TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA

Va premesso che il disabile non è necessariamente un lavoratore malato e che non necessariamente i portatori di handicap incorrono più facilmente, per tale loro stato, in assenze per malattia (si pensi ai disabili non vedenti, non udenti, focomelici, privi di arti, ai disabili affetti da deficit cognitivo).
Tuttavia, quando ciò accade, e il disabile proprio per tale condizione genera stati morbosi implicanti lunghi periodi di malattia, si pone il problema della legittimità o meno delle previsioni disciplinanti il periodo di comporto ai fini del licenziamento, contenute nella legge e nella contrattazione collettiva, che non operano alcun distinguo tra lavoratori normodotati e lavoratori portatori di disabilità.
I punti in cui si articolano le motivazioni delle pronunzie di merito che considerano illegittima una disciplina indifferenziata (v., tra le altre, App. Napoli 17 gennaio 2023 n. 168; App. Milano 3 settembre 2021 n. 301; App. Genova 21 luglio 2021 n. 211; App. Roma 20 novembre 2020, n. 2598; App. Roma 26 maggio 2021 n. 2194; App. Roma 27 novembre 2023 n. 3716; Trib. Verona 21 marzo 2021 n. 1098), che percorrono l’iter logico-giuridico recepito da Cass. 31 marzo 2023 n. 9095 e seguito dalla recente Cass. 21 dicembre 2023 n. 35747, sono:
a) la definizione di handicap rilevante ai fini dell’applicazione del diritto antidiscriminatorio è esclusivamente quella comunitaria, riconducibile al cd. modello bio-psicosociale, risultando superato il cd. modello biomedico, sicchè essa, da un lato, non comprende solo handicap congeniti o derivanti da incidenti, dall’altro, prescinde dal raggiungimento di una specifica soglia di inidoneità al lavoro, ma è il risultato dell’interazione tra menomazioni e disfunzioni durature di varia natura e gli ostacoli che si frappongono alla partecipazione del disabile alla vita sociale.
Pertanto, qualsiasi malattia, se non di breve durata e idonea a “ostacolare la piena ed effettiva partecipazione della persona … alla vita professionale su base di uguaglianza con altri lavoratori” può integrare una situazione di difficoltà meritevole di essere tutelata attraverso il diritto antidiscriminatorio: si tratta di una nozione talmente ampia da escludere solamente quelle condizioni che: a) non siano classificabili come menomazioni; b) non si ripercuotano sulla vita professionale; c) non abbiano carattere duraturo, in conformità a quanto enunciato dalla Convenzione dell’ONU del 13 dicembre 2006 sui diritti delle persone con disabilità;

* Lo scritto costituisce la rielaborazione della relazione tenuta al Convegno organizzato da Associazione Nazionale Forense di Roma il 13 Marzo 2024

b) l’applicazione del medesimo periodo di comporto ai lavoratori normodotati e a quelli disabili svantaggia questi ultimi generando una discriminazione indiretta, secondo i principi affermati dalla CGUE nelle sentenze HK Danmark e Conejero sul presupposto che per i secondi è molto più elevata la probabilità di assentarsi a causa della loro condizione di salute, con conseguente violazione dell’art. 2, comma 1, lett. b) D.lgs. n. 216/2003, dovendosi escludere la configurabilità dell’esimente generale prevista dall’art. 2, §2, lett. b, punto i), Dir. 2000/78/CE, atteso che la previsione di una medesima soglia di tollerabilità per lavoratori disabili e non denota palese irragionevolezza e sproporzione nella scelta dei mezzi con cui realizzare le finalità che l’istituto si pone;
c) il datore di lavoro ha applicato il medesimo termine di comporto e non ha adottato gli accomodamenti ragionevoli prescritti dalla Dir. 2000/78/CE e dall’art. 3, comma 3 bis, D.lgs. n. 216/2003 diretti a compensare lo svantaggio derivante dal computo di ogni sua malattia, con conseguente non configurabilità dell’esimente specifica prevista dall’art. 2, §2, lett. b, punto ii) Dir. 2000/78/CE;
d) la discriminazione “opera obiettivamente” e rende irrilevante la mancata conoscenza da parte del datore di lavoro della disabilità e della natura della patologia che ha determinato le assenze e il nesso causale con la disabilità;
e) il licenziamento intimato deve dichiararsi nullo perché discriminatorio ai sensi e per gli effetti dell’art. 18, commi 1 e 2, St. Lav., come novellato dalla L. n. 92/2012 o ai sensi dell’art. 2, commi 1 e 2, D.lgs. n. 23/2015, senza possibilità per il datore di ridurre le conseguenze risarcitorie ex artt. 1218 e 1227 c.c. invocando l’ignoranza dello stato di disabilità del dipendente ovvero del collegamento eziologico tra assenze per malattia e disabilità, anche se ascrivile alla mancanza di collaborazione del lavoratore.
