Testo integrale con note e bibliografia

1. Gender pay gap e lavoro autonomo.
La componente femminile nel lavoro autonomo e nelle professioni si è fatta, nel tempo, sempre più rilevante, giungendo in alcuni settori a superare quella maschile. Ma tale scavalcamento è avvenuto soltanto nella numerosità delle iscritte (nelle diverse Gestioni Inps e nelle Casse), per le quali però i redditi rimangono più che dimezzati.
Da un lato, certamente la componente anagrafica ha un peso: notoriamente, le coorti più giovani guadagnano meno. Ma anche all’interno della stessa fascia anagrafica, il differenziale è significativamente rilevante: in media una professionista donna consegue un reddito che non raggiunge il 60% di quello di un professionista uomo.
Il Rapporto Censis 2018 “Percorsi e scenari dell’avvocatura italiana” elaborato in collaborazione con la Commissione Pari Opportunità del Consiglio Nazionale Forense e con Aiga - Associazione Italiana Giovani Avvocati, ha mostrato come tra il 1995 e il 2017 il numero di iscritti all’Ordine degli avvocati sia cresciuto di oltre 150mila unità (+ 192%), con un incremento femminile di oltre 95mila unità (+ 450%).
Il successivo Rapporto Censis 2019 “L’avvocato nel quadro di innovazione della professione forense” ha fotografato una avvocatura ormai equi-distribuita per numeri ma stratificata per materie e redditi: le avvocate si occupano di diritto di famiglia e minori (68,5%), proprietà (55,2%), esecuzioni (46,5%), contratti (52,1%); pochissime trattano reati societari (2,6%) e diritto societario in generale (12%).
A parità di età e di luogo di lavoro, le avvocate hanno redditi medi inferiori del 60% a quelli maschili, riuscendo a raggiungere un livello di reddito superiore alla media (oltre i 41.000 euro l’anno di imponibile IRPEF) al raggiungimento dei 55 anni, mentre i colleghi sfondando il tetto a partire dai 40 anni.
Le motivazioni sono plurime e riguardano la tipologia di clientela, i settori di intervento, le ore lavorate. Su quest’ultimo punto il Rapporto 2021 relativo all’avvocatura nella crisi pandemica segnala come sia doppia (14% donne, 7% uomini) la percentuale di chi ha sospeso l’attività professionale per mancanza di tempo dovuta a doveri di cura . Ma certamente vi è anche un gap determinato dal pregiudizio e dalla minor partecipazione alle reti informali, come dimostra il differenziale tra uomini e donne nei numeri e nei compensi erogati dalla P.A.
Quando si affronta il tema delle disuguaglianze nel mercato del lavoro, cioè delle diverse condizioni di chi cerca un’occupazione o svolge un lavoro, i differenziali retributivi di genere sono tra gli argomenti più discussi. Questo certamente non accade perché manchino altri trattamenti discriminatori, determinati dall’origine etnica, dalla condizione migrante, dall’orientamento sessuale, o dalla presenza di più d’uno tra questi: al contrario “mentre alcune delle più evidenti forme di discriminazione sul lavoro si sono attenuate, molte altre ancora persistono e altre nuove o meno visibili hanno preso piede. Gli effetti combinati delle migrazioni globali, la ridefinizione delle frontiere nazionali, i crescenti problemi economici e le disuguaglianze in aumento hanno, ad esempio, esacerbato problemi di xenofobia e di discriminazione razziale e religiose” .
Ma la questione del genere è fondamentale ove si vogliano studiare le disuguaglianze. L’approccio intersezionale tra le cause di discriminazione, e cioè il loro combinarsi in modo da aggravare la condizione della persona discriminata, passa dal genere. Se le discriminazioni patite dalle donne afroamericane negli Stati Uniti rappresenta il caso prototipico della intersezionalità , lo stesso può dirsi osservando le vicende relative all’uso del velo islamico al lavoro europee e, per quel che ci riguarda, italiane , ove l’elemento religioso riguarda esclusivamente le donne.
