Testo integrale con note e bibliografia
1. Il caso.
La sentenza penale in analisi affronta un caso di maltrattamenti sul luogo di lavoro, a danno di due giovani collaboratrici, dipendenti di un centro estetico gestito e amministrato dall’imputato.
Le due estetiste, una delle quali ancora minorenne, avevano svolto un tirocinio formativo e stage lavorativo presso il centro e, in seguito, erano state assunte con contratto di apprendistato. In tal modo, quindi, sono state sottoposte all’autorità dell’imputato che era l’amministratore di fatto dell’impresa: in altri termini, non era né amministratore, né rappresentante legale della società . Più precisamente, svolgeva funzioni dirigenziali, esercitando poteri direttivi e di affidamento di mansioni, anche e soprattutto nei confronti delle lavoratrici offese. Inoltre, le limitate dimensioni del centro estetico e la collocazione dello stesso in periferia, hanno favorito l’instaurarsi di un rapporto confidenziale tra le dipendenti e il datore.
Nello specifico, l’imputato ha reiteratamente maltrattato le lavoratrici, con comportamenti che non erano in nessun modo espressione dell’esercizio delle sue funzioni direttive e di controllo. Così facendo, ha violato la libertà personale delle dipendenti, inducendo in loro disagio, mortificazione e sofferenza.
I fatti, risalenti agli anni 2016 e 2017, descrivono una relazione tra il datore di lavoro e le sue vittime caratterizzata da insulti quotidiani, rimproveri gratuiti, incitamento alle dimissioni, minacce di licenziamento e di pessime referenze per futuri lavori, demansionamento allo scopo di screditare le capacità delle lavoratrici, assegnazione di compiti esulanti dalle loro competenze, sfruttamento lavorativo attraverso il prolungamento dell’orario di lavoro e la riduzione del compenso, battute volgari e commenti o allusioni a sfondo sessuale.
Questa situazione, protrattasi nel tempo, ha causato nelle lavoratrici un profondo stato d’ansia, sfociato anche in crisi di panico e in sofferenza morale e fisica. A fronte di tali comportamenti, vessatori e umilianti, una lavoratrice ha anche rassegnato le dimissioni. Del resto, lo stesso datore ha strumentalmente usato le proprie condotte per allontanarle, in quanto ultime arrivate in azienda e diventate, ben presto, un costo troppo elevato.
Il Pubblico Ministero ha indicato nel capo di imputazione il reato di maltrattamenti contro familiari o conviventi, punito dall’art. 572 c.p. (aggravato ai sensi degli articoli 81 c.p. e 61, n. 11 quinquies c.p.) ritenendolo applicabile anche nel contesto lavorativo.
Nella motivazione, il giudice ha accolto tale prospettazione precisando che «il reato contestato si applica anche ai rapporti diversi da quelli strettamente familiari e di convivenza, in particolare alle situazioni di affidamento del soggetto passivo per l’esercizio di una professione o un’arte». Inoltre, nel caso di specie ha contribuito alla qualificazione delle condotte ascritte all’imputato la constatazione «delle limitate dimensioni dell’impresa e del numero di dipendenti, della posizione di superiorità del datore di lavoro rispetto alle vittime, quali elementi idonei a creare un clima familiare, data anche la relazione confidenziale tra le parti».
Per questi motivi, il giudice penale, accogliendo le richieste del PM, e sulla scorta dei più recenti indirizzi della giurisprudenza, ha condannato il datore di lavoro alla pena della reclusione di un anno e sei mesi, concesso il beneficio della sospensione condizionale della pena, ritenendo prevalenti le attenuanti generiche sull’aggravante contestata, per aver commesso i fatti a danno di una minorenne.
Infine, si evidenzia che il procedimento penale ha tratto origine, non dalla querela delle giovanissime dipendenti, bensì dall’iniziativa della Polizia Giudiziaria che, nell’ambito di indagini amministrative legate a presunte irregolarità della gestione aziendale e dei rapporti di lavoro, ha rilevato una notizia di reato su cui indagare. Le vittime, invece, non si sono costituite in giudizio quali parti civili, né sembra che abbiano esercitato azioni a tutela dei propri diritti avanti al giudice del lavoro, per ottenere la reintegrazione a seguito delle dimissioni forzate o per il risarcimento sostitutivo, ovvero che abbiamo fatto ricorso al giudice civile per ottenere un risarcimento del danno.