In talune pronunzie si sottolinea pure che il contratto collettivo applicato non compensa tali svantaggi ove si limiti ad espungere dal calcolo del periodo di comporto permessi e assenze riconosciuti solo ai disabili che siano affetti da invalidità o inabilità tipizzate o superiori a determinate percentuali ovvero a prevedere misure – ad es. aspettativa non retribuita- contemplate in favore di ogni dipendente. Altre evidenziano come la tutela di alcune patologie soltanto o di alcune condizioni soggettive specifiche non risulta sufficiente ad escludere il rischio di un’ingiustificata disparità di trattamento dei lavoratori portatori di handicap (v. ad es. App. Genova 21 luglio 2021 n.211 e Trib. Verona 21 marzo 2021 n. 1098).
2.A tale orientamento se ne è contrapposto altro, che perviene a soluzione negativa, all’interno del quale possono individuarsi quattro principali percorsi argomentativi:
a) pronunzie che escludono l’operatività delle tutele antidiscriminatorie a fronte dell’adibizione del lavoratore disabile a mansioni compatibili con la sua condizione di salute, ritenendo che in questa ipotesi il disabile si trovi nella stessa posizione giuridica dei suoi colleghi (v. App. Palermo 14 febbraio 2022 n. 604; Trib. Bologna 19 maggio 2022, n. 230). Tale filone si rifà all’orientamento espresso dalla Suprema Corte secondo cui la malattia riconducibile allo stato di disabilità incide sul calcolo del comporto soltanto in caso di adibizione del lavoratore a mansioni incompatibili con il suo stato di invalidità ovvero se le assenze sono dovute a malattia cagionata dalla violazione degli obblighi ex art. 2087 c.c. ( v. Cass. 12/4/2017 n. 9395; Cass. 26/2/2015 n. 3931);
b) pronunzie che escludono l’operatività delle tutele antidiscriminatorie in base al rilievo secondo cui l’ordinamento nazionale già prevede un apparato di tutele compensative del particolare svantaggio derivante dalla previsione del medesimo periodo di comporto, come ad es. i permessi ex art. 33 legge n. 104/1992 ed il congedo straordinario di 30 giorni all’anno per cure ex art. 7 D.lgs. n. 119/2011, la priorità nell’accesso al lavoro agile o ad altre forme di lavoro flessibile, introdotta dal D.lgs. n. 105/2022, le numerose cautele che assistono il rapporto di lavoro dei soggetti disabili e che ne favoriscono l’inserimento lavorativo in un’ottica solidaristica, secondo una disciplina che impone al datore di lavoro un serie di oneri aggiuntivi, rispetto ai lavoratori non disabili, diretti a consentire l’espletamento della prestazione lavorativa dell’invalido in modo compatibile con il suo stato di disabilità ( v. App. Torino 3 novembre 2021 n. 604; Trib. Milano 23 gennaio 2017, n.1883; App. Palermo 14 febbraio 2022 n. 604 );
c) pronunzie che escludono l’operatività delle tutele discriminatorie a fronte di previsioni pattizie di un comporto prolungato che contempli l’ipotesi delle malattie gravi e croniche, puntando, più che sulla condizione di disabilità del lavoratore, sulla natura della patologia sofferta: l’esistenza di una norma contrattuale che tuteli in modo differenziato coloro che, a causa delle proprie condizioni di salute, siano maggiormente esposti al rischio di assenze vale di per sé a escludere la discriminazione indiretta discendente dall’applicazione dello stesso termine di comporto per i lavoratori normodotati e per quelli affetti dalle malattie specificamente individuate, dal momento che il maggiore rischio di assenze a causa di malattia invalidante gravante sui secondi è controbilanciato dal diritto a un periodo più lungo di conservazione del posto di lavoro. Ove ricorrano tali previsioni, non si potrà dire che la disciplina applicabile abbia del tutto pretermesso gli interessi del gruppo protetto, sicchè essa si dimostra ragionevole e proporzionata nella scelta dei mezzi, con conseguente sussistenza dell’esimente generale (v. App. Torino, 3 novembre 2021 n. 604; Trib. Lodi, 12 settembre 2022 n. 19; Trib. Milano 5 febbraio 2023).
