza personalità giuridica costituite allo scopo .
Da un lato queste disposizioni tributarie, dopo la definitiva e integrale abrogazione della l. n. 1815/1939 disposta dal d.l. n. 138/2011 e dopo l’apparente “superamento” della figura delle associazioni professionali senza personalità giuridica, sembrerebbero aver perso il loro principale referente o “correlativo” civilistico. Dall’altro, la disciplina normativa delle nuove figure della StP o della StA non solo non contempla alcuno speciale regime fiscale loro dedicato, ma neppure contiene disposizioni di rinvio che consentano di inquadrare con certezza il loro trattamento tributario in base alle regole generali applicabili agli enti societari.
Come si analizzerà meglio nel prosieguo, nello scenario attuale (in cui il legislatore ha consentito di diversificare le strutture e le modalità di svolgimento delle libere professioni) chi vuole svolgere una c.d. “professione protetta” in forma collettiva ha a disposizione una rosa di modelli organizzativi e gestionali analoga se non più ampia di quella cui possono accedere imprenditori e “altre” figure professionali. Questa estesa rosa di possibilità risponde (anche per graduazione dell’“intensità” del vincolo sociale) a differenti esigenze delle persone e delle professioni. Ma porta con sé anche una differenziazione significativa dei regimi di tassazione del reddito (in ragione sia delle discipline-base applicabili, sia di quelle eventualmente opzionali, speciali e/o derogatorie).
Questo è un aspetto rilevante da non trascurare, perchè la variabile fiscale rappresenta un fattore determinante nell’orientare la scelta verso i vari modelli organizzativi. La tecnica di “normazione negativa” cui si è accennato e le aporie nella regolamentazione delle professioni associate, proprio per ciò che riguarda la variabile fiscale, hanno allora aperto uno spazio decisivo all’attività di chiarificazione ma anche di “integrazione” ermeneutica da parte della dottrina, della prassi amministrativa e della giurisprudenza. Ne sono derivati, anche in tempi recenti, frequenti revirement e significative contrapposizioni tra orientamenti spesso antitetici, che finiscono per alimentare ulteriore insicurezza in un settore dell’ordinamento già affetto da elevati livelli di variabilità normativa e di incertezza .
La principale questione dibattuta può essere riassunta nei termini seguenti. Se l’oggetto dell’attività svolta in modo collettivo dai professionisti è e rimane sempre intrinsecamente di natura professionale, ma le forme organizzative e gestionali possono corrispondere anche a quelle tipiche dell’impresa, bisogna in primo luogo stabilire quale sia la corretta qualificazione del reddito derivante da una simile attività, che si connota per un’ibridazione tra elementi giuridici tradizionalmente diversi , dei quali va individuata l’effettiva incidenza dal punto di vista tributario. Poi, si tratta non soltanto di risolvere il dilemma dell’alternativa tra plurimi modelli e regimi impositivi assai differenti tra loro, ma anche di stabilire (in chiave critica) se si sia opportuno e risponda ad effettive esigenze delle professioni ordinistiche che la legge offra loro una tale alternativa (con tutti i connessi rischi derivanti dall’eventuale contestazione di errori o abusi).
2. La tassazione dei redditi prodotti dagli studi professionali associati
La prima più elementare forma di aggregazione del lavoro professionale è rappresentata dalla costituzione, tra persone fisiche, di studi professionali associati privi di autonoma personalità giuridica. L’associazione professionale - com’è noto - consente al gruppo di professionisti di condividere costi e strutture comuni, di sfruttare economie di scala nella “produzione” dei servizi e nell’ottenimento di finanziamenti, di godere quindi di un centro unitario e comune di imputazione di alcuni effetti e interessi giuridici, principalmente con riguardo ai “rapporti interni” tra associati e ai rapporti coi terzi aventi oggetto diverso dalla prestazione professionale .