2. La portata multidisciplinare degli illeciti: questioni sottese.
La lettura della sentenza fa emergere la rilevanza multidisciplinare degli illeciti commessi dal datore: i comportamenti descritti interessano il diritto penale, il diritto del lavoro, e attengono, infine, anche al diritto antidiscriminatorio. In altri termini, le condotte antigiuridiche tenute dal datore del lavoro sono suscettibili di essere qualificate come maltrattamenti in famiglia, mobbing o molestie (sessuali). Si tratta comunque di disfunzioni del contesto lavorativo: a prescindere dal fatto che siano azioni volontarie e sistemiche o che siano prive di un intento persecutorio, sono comunque idonee a determinare un pregiudizio alla personalità o alla professionalità di chi lavora , che cagiona alla vittima un danno ingiusto risarcibile .
Proprio con riferimento a quest’ultimo profilo della fattispecie, il presente contributo intende suggerire l’applicazione delle norme del diritto antidiscriminatorio come più efficaci per il conseguimento del risarcimento del danno, a fronte delle criticità che il sistema penalistico e lavoristico presentano al riguardo.
3. Maltrattamenti in famiglia e il requisito della parafamiliarità: una ricostruzione.
Prima di addentrarci nell’analisi della disciplina antidiscriminatoria in tema di risarcimento del danno, pare opportuno soffermarsi sulla qualificazione delle condotte in danno delle giovani lavoratrici come reato di maltrattamenti in famiglia.
Dalla pronuncia emerge chiaramente come la fattispecie possa integrare il reato di maltrattamenti in famiglia , benché tale delitto sia tradizionalmente concepito in un contesto domestico. Nel tempo, l’applicazione dell’art. 572 c.p. è stata estesa anche ai rapporti di educazione e istruzione, cura, vigilanza e custodia, nonché alle relazioni professionali e, infine, ai rapporti di prestazione d’opera. Tuttavia, le vessazioni sul luogo di lavoro, realizzate ai danni del lavoratore (rectius, della lavoratrice) e finalizzate alla sua emarginazione, possono sfociare nel reato di maltrattamenti, esclusivamente qualora il rapporto tra datore e dipendente assuma natura parafamiliare.
Questo requisito sussiste quando il rapporto tra le parti si caratterizza per relazioni intense e abituali, tali da divenire consuetudini di vita. Inoltre, occorre la soggezione di una parte nei confronti dell’altra, nonché la fiducia, riposta dal soggetto più debole del rapporto, in colui che ricopre una posizione di supremazia . Ancora, la parafamiliarità si evince dal contesto di prossimità permanente, dato dalle caratteristiche e dalla natura del luogo di lavoro che può essere simile alla casa familiare per la stretta comunanza di vita. Tutte queste caratteristiche considerate nel loro insieme determinano il sorgere di uno stabile affidamento e reciproca solidarietà che qualificano sia la famiglia sia tutti i gruppi ove si realizza una forma stabile di convivenza .
Altro elemento chiave è il numero complessivo di lavoratori e lavoratrici che determinano la dimensione dell’impresa. Secondo l'orientamento giurisprudenziale maggioritario, non è possibile riscontrare un contesto parafamiliare nelle realtà aziendali o altri contesti lavorativi di notevoli dimensioni, in cui i rapporti fra dirigenti e sottoposti tendono a essere più superficiali e spersonalizzati : il numero di dipendenti e la distanza di questi dalle posizioni apicali non permettono l’instaurarsi di un rapporto diretto e personale, né tra tutti i colleghi, né tantomeno con i vertici aziendali . A parere di chi scrive, invece, non è da escludere a priori che, nei contesti appena descritti, sia configurabile il reato di cui all’art. 572 c.p. Infatti, le condotte sopra descritte possono essere realizzate all’interno dei singoli uffici, composti da un ristretto numero di dipendenti e da uno o più capi reparto, legati da un rapporto di colleganza e di frequentazione assidua con la vittima. Una volta individuata e compresa la qualità del rapporto interpersonale tra i soggetti coinvolti, ben potrà affermarsi l’esistenza di maltrattamenti in tali micro-contesti.
4. Ancora mobbing? Criticità della tutela prevista dal diritto del lavoro.
Gli illeciti commessi dal datore nel caso che ci occupa sono altresì qualificabili come mobbing, da non confondere con lo straining e il bossing . Di derivazione giurisprudenziale e ampiamente indagato dalla dottrina, il mobbing indica una serie di condotte lesive reiterate, volte alla vessazione del lavoratore, in un quadro di ostilità continua e preordinata alla sua esclusione dal contesto di impiego .
Il mobbing produce un deterioramento delle condizioni di lavoro tale da ledere la dignità del lavoratore e da determinare un danno ingiusto risarcibile .
Alla base della responsabilità per mobbing lavorativo si pone normalmente l’art. 2087 c.c., quale norma di chiusura del sistema, che obbliga il datore di lavoro ad adottare le misure necessarie a tutelare l’integrità psicofisica e la personalità morale del lavoratore per garantirne la salute e la dignità e i diritti fondamentali di cui agli articoli 2, 3 e 32 Cost. .