Assumendo dunque che il genere sia il tema da cui partire per affrontare le cause delle odiose discriminazioni che le persone patiscono nel mondo del lavoro, parlare di gender pay gap significa studiare le cause e gli strumenti idonei per rimuovere tali disparità relativamente alla condizione delle donne.
A onor del vero, bisogna intendersi su ciò che si vuole studiare. Come attentamente osservato , se si considera il divario retributivo di genere come differenza nella retribuzione oraria lorda tra uomini e donne, esso, pur esistente, è modesto nel nostro Paese (5%) e, apparentemente in modo incredibile, molto sotto la media europea (14,1%) e davvero lontano, ad esempio, rispetto ad Austria (19,9%) e Germania (19,2%) che invece occupano posizioni migliori nell’indice europeo sull’uguaglianza di genere .
Il modesto divario riscontrato in Italia circa il differenziale retributivo orario che viene esplorato in queste statistiche è pressoché annullato dall’applicazione de facto del contratto collettivo, almeno di primo livello, da parte della quasi totalità dei datori di lavoro. In altri termini, a parità di inquadramento e livello, donne e uomini sono quasi ugualmente retribuiti e il gender pay gap così rilevato può essere spiegato in termini di c.d. superminimi individuali. Si tratta del frutto della negoziazione di trattamenti migliorativi rispetto al trattamento ‘base’ del contratto collettivo, che si verifica per lo più nelle posizioni apicali, dove le donne sono meno presenti e, quindi, anche meno “forti” nel mercanteggiare su stipendio e benefits, che ne costituiscono una fetta rilevante.
Il basso differenziale tra il compenso orario di uomini e donne si può spiegare attraverso la comprensione del concetto e dei motivi che determinano il divario retributivo di genere complessivo, inteso come differenza tra il salario annuale medio percepito da donne e uomini. Il gap in Italia è del 43,7% e nell’UE del 39,3% . Si tratta di una disuguaglianza davvero rilevante, sia pure con enormi differenze tra i Paesi mediterranei e i Paesi nordici.
Questo gap deriva, in primo luogo, dalla scarsa partecipazione delle donne al mercato del lavoro, in cui la componente femminile è occupata per il 49%. rispetto al 67,4% degli uomini .
Ulteriormente, insistono nel mercato del lavoro i fenomeni della c.d. segregazione orizzontale (per comparti produttivi) e verticale (per accesso ai ruoli apicali) delle lavoratrici, le quali sono maggiormente occupate in settori con retribuzioni mediamente più basse e svolgono compiti meno prestigiosi, con conseguente ulteriore differenziale stipendiale in senso peggiorativo .
Altresì, le donne lavorano meno ore dei colleghi uomini: è dato di comune esperienza e confermato da tutti gli studi statistici che il lavoro a tempo parziale riguarda molto più le lavoratrici che i lavoratori e in ogni caso per motivi diversi. Le part-timer riempiono il tempo liberato svolgendo attività di cura (per figli, anziani e/o familiari con disabilità) ; i lavoratori a tempo parziale optano per la riduzione oraria al fine di coltivare una seconda vita professionale (tipicamente, una libera professione o un’attività di impresa) .
In più, le assenze connesse alle funzioni genitoriali determinano un’ulteriore contrazione delle ore lavorate. Su 100 genitori che hanno richiesto un’aspettativa, erano donne il 97% negli anni 2015-2016; nel biennio 2017-2018, il 90%. Altresì, le madri hanno usufruito anche di aspettative più lunghe (oltre alle 20 settimane obbligatorie connesse alla maternità, rappresentavano il 76% dei fruitori di congedi parentali nel biennio 2015 - 2016; il 64% in quello successivo) .