c) pronunzie che escludono l’operatività delle tutele antidiscriminatorie qualora il lavoratore non comunichi la disabilità e l’imputabilità delle assenze alla disabilità, rilevando che il datore di lavoro, in assenza di tale conoscenza, non sarebbe nella condizione di predisporre i necessari accomodamenti ragionevoli (v. Trib. Milano 4/3/2021, n. 314; Trib. Vicenza 27 aprile 2022, n. 181; App. Torino 3 novembre 2021 n. 604; Trib. Bologna 19 maggio 2022 n. 230).
Tra le pronunzie di merito successive alla sentenza della Suprema Corte 31 marzo 2023 n. 9095, che fondano il decisum sul tale circostanza, va segnalata Trib. Padova 20 settembre 2023 in causa n. 249/2022 R.G., ove si afferma:
“nel caso di specie, parte ricorrente in particolare indica quali accomodamenti ragionevoli che la società datrice di lavoro, in adempimento degli obblighi imposti dal diritto eurounitario e nazionale, avrebbe dovuto adottare: la concessione delle ferie (40 giorni residui), l’avviso della possibilità di entrare in aspettativa, l'allungamento del periodo di comporto rispetto al termine stabilito dalla contrattazione collettiva, lo scorporo dai giorni di assenza di quelli dipesi dalla malattia che ha dato luogo alla disabilità (v. verbale d’udienza dell’8.9.2023);
- tanto chiarito, ai fini della decisione del caso di specie assume rilevanza assorbente il rilievo secondo cui qualunque accomodamento, affinché possa essere considerato “ragionevole” e quindi esigibile dal datore di lavoro, non può prescindere da una compiuta conoscenza della situazione di fatto presupposta;
- nel caso di specie, i certificati medici presentati dal ricorrente a giustificazione dei successivi periodi di assenza non recano indicazione della natura della patologia di volta in volta contratta dal lavoratore, ad eccezione dell'ultimo di essi, recante data del 17 luglio 2021, il quale solo fa menzione di un sospetto “adenocarcinoma polmonare”;
- oltretutto, essendo stato il ricorrente già invalido per preesistenti ragioni che nulla hanno a che vedere con la patologia neoplastica (distorsione rachide cervicale, ipertensione, ipercolesterolemia e altre patologie indicate nel doc. 16 di parte ricorrente), a maggior ragione il datore di lavoro non aveva modo di conoscere il motivo patologico che di volta in volta poteva aver determinato ciascuna assenza;
- nei certificati medici nemmeno risulta barrata la casella diretta a indicare se l'assenza fosse legata a malattia connessa allo stato di invalidità;
- come condivisibilmente ritenuto da taluni giudici di merito, il dovere del datore di lavoro di espungere dai giorni di assenza per malattia quelli riconducibili alla disabilità del dipendente presuppone conoscenza della ragione dell’assenza e detta conoscenza è possibile solo con la cooperazione del dipendente sul quale incombe l’onere di comunicare le assenze riconducibili alla disabilità […];
- è incompatibile con la “ragionevolezza” dell'accomodamento la pretesa che il datore di lavoro operi per così dire “al buio”, senza disporre di una conoscenza oggettiva, completa e certa della situazione presupposta a fondamento del suo agire. Ciò vale a maggior ragione se si considera che lo scomputo delle assenze dovute a disabilità dal numero complessivo delle assenze fatte dal lavoratore integra un'operazione radicalmente derogatoria rispetto alla lex contractus stabilita dal CCNL;