La Corte di Cassazione ha più volte statuito che la responsabilità per mobbing del datore va inquadrata nell’ambito dell’art. 2087 c.c. e, come tale, ha carattere contrattuale. Infatti, se la violazione dell’obbligo di sicurezza contenuto nel codice civile è fonte di responsabilità contrattuale lo schema per accertare tale responsabilità deve essere necessariamente ricavato dall’art. 1218 c.c. . Il datore è tenuto a considerare tutti i rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori che concernono anche la prevenzione delle condotte mobbizzanti e discriminatorie. La sua responsabilità sorge, pertanto, ogniqualvolta l’evento dannoso sia eziologicamente riconducibile a un comportamento colposo .
La natura contrattuale della responsabilità datoriale comporta una immediata ricaduta sulla distribuzione tra le parti dell’onere probatorio , che assume particolare rilevanza ai fini del risarcimento del danno. L’onere della prova , nonostante l’ammissibilità delle presunzioni e i poteri officiosi del giudice del lavoro, resta fin troppo gravoso. Infatti, non è sufficiente un riscontro probatorio della lesione della sfera giuridica del prestatore di lavoro dovuta all’omissione del datore di lavoro. E ciò perché, nel nostro ordinamento, il danno risarcibile è sempre danno-conseguenza e non danno-evento . Invero, il lavoratore ha l’onere di provare il comportamento del datore, il danno e il nesso di causalità e, solo nel caso in cui il prestatore di lavoro abbia dato prova di tali elementi, sorge in capo al datore l’onere di provare di avere adottato le cautele necessarie a impedire il verificarsi del danno.
5. Il risarcimento del danno da discriminazione: la risposta del sistema.
Il diritto antidiscriminatorio, benché ancora oggi non sia diffusa una tale consapevolezza, considera rilevanti per la violazione del principio di parità di trattamento anche le molestie, quali «comportamenti indesiderati, aventi lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una persona e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante e offensivo» .
Nel caso di specie, integrano molestie tout court le condotte del titolare volte a denigrare le due lavoratrici attraverso il demansionamento, gli insulti e le offese; mentre sono molestie sessuali le allusioni e i commenti volgari a sfondo sessuale sull’abbigliamento e sulle posizioni che le due lavoratrici dovevano tenere per svolgere le loro mansioni.
Il vantaggio pratico di qualificare questi comportamenti come discriminatori è senz’altro collegato alla tutela processuale di cui le vittime possono beneficiare. Infatti, le regole del diritto antidiscriminatorio prevedono una particolare distribuzione dell’onere della prova a beneficio della vittima . Ciò dipende dal fatto che vi è un evidente squilibrio in danno di quest’ultima, per l’eccessiva difficoltà di disporre delle prove necessarie a dimostrare l’esistenza di una discriminazione . Per scongiurare che ciò comprometta il principio di effettività della tutela, il legislatore europeo ha imposto agli Stati membri di «adottare provvedimenti affinché l’onere della prova sia a carico della parte convenuta (…), e prevedere in qualunque fase del procedimento un regime probatorio più favorevole alla parte attrice» . L’alleggerimento dell’onere probatorio , inoltre, garantisce un’effettiva parità tra i contendenti e la realizzazione di un giusto processo, ai sensi degli art. 24 e 111 Cost. e 47 della Carta di Nizza . A tal fine, l’alleggerimento probatorio trova la sua ratio nel criterio della vicinanza della prova .
Accanto ai profili processuali, altro aspetto qualificante della tutela antidiscriminatoria sono i rimedi contro le discriminazioni e, in particolare, il risarcimento del danno, che in tale contesto assume una funzione sanzionatoria che si affianca a quella più tradizionale della reintegrazione della sfera giuridico-patrimoniale della vittima. Si tratta di una ipotesi che ricorda (pur non del tutto assimilabile) i punitive damages : una sanzione che l’ordinamento irroga a chi abbia violato una norma, a prescindere dal fatto che tale punizione abbia come riflesso il ristoro della vittima o il soddisfacimento di un suo interesse .
Il fondamento normativo di tale potere sanzionatorio del giudice risiede nelle direttive europee antidiscriminatorie, a norma delle quali il risarcimento del danno deve essere «effettivo, proporzionato e dissuasivo» . La Corte di Giustizia ha indicato i criteri per la quantificazione del risarcimento: non può essere meramente simbolico e deve consentire di compensare integralmente i danni subiti. Tuttavia, la normativa europea non obbliga gli Stati membri a garantire alla vittima dell’atto discriminatorio il risarcimento dei danni punitivi, ma neanche lo impedisce , perché tale scelta compete al legislatore. La Raccomandazione della Commissione 2013/396/CE, prevede espressamente che «dovrebbero essere vietati i risarcimenti detti “punitivi” che hanno come conseguenza un risarcimento eccessivo a favore della parte ricorrente».