Altrove si è dato conto del fatto che le donne lavorano meno ore anche perché collocate in impieghi più precari : nell’UE a 27 Paesi, sono inserite nel mercato del lavoro con contratti diversi da quello a tempo “pieno e indeterminato” il 27% delle donne e solo il 15% degli uomini, divario che aumenta per le donne con un livello basso di istruzione (50% precarie). L’instabilità lavorativa rappresenta in sé una delle cause del costante divario professionale ed economico tra uomini e donne, sia durante la vita lavorativa, sia nell’età della pensione .
Si tratta di una condizione dannosa per le singole lavoratrici e, nel complesso, per la società europea, compressa tra la bassissima fecondità e l’invecchiamento della popolazione, rispettivamente minima e massima nel nostro Paese.
La più recente analisi della condizione professionale delle madri italiane mostra come i due terzi dei figli nascano da donne che lavoravano prima del parto; mentre solo un nato su dieci è figlio di madri dis/inoccupate . Colpisce, però, che solo la metà delle madri mantenga poi un’occupazione lavorativa (55,4%): i figli, insomma, nascono da donne che lavorano ma che poi spesso abbandonano il lavoro: parzialmente, con riduzione oraria involontaria, o, drammaticamente, ritirandosi involontariamente dalla scena professionale, specie quando i figli sono più di un uno e manca la disponibilità di familiari accudenti.

2. Uguale retribuzione per lavoro uguale o di uguale valore: oltre la subordinazione, cosa?
Se l’obiettivo è la parità nel reddito da lavoro, essa abbisogna di strumenti idonei.
Certamente la miglior conciliazione tra la vita personale e le esigenze familiari è di soccorso alla condizione femminile, posto che la funzione genitoriale è quelle che spesso determina il miglioramento della posizione maschile (incremento orario, avanzamento di carriera) a discapito di quella muliebre (caratterizzata da contrazione e minor flessibilità di orario, assenze dal lavoro, incremento del tempo dedicato alla cura) .
Ma si è osservato come, anche nei casi in cui la maternità non entra in gioco, le donne non godano di un trattamento economico e prospettive di carriera uguali o comparabili a quelli dei colleghi uomini. Tutti i dati mostrano infatti come, per la medesima occupazione, le donne siano comunque retribuite meno, anche nei settori migliori.
In definitiva, il mercato del lavoro è peggiore per le donne anche quando non hanno figli e anche nei casi in cui siano in possesso dei titoli migliori e più spendibili: i motivi di questo gap rimangono in una certa parte oscuri anche alle indagini più ampie e accurate, ma che ben potrebbero essere indicati come il peso “netto” del pregiudizio di genere .
La parità di retribuzione per un lavoro (subordinato) uguale o di uguale valore per uomini e donne rappresenta uno dei fondamenti dell’atto costitutivo dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro del 1919 ed è previsto nel settimo dei nove principi enucleati dall’art. 427 del trattato di Versailles . Ribadito nella Convenzione n. 100 del 1951 (sull’uguaglianza di retribuzione fra mano d’opera maschile e mano d’opera femminile per un lavoro di valore ugual), il principio è stata poi accolto nel Trattato di Roma del 1957 (art. 119), sia pure per ragioni di carattere economico , e ulteriormente ripreso nella Convenzione ILO n. 111 del 1958 (sulla discriminazione in materia di impiego).
La previsione dei fondatori è stata poi modificata con l’art. 141 del Trattato di Amsterdam del 1997, nel senso che «ciascuno Stato membro assicura l’applicazione del principio della parità di retribuzione tra lavoratori di sesso maschile e quelli di sesso femminile per uno stesso lavoro o per un lavoro di pari valore. Per retribuzione si intende, a norma del presente articolo, il salario o trattamento normale di base o minimo e tutti gli altri vantaggi pagati direttamente o indirettamente, in contanti o in natura, dal datore di lavoro al lavoratore in ragione dell’impiego di quest’ultimo…».