La dottrina civilistica ha evidenziato che il ricorso a questa figura “tradizionale” di organizzazione semplificata, basata su un atipico contratto associativo, è tuttora possibile e non è impedito dall’abrogazione della l. n. 1815/1939. L’interpretazione (sostenuta dagli stessi ordini professionali) muove dal fatto che, nonostante l’abrogazione, la l. n. 183/2011 (art. 10 co. 9) fa “salve le associazioni professionali […] già vigenti”: e quindi se ne inferisce logicamente che l’autonomia negoziale deve poter rimanere libera, ex art. 1322 c.c., di continuare a creare forme di organizzazione dell’attività professionale collettiva non necessariamente riconducibili a quelle, tipizzate, delle società disciplinate nel Libro V c.c. .
Ciò non impedisce che rimanga aperto tutto un ventaglio di problemi ermeneutici e applicativi già preesistenti e che riguardano soprattutto la controversa natura dell’associazione professionale. L’interpretazione (di dottrina e giurisprudenza) che, da minoritaria, pare tendere ad affermarsi, è nel senso che la figura sia sostanzialmente riconducibile alla società semplice (a fortiori dopo l’abrogazione della legge del 1939), che si tratti sia di una “società di mezzi” sia di una “società senza impresa” appositamente creata per la gestione dei rapporti professionali. Fatto sta che la s.s. tende a configurarsi come “il più neutro dei tipi societari […] che, da tipo, potrebbe assurgere a ‘modello’ di organizzazione dell’attività professionale” .
Per una (neppure troppo) strana eterogenesi dei fini, questa conclusione dogmatica coincide con la soluzione tecnica che, da tempo, è adottata sul piano tributario dal già citato art. 5 TUIR, con l’equiparazione dell’associazione professionale alla società semplice. Quest’ultima - unica tra i tipi societari - non avendo come oggetto l’esercizio di un’società commerciale non produce reddito d’impresa e ad essa infatti non è applicabile la presunzione di imprenditorialità posta dall’art. 6 co. 3 TUIR .
Il regime fiscale dello studio professionale non muta, dunque, la categoria di riferimento e le regole di determinazione del reddito, che rimangono quelle del lavoro autonomo (in particolare il criterio di imputazione temporale per cassa). Né muta l’imposta ad esso applicabile (incluse le ritenute alla fonte del 20% a titolo d’acconto) posto che il regime di imputazione per trasparenza del reddito di partecipazione comporta comunque la sua inclusione nel reddito complessivo soggetto ad IRPEF, essendo i partecipanti persone fisiche .
Il regime e le modalità di tassazione del reddito, in questo caso, non fanno altro che adeguarsi alla struttura e alle caratteristiche dell’ente assecondando gli scopi caratterizzanti l’esercizio associato della professione ovvero mettere in comune, in tutto o in parte, i proventi e i costi e ripartire poi la risultante in quote uguali o disuguali.
La ripartizione del reddito dell’associazione tra i partecipanti, ai fini della dichiarazione IRPEF per ogni periodo d’imposta, avviene secondo la tecnica della trasparenza, quindi innanzi tutto “indipendentemente dalla loro percezione” effettiva. Quindi il reddito professionale è determinato secondo il criterio di cassa in capo all’associazione, ma diviene imponibile per ogni partecipante anche se la distribuzione delle singole quote non avviene entro la fine del periodo d’imposta.
La ripartizione del reddito, poi, deve essere effettuata in misura corrispondente alla quota di partecipazione agli “utili” di ciascun associato. Come per le società di persone, le quote si presumono proporzionali al valore degli apporti (lavorativi) degli associati e vanno determinate con atto pubblico o scrittura privata autenticata . Se tale valore non risulta determinato, le quote si presumono uguali. La peculiarità, nel caso delle associazioni professionali, è che l’atto o la scrittura che fissa le quote di partecipazione agli utili non deve essere redatto (o variato) prima dell’inizio del periodo di imposta, ma può esserlo anche successivamente, fino alla data di presentazione della dichiarazione dei redditi dell’associazione (e quindi anche in un momento posteriore al termine del periodo d’imposta). Ciò proprio per consentire (in linea di principio con cadenza annuale) di rideterminare anche ex post le quote di partecipazione di ogni professionista tenendo conto dell’effettivo apporto lavorativo di ciascuno.