L'art. 28 co. 5 del d.lgs. 150/2011 conferisce al giudice il potere di condannare il convenuto al risarcimento del danno, anche non patrimoniale. La giurisprudenza italiana, fino alla sentenza n. 16601/2017 , si è mostrata contraria al riconoscimento della funzione sanzionatoria del risarcimento. A partire da quella sentenza, invece, ha adottato una visione più ampia del risarcimento del danno, pur senza ammettere il risarcimento punitivo in senso stretto, in assenza di una chiara previsione legislativa sul punto. Sembra, quindi, più opportuno ad alcuni parlare di funzione, non già punitiva, bensì dissuasiva e deterrente .
Di recente, invece, lo scenario giurisprudenziale si è completamente rovesciato, e non poche volte, in casi di discriminazione, ove il risarcimento è stato determinato con importi che fanno immaginare un intento punitivo nel decidente , anche sulla scorta delle pronunce della Corte di Giustizia . In tali casi, per la determinazione dell’ammontare del risarcimento non si è presa in considerazione la sola gravità della lesione, bensì anche la natura dell’interesse leso, ossia la dignità della persona che lavora e le caratteristiche della condotta lesiva .
Se si pone attenzione alla giurisprudenza di merito più recente , si può notare che i giudici civili usano parametri tipici del codice penale nella determinazione del risarcimento del danno. Infatti, il giudice valuta, in primis, l’elemento soggettivo della fattispecie, dolo o colpa, la gravità della discriminazione subita e la durata del comportamento discriminatorio. Si affiancano a questi criteri guida della valutazione equitativa: l'età della vittima, il luogo di residenza e la classe sociale di appartenenza, le abitudini quotidiane, il tenore di vita, la situazione esistenziale in cui si trovava prima dell’illecito e il cambiamento dell’organizzazione della vita dopo l’illecito. A tal ultimo riguardo, assumono rilevanza anche i risvolti patrimoniali dell’illecito. Infatti, il costo delle cure a cui la vittima si è sottoposta in conseguenza dell’illecito, nonché le ricadute sulla vita lavorativa sono aspetti che si riverberano sulla realizzazione personale della persona .
Infine, sarebbe opportuno tener conto anche della posizione sociale del soggetto che ha attuato le condotte discriminatorie: la condanna, per essere dissuasiva, deve tener conto del suo reddito, del suo grado di istruzione e della sua posizione sociale.
6. Considerazioni conclusive.
L’applicazione del reato di maltrattamenti in famiglia alle vessazioni sul luogo di lavoro è senz’altro una forte e innovativa presa di posizione contro questi comportamenti illegittimi, anche in un’ottica di prevenzione. Tuttavia, nell’ambiente lavorativo, sarà configurabile il reato, di cui all’art. 572 c.p., solamente in presenza dei precisi requisiti di parafamiliarità e, ancora oggi, l’orientamento giurisprudenziale in materia stenta a percorrere una direzione univoca. Considerando che la funzione primaria del diritto penale, e del conseguente processo, risiede nella salvaguardia dell’interesse pubblico , la sanzione penale poco si addice alla tutela delle vittime del presente caso.
Nemmeno pare opportuno servirsi delle tutele lavoristiche, ancorate come sono a un onere probatorio eccessivamente gravoso per le vittime e a una visione puramente reintegratoria del risarcimento del danno.
Guardando la vicenda con gli occhi di chi cerca una tutela effettiva, è preferibile, quindi, inquadrare gli illeciti nelle molestie e molestie sessuali, al fine di beneficiare di un onere probatorio alleggerito e di conseguire più facilmente il risarcimento del danno, anche non patrimoniale, determinato tenuto conto di nuove variabili, affinché non sia una mera reintegrazione, ma anche una vera e propria sanzione.
È ormai necessario prendere coscienza che il diritto antidiscriminatorio può sopperire alle lacune nella tutela della vittima che presentano le altre discipline giuridiche. Va ricordato, infatti, che la nozione legale di discriminazione abbraccia anche le molestie, l’ordine di discriminare e la discriminazione ritorsiva, quali epifenomeni delle regole di contrasto alla violazione del principio di uguaglianza . L’obiettivo cui tende tale apparato normativo, grazie alla particolare disciplina in tema di onere probatorio e di risarcimento del danno, è garantire una tutela effettiva della vittima, altrimenti difficilmente conseguibile .