L’odierno art. 157 TFUE nulla ha aggiunto al precedente art. 141, rimettendo alla giurisprudenza la valutazione in ordine alla efficacia diretta del principio di cui trattasi, posto in dubbio dalla distinzione formulata dalla Corte fra le discriminazioni che si possono accertare attraverso meri criteri di identità del lavoro (e cioè uguale lavoro, per il quale sussisterebbe l’efficacia diretta) e quelle che possono essere colpite soltanto attraverso disposizioni d’attuazione dettagliate (quale il lavoro di uguale valore, rispetto a cui l’effetto diretto era ritenuto escluso).
La giurisprudenza europea ha lungamente applicato l’effetto diretto dell’articolo 157 TFUE solo alle situazioni in cui i lavoratori di sesso diverso svolgono uno «stesso lavoro» (C. Giust. 8 aprile 1976, Defrenne II, causa C-43/75; 7 febbraio 1991, Nimz, causa C-184/89) o un «lavoro uguale», anche non esercitato simultaneamente da uomini e donne presso uno stesso datore di lavoro (C. Giust. 27 marzo 1980, Macarthys, causa 129/79).
La recentissima C. giust. 3 giugno 2021, K. E a. c. Tesco Stores Ltd., causa C 624/19 ha esteso il principio di parità trattamento e la efficacia diretta dell’art. 157 TFUE si estendono al «lavoro di pari valore», mettendo nero su bianco come il gender pay gap sia contrario allo spirito dei Trattati, non come principio generale (C. Giust., 22 novembre 2005, Mangold, causa C-144/04) ma quale regola, che prevale (anche) sulle fonti interne. Si tratta di una norma imperativa, la cui attuazione va in primo luogo considerata nel prisma della contrattazione: certamente le pattuizioni (collettive e individuali) non possono derogarvi e sarà compito del giudice nazionale rilevale l’eventuale nullità, anche d’ufficio.
Ma, anche quando con difficoltà l’art. 157 TFUE produca effetti diretti, essi saranno limitati alla sfera del lavoro subordinato, non invece a quello autonomo, sottoposto ai rigidi dettami dell’art. 101 TFUE che, nel regolamentare il mercato unico europeo e tutelare la concorrenza, limita e proibisce tutti gli accordi tra imprese (undertakings) volte a fissare i prezzi, limitando così la dinamica competitiva dei mercati. Secondo questa visione, la contrattazione collettiva è essa stessa una pratica che in qualche modo fissa dei prezzi (i salari), ammessa infatti solo a condizione che riguardi esclusivamente i lavoratori subordinati (employees) e sia finalizzata al miglioramento delle condizioni di lavoro dei beneficiari.
Ci si deve dunque interrogare su quali siano gli strumenti idonei a garantire la parità nel reddito da lavoro, anche oltre la subordinazione.

3. Pratiche antidiscriminatorie e trasparenza.
L’abbattimento delle asimmetrie informative è la condizione per un mercato del lavoro (autonomo e subordinato) non discriminatorio dal punto di vista del genere.
Da tempo la trasparenza è stata identificato come strumento più idoneo a combattere le disuguaglianze: nella p.a., come tecnica dell’anticorruzione; nell’impiego privato, al servizio della parità di trattamento. Essa è al centro del disegno europeo sin dalla direttiva 54/2006/CE (sulla parità di trattamento fra uomini e donne in materia di occupazione), cui avevano fatto immediato seguito la prima Risoluzione del Parlamento sulla parità di retribuzione tra donne e uomini (2008) e la seconda Risoluzione (2012), con cui si sollecitavano gli Stati membri a «colmare il divario retributivo tra le donne e gli uomini, a eliminare altri ostacoli alla partecipazione delle donne nel mercato del lavoro e a incoraggiare i datori di lavoro a porre fine alle discriminazioni sul luogo di lavoro nell’ambito degli sforzi volti a perseguire una strategia di inclusione attiva».
Si tratta però di formule di difficile implementazione, che nemmeno il divieto di discriminazioni previsto dall’art. 28, D.Lgs. n. 198/2006 (Codice delle pari opportunità) è riuscito a far diventare previsioni concretamente e sistematicamente applicate.