- non può essere trascurato, a questo proposito, che la certezza del diritto e la stabilità delle relazioni giuridiche sono anch'esse principi costitutivi degli ordinamenti nazionale ed eurounitario (ex multis, Corte Cost. n. 310/2013; n. 302/2010; n. 236/2009; n. 206/2009; n. 219/2014; n. 56/2015; n. 241/2019; n. 54/2019; n. 57/2019; Preambolo TUE; Preambolo CDFUE; ex multis, CGUE 12.11.1981, C-217/80, Meridionale Industria Salumi e a.; 2.2.2023, C-649/20, Spagna/Commissione; 14.4.2005, C-110/03, Belgio/Commissione);
- non può quindi essere condiviso il rilievo, sollevato dalla difesa ricorrente […] secondo cui in questo caso il licenziamento sarebbe comunque illegittimo in quanto la natura discriminatoria di un certo comportamento rileva nella sua oggettività, atteso che il principio di irrilevanza dell'intenzione o della consapevolezza di discriminare non può valere oltre i limiti in cui il soggetto interessato abbia omesso di adempiere al proprio dovere di cooperazione, e quindi l'inconsapevolezza del datore di lavoro sia conseguenza di tale inerzia […];
- nel caso di specie, il dovere di cooperazione cui il lavoratore era tenuto non risulta adempiuto”.

L’OPERARE OGGETTIVO DELLA DISCRIMINAZIONE

1.Conoscenza e conoscibilità della natura delle patologie determinanti le assenze.

Secondo un orientamento, recepito anche dalla Corte d’Appello di Roma (v. App. Roma 27 novembre 2023 n. 3716; App. Roma 26 maggio 2021 n. 2104; App. Roma 20 novembre 2020 n. 2598) e dal Tribunale di Roma (v. Trib. Roma, 20 novembre 2023 n.10408 e Trib. Roma 17 dicembre 2020, n.15365, Ord.), è irrilevante la conoscenza o la conoscibilità della natura delle patologie determinanti le assenze, atteso che nel diritto antidiscriminatorio vige il principio, affermatosi già nell’ambito del diritto dell’Unione e confermato dal legislatore nazionale, secondo cui la discriminazione ha portata oggettiva, rimanendo del tutto irrilevante ai fini del riconoscimento della sua illiceità l’intento soggettivo del soggetto agente.
L’indagine sulla esistenza di una discriminazione si concretizza, pertanto, nell’accertamento di un effetto, quello discriminatorio, e non di un motivo, sicché ad essa resta estranea qualsiasi indagine sui profili soggettivi, in quanto altrimenti si introdurrebbe indebitamente il requisito della colpevolezza quale elemento costitutivo delle responsabilità da comportamento discriminatorio del datore di lavoro.
Va subito detto che nel caso della sentenza Conejero (CGUE, 18 gennaio 2018, C-270/16), tutte le assenze per malattia risultavano comunicate “mediante certificati medici che specificavano le ragioni di tali assenze e la loro durata” (v. punto 17).
All’orientamento anzidetto, si è obiettato che la portata oggettiva della discriminazione concerne o la impossibilità di contrapporvi una distinta ed ulteriore giustificazione lecita dell’atto (secondo la distinzione operata in giurisprudenza rispetto al motivo illecito e/o ritorsivo) oppure la irrilevanza dell’animus nocendi.
Pertanto, quando si afferma che è irrilevante la conoscenza o la conoscibilità della natura della patologia che ha determinato le assenze e il nesso causale con la disabilità, perché la discriminazione opera “a prescindere dalla volontà illecita del datore di lavoro”, si sovrappone il tema dell’accertamento dell’animus nocendi- irrilevante- con quello, diverso ed antecedente, della conoscenza o conoscibilità del fattore discriminatorio.