Secondo le medesime percentuali, tra le persone fisiche vengono ripartite anche le ritenute d’acconto applicate in occasione dei pagamenti effettuati all’associazione professionale (da committenti o terzi), gli eventuali crediti d’imposta spettanti, ecc. Al riguardo va ricordato che, qualora i debiti IRPEF dei singoli associati non fossero sufficientemente capienti per “assorbire” tutte le ritenute operate nei confronti dell’associazione, l’Agenzia delle entrate ha riconosciuto che gli associati possono “acconsentire in maniera espressa” a che le ritenute che residuano, una volta operato lo scomputo dal loro debito IRPEF, siano utilizzate dall’associazione professionale. Dato che quest’ultima non ha né può avere un’imposta sul reddito a debito, il credito così maturato potrà essere utilizzato in compensazione dall’associazione in sede di versamento di altre imposte e contributi mediante il modello F24. L’associazione opera quindi come una sorta di “centro di imputazione di interessi” che, seppur nell’ambito del regime di trasparenza, facilita una gestione “comunitaria” delle posizioni fiscali connesse alla produzione associata del reddito.
Anche le perdite sono ovviamente imputabili pro quota ai professionisti. Conformemente alla disciplina del lavoro autonomo e delle attività economiche non aventi natura commerciale, le perdite imputate per trasparenza possono essere compensate solo in via “orizzontale” con altri redditi posseduti nel medesimo periodo d’imposta ex art. 8 co. 2 TUIR e non ne è ammesso il riporto in avanti.
Sul piano del diritto delle procedure tributarie, l’equiparazione alla società semplice espone l’associazione professionale al regime dell’accertamento unitario del reddito in capo all’ente e a quello del litisconsorzio necessario, con il coinvolgimento di tutti gli associati e dell’ente, nell’eventuale processo tributario .
Rispetto agli altri tributi (in specifico IRAP e IVA) si deve accennare al fatto che l’associazione professionale ne è, pienamente, soggetto passivo. Laddove - sul piano civilistico - si ritenga ad essa applicabile in via diretta o analogica la disciplina della società semplice, dei debiti fiscali della società risponderanno personalmente e solidalmente anche gli associati che hanno agito in nome e per conto dell’ente e, salvo patto contrario (opponibile all’Amministrazione finanziaria solo se portato a conoscenza dei terzi con mezzi idonei), anche tutti gli altri, per effetto degli articoli 2267 e 2268 c.c. Si ricorda che il beneficio della preventiva escussione del patrimonio sociale non è applicabile automaticamente ma deve essere eccepito dal singolo condebitore.
3. Qualificazione e tassazione dei redditi delle StP
L’art. 10 co. 3 della l. n. 183/2011, come già ricordato, consente di esercitare un’attività professionale appartenente al sistema ordinistico anche nella veste di una società commerciale, di persone o di capitali, strutturata secondo uno dei modelli societari regolati dai Titoli V e VI del Libro V c.c. La legislazione speciale, sul punto, contiene un’evidente ibridazione tra la forma dell’impresa commerciale e l’oggetto intrinsecamente ed esclusivamente professionale dell’attività che dev’essere svolta da parte dei soci professionisti e che deve costituire l’oggetto principale della società (la quale può essere anche multidisciplinare). L’ibridazione si manifesta poi quasi visibilmente nella duplicità dell’iscrizione della società, tanto nell’albo professionale dell’ordine quanto nel registro delle imprese.