L’estensione del principio di uguale retribuzione per un lavoro di pari valore anche oltre le retribuzioni minime (garantite dal parametro della retribuzione sufficiente ex art. 36 Cost), ricomprendendovi qualsiasi trattamento retributivo e di carriera ,non è argomento di cui sia traccia nella giurisprudenza.
Da un lato, è nota la difficoltà di accesso alla giustizia da parte delle singole lavoratrici discriminate: benché la Dir. 78/2000/CE enfatizzi il ruolo delle organizzazioni della società civile che si occupano della tutela e affermazione dei diritti delle minoranze nella lotta contro la discriminazione, attribuendo a tali soggetti collettivi la legittimazione ad agire in giudizio, sia in nome di un ricorrente persona fisica, sia autonomamente . A oggi, la Cassazione si è confrontata in una sola occasione con questa problematica, risolta a seguito di rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia , a testimoniare come la presenza di uno strumento nell’ordinamento non comporti di per sé una effettiva tutela dei diritti sottesi.
Lo snodo fondamentale è rappresentato allora non da quel “che c’è” ma da quel “che manca”: nell’impiego privato difetta la possibilità tecnica di comparare i trattamenti, perché non si conosce la retribuzione complessiva del lavoratore comparabile ; nel pubblico impiego, dove pure i salari sono relativamente trasparenti (e in effetti il gender pay gap orario quasi non esiste) manca comunque un “procedimento di comparazione” che riguardi gli incarichi e la pesatura delle funzioni dirigenziali .
Nelle libere professioni non si tiene conto del genere nel rivendicare il diritto all’equo compenso , con il risultato che anche nelle professioni che rientrano nell’ambito di operatività della L. n. 172/2017 i differenziali di reddito per genere sono ancor più incisivi che nel lavoro subordinato .
Quando il livello di inquadramento non è identico, ogni comparazione è pressoché impossibile; ma anche quando lo è, alla lavoratrice è precluso accedere alle informazioni relative all’altrui salario, che - anzi - risulta essere tra i più intimi segreti tra datore e lavoratore, a volte assistito da un patto di riservatezza ad hoc ma spesso solo dalla convinzione in capo ai lavoratori che sia loro proibito condividere i dati relativi al proprio stipendio .
Nel lavoro autonomo, gli elementi mancanti sono più d’uno. Nei rapporti tra privati, non vi è comparazione ma libera trattativa tra le parti: sia nelle libere professioni (ove sono venute meno le tariffe professionali, su cui, in q. Rassegna, v. De Mozzi), sia nel lavoro autonomo puro (rispetto al quale sussiste la questione dell’operatività dell’equo compenso tra privati, su cui, in q. Rassegna, v. Mazzanti).
Rispetto alle pubbliche amministrazioni, si pone il duplice problema di valutare l’ammontare dell’offerta e/o il curriculum dell’offerente, in un modo circolare in cui alla lavoratrice autonoma / libera professionista risulta assai difficile accedere agli incarichi della p.a. e dall’altro la recente giurisprudenza amministrativa ha ammesso l’incarico “a titolo gratuito” a favore degli enti pubblici (su cui, in q. Rassegna, v. Favia e Jambrenghi Caputi).
Nella tensione verso la parità nel reddito da lavoro oltre la retribuzione, l’arma della trasparenza può dunque rivelarsi vincente e opportuna, agendo sulla comparazione delle posizioni in gioco, al fine di consentire una esplicitazione dei criteri in base a cui la scelta (tra idonee e idonei all’incarico) viene operata.
Innalzare la quantità di lavoro autonomo di qualità offerto alle donne conviene a tutti, non solo alla componente femminile del mercato del lavoro. La perdurante emergenza pandemica, che così duramente ha colpito autonome e libere professioniste, obbligano a un’attenzione peculiare rispetto al genere, per evitare che le disuguaglianze in essere si traducano in una recessione economica irreversibile.

 

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