Si aggiunge, poi, che per questa via si imputa al datore di lavoro la responsabilità per la illiceità di un atto derivante da un fatto che ignora né può conoscere: la diagnosi della malattia resta, infatti, sconosciuta al datore di lavoro per le prescrizioni in materia di riservatezza, attesa la distinzione tra certificato ed attestato di malattia ai fini del controllo datoriale; né egli può svolgere una indagine diretta sulla diagnosi della malattia del lavoratore, non rientrando evidentemente nello spazio dei cd. controlli difensivi e a siffatta indagine ostando il disposto dell’art. 5 St. lav.
Si sottolinea, inoltre, come questo orientamento giurisprudenziale, che ha ricevuto l’avallo della Suprema Corte con le citate sentenze n. 9095/2023 e n. 35747/2023, ipotizza una sorta di responsabilità oggettiva, non dissimilmente da quanto previsto dalla legge in caso di licenziamento della lavoratrice madre ex art. 54, comma 2, D.lgs. n. 151/2001.
Si dubita, però, della correttezza dell’adozione di tale schema in assenza di una corrispondente previsione legale e soprattutto in considerazione del fatto che l’evento malattia non è automaticamente riconducibile alla protezione contro la disabilità, evidenziando che la stessa lavoratrice madre ha l’onere di comprovare mediante apposito certificato la malattia determinata dalla gravidanza o dal puerperio e come tale espunta dal calcolo del periodo di comporto ai sensi dell’art. 20 D.P.R. n. 1026/1976.
Si evidenzia, infine, come tale orientamento non spiega come siano esigibili ragionevoli accomodamenti da chi non può conoscere la connessione tra assenze per malattia e disabilità.

2.Conoscenza e conoscibilità dello stato di disabilità.

Sul punto, la sentenza Conejero sembrerebbe confermare che lo stato di disabilità rientra in una dimensione oggettiva della discriminazione che consentirebbe di prescindere dalla sua conoscenza o conoscibilità.
Ciò in quanto il giudice del rinvio aveva affermato che il rischio statistico corso dai lavoratori con disabilità rileverebbe “indipendentemente dal fatto che il datore di lavoro sia o meno a conoscenza di tale condizione”, come accaduto nel caso in questione, nel quale il lavoratore aveva volontariamente rinunciato agli esami medici periodici organizzati dalla mutua cui era iscritto il datore di lavoro ( v. punti 21-22)
La Corte di Giustizia non svolge sul punto alcuna considerazione in diritto, ma il presupposto fattuale in questione non ha alterato le sue conclusioni.
Da opposto versante, si osserva che, nei casi in cui è ignota anche la disabilità, in quanto irrilevante nella gestione del rapporto, e ciò nonostante si affermi la responsabilità del datore di lavoro, si introduce una sicura forma di responsabilità oggettiva, fondata su fatti conoscibili ed accertabili solo ex post, che impedisce il corretto computo del comporto e preclude pure l’ipotetico adempimento dell’obbligo di adottare accomodamenti ragionevoli, quale possibile giustificazione della adozione della norma o prassi solo apparentemente neutra.
Si aggiunge che, ove fosse presente una regolazione collettiva che assicuri al lavoratore disabile un grado di protezione che impedisca o compensi lo svantaggio che conseguirebbe al computo di ogni sua malattia, la conoscibilità della disabilità e della natura delle patologie sarebbe assolutamente imprescindibile.
Peraltro, che il problema esista è confermato dalle stesse conclusioni dell’Avvocato generale Sharpston nella causa Conejero, il quale ha messo in luce come il dovere dei datori di lavoro di predisporre degli accomodamenti ragionevoli, nei limiti definiti dall’art. 5 della direttiva 2000/78/CE, non possa trovare applicazione nel caso in cui il datore di lavoro non sia a conoscenza della condizione di disabilità del proprio dipendente (v. punto 35 e ss.); quindi, a rilevare, per l’Avvocato generale, è la ”ragionevole possibilità di riconoscere la condizione di disabilità” da parte del datore di lavoro.