Le conseguenze sul piano tributario di questa assai peculiare impostazione non sono affatto scontate ma sembra - almeno prima facie - che un punto fermo sia stato trovato nell’interpretazione che l’Agenzia delle entrate è giunta a professare stabilmente negli ultimi anni (anche se per ora unicamente in sede di consulenza giuridica e di risposta ad interpelli) . Nella prospettiva adottata dall’Agenzia, se la società professionale viene strutturata secondo uno dei tipi di società commerciale del c.c., è proprio l’adozione di questa forma organizzativa a rendere il reddito prodotto dalla sua attività, comunque di tipo professionale, sempre qualificabile come reddito d’impresa . E ciò non tanto perché, sul piano teorico-astratto, si voglia attribuire prevalenza alla forma sulla sostanza, ma perché è l’effetto dell’applicazione di specifiche disposizioni di diritto positivo con funzione qualificatoria, ovvero gli articoli 6 co. 3 e 81 TUIR (norme che pure, certamente, sottendono un principio generale del sistema d’imposizione dei redditi, per cui la “forma” della commercialità determina la “sostanza” della fattispecie, ai fini del suo trattamento fiscale ). In altre parole, la tesi dell’Amministrazione (e della prevalente dottrina) è nel senso che, ai fini tributari, la normativa vigente non lascia alcuna possibilità, sul piano ermeneutico, per ritagliare uno spazio alla c.d. “società senza impresa”, quantomeno nell’ambito delle società commerciali di persone e, a fortiori, di capitali, potendosi avere società senza (reddito di) impresa unicamente nel caso della s.s. .
In questa prospettiva, allora, la determinazione del reddito della StP in base alle regole proprie del reddito d’impresa ha come importante conseguenza la derivazione dell’imponibile dal risultato di esercizio del conto economico del bilancio, secondo la tecnica delle variazioni in aumento o in diminuzione ex art. 83 TUIR, con applicazione del criterio di competenza economica anziché quello di cassa per l’imputazione delle componenti reddituali.
Se ciò vale in linea di principio, non bisogna dimenticare che i regimi impositivi del reddito d’impresa applicabili sono plurimi e possono risultare anche abbastanza diversificati tra loro. Il sistema di contabilità adottato, nonché la dimensione del volume d’affari, determinano innanzi tutto alcuni elementi essenziali del regime della base imponibile. Senza pretesa di esaustività, si possono ricordare:
- le società di persone in contabilità semplificata (senza obbligo di redazione del conto economico) che prestano essenzialmente servizi e hanno ricavi non superiori a 400.000 euro nel periodo d’imposta: esse determinano il proprio reddito in base alle disposizioni analitiche e tassative dell’art. 66 TUIR, con applicazione del criterio di cassa temperato, anziché di competenza pura (tranne che non optino per il regime di contabilità ordinaria);
- le società di capitali, in contabilità ordinaria, che non superano i limiti dimensionali delle microimprese ex art. 2435-ter c.c.: esse determinano le variazioni fiscali del risultato di esercizio in base al principio di “derivazione semplice”;
- le altre società di capitali, che determinano il reddito in base al principio di derivazione rafforzata dal bilancio d’esercizio (con prevalenza, in deroga alle norme tributarie, dei criteri di qualificazione, classificazione e imputazione temporale delle componenti di reddito dei criteri stabiliti dai principi contabili applicabili, OIC o IAS).
Va detto che la qualificazione del reddito della StP come reddito d’impresa non è però del tutto pacifica e di recente è stata rimessa in discussione dalla Corte di Cassazione e da una parte della dottrina . L’assunto (già sostenuto in passato da alcuni ordini professionali ) è nel senso che la StP potrebbe produrre reddito d’impresa solo quando, in base ad un accertamento caso per caso, “l’esercizio della professione costituisca elemento di un’attività organizzata in forma di impresa, ovvero quando prevalga il carattere dell’organizzazione del lavoro altrui e del capitale sulla prestazione di lavoro intellettuale”. In assenza di una struttura organizzativa di tipo imprenditoriale in concreto, e non solo in astratto a cagione del tipo societario scelto, in assenza cioè dell’evidenza che sia svolta un’attività diversa e ulteriore rispetto all’apporto intellettuale dei singoli prestatori d’opera, il reddito prodotto potrebbe essere riferito soltanto al lavoro del professionista e dovrebbe essere qualificato come di lavoro autonomo. Come conseguenza, all’atto del pagamento dei compensi alla StP i committenti sostituti d’imposta dovrebbero effettuare (a pena di sanzione) le ritenute alla fonte a titolo d’acconto prescritte per il reddito di lavoro autonomo.
La prevalente dottrina è stata, finora, contraria a un siffatto orientamento , ed anche la prassi amministrativa immediatamente successiva all’arresto giurisprudenziale citato lo non vi si è finora affatto conformata, continuando ad attribuire alla StP commerciale unicamente reddito d’impresa . La posizione maggioritaria è del tutto condivisibile.
È certamente vero che si possono distinguere, in concreto, la fattispecie in cui il cliente negozia con la StP l’effettuazione di una prestazione da parte di uno specifico socio professionista e in cui, quindi, rileverebbe l’intuitus personae (e allora la categoria di riferimento sarebbe quella del lavoro autonomo) dalla fattispecie in cui prevarrebbe invece un vero e proprio intuitus societatis , in cui cioè il cliente vuole che a curare i suoi interessi sia l’organizzazione della StP nella sua interezza. Ma ciò non rende affatto irragionevole che, sul piano tributario e ai fini della qualificazione del reddito, la normativa vigente preferisca trovare una soluzione ponendo una presunzione legale piuttosto che avallando la necessità di accertamenti casistici volta per volta. Ciò che si presume, infatti, è che l’organizzazione imprenditoriale sussista ogniqualvolta la forma giuridica assunta dall’attività sia quella corrispondente a uno qualsiasi dei tipi di società commerciale (quandanche si trattasse di s.r.l. unipersonale).
Ciò d’altronde risponde a esigenze di certezza e anche di semplificazione dei rapporti fiscali. Infatti, opinando diversamente - cioè volendo riferire, ad esempio, a una StP, che è costituita in forma di s.r.l. o s.p.a. ed effettua esclusivamente prestazioni d’opera intellettuale, la produzione di un reddito di lavoro autonomo anziché d’impresa - emergono inevitabilmente altri complessi problemi nella determinazione del reddito, giacché si obbliga la società ad adottare un vero e proprio doppio binario contabile (in sé oneroso e di complessa gestione). L’ente, infatti, sul piano civilistico determina comunque il risultato di esercizio basandosi su una contabilità di tipo aziendale e su un bilancio d’impresa, mentre ai fini fiscali occorrerebbe una rideterminazione integrale delle componenti reddituali secondo le regole (semplificate e differenti) del reddito di lavoro autonomo. Questa, d’altra parte, è stata una delle principali ragioni per cui qualche anno fa, su parere della Commissione Finanze della Camera, il Governo espunse dal disegno del d.lgs. c.d. “semplificazioni”, in attuazione della riforma fiscale di cui alla l. n. 23/2014, la norma che disponeva espressamente che ai fini dell’imposizione dei redditi il trattamento della StP fosse equiparato a quello delle associazioni professionali senza personalità giuridica .
Accettata dunque la tesi che qualifica il reddito della StP “commerciale” come (sempre) d’impresa, ciò che può mutare è l’imposta applicabile. Se la società professionale è in forma di s.n.c. o s.a.s., il reddito imputato necessariamente per trasparenza ai soci sarà assoggettato ad IRPEF progressiva indipendentemente dall’effettiva distribuzione: situazione del tutto analoga alla quella in cui versa lo studio professionale associato, tranne che - appunto - per le regole di determinazione del reddito di partecipazione e per la compensazione orizzontale delle perdite, qui possibile unicamente con altri redditi di partecipazione.
Nel caso di StP in forma di società di capitali, invece, il prelievo effettivo che il reddito subisce, prendendo in considerazione il momento in cui esso viene distribuito ai soci, è determinato dalla combinazione della tassazione IRES in capo alla società (prima) e della tassazione dei dividendi soggetti a imposta sostitutiva dell’IRPEF, come redditi di capitale (poi). In base alle aliquote attualmente vigenti (IRES al 24% e imposta sostituiva sui redditi di capitale al 26%) il carico fiscale su tali redditi supera il 43%.