Anche il Comitato sui diritti delle persone con disabilità, che è l’organo che ha il compito di vigilare sull'applicazione della Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità, approvata nel 2006, distingue la dimensione della conoscenza o conoscibilità dal fattore protetto contro la discriminazione da quello della volontà/intenzione di discriminare.
Secondo tale organismo, che dovrebbe orientare l’interpretazione dell’art. 3, comma 3 bis, del D.lgs. n. 216 del 2003 in ragione del rinvio operato da tale disposizione alla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, l’obbligo di adottare soluzioni ragionevoli sussiste quando il datore di lavoro “should have realized that the person in question had a disability that might require accomodations to address barries” ( “avrebbe dovuto rendersi conto che la persona in questione aveva una disabilità che avrebbe potuto richiedere sistemazioni per affrontare barriere”). Ne consegue che, secondo il Comitato, il fattore di discriminazione per disabilità opera a prescindere dall’accertamento della volontà illecita del datore di lavoro, ma non dalla verifica della conoscenza o conoscibilità della condizione di svantaggio del lavoratore.
In quest’ottica, se non può rilevare la omessa conoscenza della disabilità imputabile al datore di lavoro, ad es. allorquando quest’ultimo non abbia disposto l’effettuazione delle viste periodiche obbligatorie oppure abbia omesso di prendere in esame certificazioni mediche e documentazione, pure inviategli, da cui emerge la disabilità e le patologie ad essa connesse, ben diversa è l’ipotesi in cui abbia incolpevolmente ignorato la disabilità del proprio dipendenze ed abbia perciò omesso di adottare soluzioni ragionevoli.
Pertanto, ferma restando la natura obiettiva e funzionale del divieto di discriminazione e dell’assenza nella direttiva di previsioni che gravino i lavoratori dell’onere di rendere nota la loro disabilità, appare arduo ritenere che il datore di lavoro, incolpevolmente del tutto ignaro della disabilità del proprio dipendente, sia non di meno tenuto ad apprestare quelle soluzioni ragionevoli che, in relazione al caso concreto, consentirebbero al lavoratore o alla lavoratrice con disabilità di partecipare alla vita lavorativa in condizioni di parità con gli altri lavoratori.
Proprio la natura degli accomodamenti ragionevoli -che richiedendo una verifica caso per caso che tenga conto delle specifiche esigenze di tutela del lavoratore interessato e imponendo consequenzialmente un facere in capo al datore di lavoro- presuppone, infatti, necessariamente la pregressa conoscenza della specifica condizione di disabilità del lavoratore.
Anche la previsione che ammette che nell’ambito delle discriminazioni indirette il datore di lavoro possa fornire la prova liberatoria circa la irragionevolezza degli accomodamenti rende evidente come il presupposto sia la conoscenza della disabilità o quantomeno la possibilità di conoscerla secondo l’ordinaria diligenza.
Una diversa interpretazione non solo sarebbe contraria alla impostazione adottata dal legislatore europeo nel descrivere la discriminazione indiretta fondata sulla disabilità, ma vanificherebbe anche la funzione fisiologicamente assegnata all’obbligo di accomodamenti ragionevoli, la cui previsione è stata introdotta al fine di dotare l’apparato antidiscriminatorio di uno strumento efficace per il superamento degli ostacoli che si frappongono alla realizzazione della piena uguaglianza tra gli individui. Se, infatti, si ritenesse che la conoscenza o la conoscibilità della condizione di disabilità da parte del datore di lavoro non avesse alcuna rilevanza, privando così il datore di lavoro della possibilità di adempiere l’obbligo di adottare soluzioni ragionevoli, l’operatività di quest’ultimo verrebbe vanificata e gli accomodamenti ragionevoli verrebbero ad assumere rilevo solo ed esclusivamente nella fase patologica della loro mancata adozione.
Postulare almeno la conoscibilità della disabilità non ha nulla a che vedere con la questione relativa alla necessità di accertare un profilo di colpa in capo al datore di lavoro, negando di conseguenza l’operatività oggettiva delle discriminazioni.