L’effetto negativo della doppia imposizione può essere eliminato nel caso in cui i soci e la StP, se questa è costituita in forma di s.r.l. con non più di dieci soci, optino per il regime di trasparenza ex art. 116 TUIR, alle ulteriori condizioni ivi previste. L’opzione è vincolante per un triennio. In questo caso il reddito di partecipazione sarà tassato unicamente con IRPEF progressiva, come nel caso di StP costituita in forma di società personale commerciale, ma con anche la responsabilità solidale della StP per la quota di imposta personale dei soci relativa al reddito di partecipazione imputato per trasparenza.
4. La tassazione dei redditi dei soci professionisti della StP
Se l’ammontare della tassazione ordinaria, complessivamente pari a circa il 43% dell’utile, vale indubitabilmente per i soci della StP che non sono professionisti, e che dall’investimento nella StP possono ricavare unicamente dividendi e reddito di capitale, per i soci professionisti invece il quadro è più articolato.
Come primo scenario, si ipotizzi che, ove sia civilisticamente ammesso (ad esempio ex art. 2464 co. 4 c.c. per la s.r.l.), il professionista rivesta la posizione di socio d’opera che ha conferito (oltre eventualmente a capitale in denaro) la propria futura prestazione lavorativa per un dato valore e per un dato tempo (obbligandosi quindi ad eseguirla) . In ogni esercizio egli non riceverà alcun pagamento monetario a titolo di corrispettivo professionale, mentre la StP, al termine dell’esercizio, ridurrà l’importo del credito verso il socio iscritto nello stato patrimoniale per conferimenti ancora da eseguire, in misura pari al valore dell’attività svolta. I ricavi derivanti dall’espletamento della prestazione professionale, nonché i costi connessi sono però riferibili alla StP. In questo caso, in effetti, i pagamenti che il socio professionista riceve al termine dell’esercizio, o anche in corso d’anno, dovrebbero essere qualificati unicamente come distribuzione di utili (anche anticipati ) e tassati come redditi di capitale .
Tuttavia, la remunerazione per l’attività professionale ottenuta dal socio di una StP può anche non essere mera distribuzione di dividendi. Se così non fosse, peraltro, la produzione di reddito professionale attraverso una StP di tipo commerciale non risulterebbe praticamente mai conveniente, a meno che non si opti per il regime di trasparenza. Infatti, l’utile che (di fatto) costituisce per la persona fisica remunerazione della sua attività lavorativa, per quanto venga sottratto alla progressività sarebbe in ogni caso soggetto a una pressione fiscale effettiva corrispondente alla massima aliquota dell’IRPEF (43%), anche per importi inferiori all’ultimo scaglione di reddito (dai 75.000 euro in avanti) .
In effetti sembra molto più praticabile, oltre che accettabile sotto il profilo tributario, un altro modello di rapporto tra StP e socio professionista. Se quest’ultimo non riveste la posizione di socio d’opera, la StP dovrà stipulare di volta in volta, o per determinati periodi di tempo, singoli contratti di prestazione professionale con i propri soci al fine di acquistarne i servizi e potere così eseguire gli incarichi professionali ad essa conferiti. Pertanto i compensi pattuiti ed erogati ai soci professionisti (in forma fissa e/o variabile in funzione delle pratiche svolte) costituiranno per loro reddito di lavoro autonomo (o eventualmente assimilato a quello di lavoro dipendente, nel caso in cui il socio sia amministratore ), imponibile per cassa e da assoggettare a ritenuta alla fonte d’acconto del 20%; per la StP saranno invece costi inerenti deducibili dal reddito d’impresa . In questo modo una parte dei proventi continuerà ad essere imponibile con IRPEF in capo alle singole persone fisiche come reddito di lavoro, al contempo evitando la doppia imposizione socio-società; ad essere tassata come reddito di capitale sarà invece la remunerazione del capitale finanziario, dell’attività di organizzazione svolta dai soci e dell’attività di direzione esercitata dai soci maggioritari, in forma di utile distribuito .
In questo secondo scenario, il singolo socio professionista remunerato con compensi periodici potrebbe avere poche spese deducibili dal proprio reddito, poiché è la StP a fungere da collettore per l’imputazione dei costi principali dell’attività. In questo senso, se il socio professionista con compensi non superiori a 65.000 euro potesse accedere al regime forfettario di determinazione del reddito di lavoro autonomo con tassazione sostitutiva agevolata, ottimizzerebbe certamente il proprio carico tributario. Più in generale, la possibilità di cumulare la partecipazione ad una StP e la fruizione del regime di flat tax sui redditi professionali costituirebbe un notevole vantaggio fiscale. Si tratta allora di comprendere se ed in che misura ciò sia consentito dal sistema.
5. (segue) Partecipazione a una StP e flat tax sui redditi professionali individuali
La l. n. 190/2014 (art. 1 co. 57 lett. d) esclude la fruizione del regime di flat tax quando il professionista possiede partecipazioni di controllo , diretto o indiretto, di diritto o di fatto, di una s.r.l. che esercita un’attività direttamente o indirettamente riconducibile a quella da lui svolta (verificabile in base non solo ai rispettivi codici Ateco, ma anche alla concreta realtà fattuale).
La partecipazione ad una StP e il contemporaneo godimento del regime forfettario agevolato (anche sui compensi erogati dalla società) risulterebbero dunque possibili (ferme restando le altre condizioni richieste dalla legge) in alcuni casi: in particolare quando la StP è organizzata in forma di s.p.a. e quando, pur trattandosi di una s.r.l., il socio professionista non ne detiene quote di controllo. Queste ipotesi sono state avallate dalla stessa Agenzia delle entrate nei propri documenti di prassi.
Nello specifico, è allora indubbio che, per un socio minoritario, la possibilità di associare il regime agevolato relativo al proprio reddito professionale con la partecipazione ad una StP s.r.l. trasparente ex art. 116 TUIR consente, in linea di principio, di godere di una tassazione complessivamente favorevole, perché oltre ad abbattere considerevolmente la pressione fiscale sui redditi professionali mantenendo in capo alla StP la deducibilità dal suo reddito d’impresa dei costi principali, si evita altresì la doppia imposizione società-socio e si può ridurre l’imponibile personale che rimane assoggettato a IRPEF progressiva (reddito di partecipazione). Questo vantaggio sembra consentito dall’attuale formulazione letterale della legge . È anche vero, tuttavia, che nella ratio della causa ostativa, come evidenziato dalla stessa Agenzia, rientra anche il fine di evitare l’aggiramento del limite massimo dei compensi fissato per la flat tax (e quindi anche una frammentazione “artificiosa” della propria attività in plurimi regimi impositivi) nonché l’aggiramento del meccanismo di forfettizzazione delle spese (che potrebbero, appunto, essere dedotte in larga parte dalla StP). Non si può pertanto escludere, almeno in astratto, che l’Agenzia possa virare verso un’interpretazione più restrittiva, di taglio sistematico o teleologico. Da una recente risposta ad interpello sembra comunque che l’Agenzia abbia indirettamente riconosciuto che il vantaggio fiscale fruibile dal professionista in regime forfettario, socio non di controllo della StP, costituisca un legittimo risparmio d’imposta ex art. 10-bis co. 4 l. 212/2000. Per cui, la “strada” principale ipotizzata per contestare eventuali indebite fruizioni del regime agevolato non sarà l’abuso del diritto ma l’accertamento di violazioni specifiche di divieti o condizioni posti dalla legge: ad esempio la simulazione della mancanza di cause ostative, come ad esempio l’esistenza di un controllo di fatto, o la non congruità (antieconomicità) dei compensi fatturati dal soggetto istante alla StP, o la non inerenza di determinati cosi dedotti dalla società, o la configurabilità della StP quale mero soggetto interposto nella prestazione dei servizi, ecc.
La partecipazione ad una StP in forma di società personale, come anche un’associazione professionale in regime naturale di trasparenza, sembra invece impedire in radice la fruizione del regime forfettario agevolato, dal momento che la norma preclusiva è formulata in modo ampio e incondizionato. E d’altronde l’Agenzia ha riconosciuto che la causa ostativa può non operare soltanto se la società personale partecipata non produce reddito d’impresa o di lavoro autonomo (se, quindi, si tratta di una s.s. “senza impresa”) . Secondo l’Agenzia, la ratio della disposizione sarebbe non più soltanto quella di evitare che redditi appartenenti alla stessa categoria, conseguiti nello stesso periodo d’imposta e imputabili allo stesso contribuente, vengano assoggettati a differenti regimi di tassazione, ma anche e più in generale, dopo le modifiche apportate con la legge di bilancio per il 2019, quella di “evitare artificiosi frazionamenti delle attività” svolte . Per questo motivo, sembra difficile che il socio di una StP in forma personale possa pretendere di fruire ugualmente del regime agevolato della flat tax facendo valere che il reddito di partecipazione derivante dalla StP e il suo reddito professionale individuale sono riconducibili a categorie differenti (reddito d’impresa il primo, reddito di lavoro autonomo il secondo). Allora, tuttavia, il riconoscimento della medesima possibilità al socio minoritario di una StP s.r.l. trasparente ex art. 116 TUIR appare certamente distonica; o, meglio, appare incoerente avere differenziato le cause preclusive in funzione del tipo societario prescelto, soprattutto alla luce della disciplina della StP che, invece, apre a tutti i tipi sociali individuati nel c.c.
6. Conclusioni
L’assenza di un’apposita, specifica e coordinata (se non unitaria) disciplina tributaria dell’attività professionale svolta in forma collettiva, ha avuto due conseguenze. Ha forzato a cercare un “adattamento” tra i principi e le regole “generali” del sistema di imposizione dei redditi e una disciplina civilistica che appare invece caratterizzata da figure da una lato atipiche (le associazioni professionali) e dall’altro ai limiti della sistematicità (le StP). Poi il “diritto vivente” ha finito per riversare sull’attività professionale collettiva la pluralità eterogenea di “statuti fiscali” già vigente per l’impresa, con modelli, regimi, opzioni diversificati. In tal caso con l’ulteriore aggravante che duplici sono le categorie reddituali potenzialmente applicabili e quindi sorge conflitto anche nell’individuare quali debbano essere le regole-base di determinazione dell’imponibile.
Questo assetto, intersecandosi con i particolari regimi speciali e derogatori di tassazione introdotti negli ultimi anni per il reddito di lavoro autonomo, come la c.d. flat tax, ha finito per produrre uno scenario in cui non appare alcun disegno normativo coerente, “pensato” e voluto come tale ab origine, che, con riferimento all’organizzazione dell’attività professionale di associazioni e StP, permetta di configurare e discernere tra loro i risparmi di imposta legittimi e quelli abusivi, le pianificazioni fiscali lecite o gli arbitraggi fiscali indebiti. Ciò dipende in verità da un’incessante, casistica e - per definizione - instabile e provvisoria attività ermeneutica la quale, per quanto animata da intenti sistematici, non riesce compiutamente a supplire alle lacune e alle incongruenze della legislazione, e quindi a fugare le incertezze.
Per questi motivi sarebbe auspicabile che, nella futura riforma del sistema di imposizione personale sui redditi si cogliesse l’occasione per ridisegnare in modo coerente e armonico il complessivo regime di tassazione delle professioni organizzate in forme imprenditoriali, a maggior ragione nel momento in cui uno dei criteri direttivi della riforma dell’IRPEF e dell’IRES è “la progressiva e tendenziale evoluzione del sistema verso un modello compiutamente duale che preveda: […] l’applicazione della medesima aliquota proporzionale di tassazione […] ai redditi direttamente derivanti dall’impiego del capitale nelle attività di impresa e di lavoro autonomo condotte da soggetti diversi da quelli a cui si applica l’imposta sul reddito delle società”.