Tenuto conto dei limiti che nell’ordinamento ostacolano la conoscibilità della condizione psico-fisica del dipendente e dell’eziologia delle patologie, si è asserito, poi, che non è concretamente esigibile una condotta del datore di lavoro volta a verificare in via autonoma la condizione di disabilità del lavoratore e la riconducibilità delle assenze alle patologie invalidanti, dovendosi piuttosto configurarsi al riguardo un onere del lavoratore alla stregua delle clausole generali di correttezza e buona fede ex art. 1175 e 1375 c.c., tra l’altro agevolmente assolvibile dal momento che il D.M. 18 aprile 2012 ha introdotto la possibilità di indicare nei certificati, barrando la corrispondente casella, se l’assenza dal lavoro sia dovuta ad uno stato patologico connesso alla situazione di invalidità riconosciuta ( v. App. Torino 3 novembre 2021 n. 604, Trib. Bologna 19 maggio 2022 n. 230 e Trib. Verona 27 aprile 2022).
Altro orientamento distingue tra conoscenza dei motivi delle singole assenze computate ai fini del comporto e conoscenza del cd. fattore di rischio (v. App. Firenze 4 novembre 2021, n. 760), asserendo che il datore di lavoro a conoscenza della disabilità avrebbe l’onere di verificare autonomamente la riconducibilità delle assenze alle patologie invalidanti del ricorrente, senza che questo sia tenuto a specificarne la connessione con la sua disabilità.
Il fatto che nel certificato medico inviato dal lavoratore o dalla lavoratrice con disabilità non sia stata barrata la casella corrispondente alla dicitura “stato patologico sotteso o connesso alla situazione di invalidità riconosciuta”, così come previsto dal D.M. Salute 18 aprile 2012, non potrebbe essere eccepito dal datore di lavoro per sostenere l’impossibilità di ricondurre le assenze allo status di disabilità, tenuto conto che si tratta di un adempimento che spetta unicamente al medico compiere sulla base di valutazioni tecnico scientifiche, che questo può essere effettuato solo nelle ipotesi in cui vi sia una attestazione di invalidità da parte delle ASL competenti e che molto spesso la diagnosi è sufficiente a ricondurre l’assenza alla condizione di disabilità, a nulla rilevando che di questa il datore di lavoro venga normalmente a conoscenza solo in sede di impugnazione di recesso.
Si evidenzia, inoltre che ipotizzare l’onere dal lavorator di rendere edotto il datore di lavoro della connessione tra assenze e condizione di disabilità sarebbe conclusione non in linea con il principio di parziale inversione dell’onere della prova che vige in questa materia, in forza del quale il lavoratore, dopo aver provato la propria condizione di disabilità, deve semplicemente allegare la sussistenza di fatti idonei a fondare la presunzione dell’esistenza di una condotta discriminatoria, determinando così in capo al datore di lavoro l’onere di fornire la prova liberatoria.
Non mancano pronunzie secondo cui la conoscibilità della disabilità da parte del datore di lavoro potrebbe ritenersi provata sulla base degli elementi indiziari rinvenibili nel fatto oggettivo di assenze per malattia protrattesi per lunghi periodi, o per un lungo periodo, che fanno superare il comporto (v. App. Milano 20 febbraio 2023 n. 182 e Trib. Milano 2 maggio 2022, Ord. in causa n. R.G.356/2022).
Si afferma, in particolare, che anche ai sensi del disposto dell’art. 1218 c.c. il datore di lavoro, a fronte delle lunghe assenze per malattia, che poi determinano il superamento del periodo di comporto, dovrebbe, da un lato, fornire “la prova della sua piena impossibilità di attivarsi”; dall’altro, quantomeno, appurare in maniera conforme ai principi di correttezza e buona fede “il reale stato di salute del dipendente e la portata delle complicazioni che all’evidenza lo affliggevano”, soluzione questa, imposta anche in ragione delle difficoltà create all’organizzazione aziendale proprio a cause delle assenze del dipendente
Altre pronunzie ritengono sufficiente l’avvenuta conoscenza da parte del datore sulla base di comunicazioni inviategli successivamente al recesso, come ad es. Trib. Lecco ( Ord. 22 giugno 2022 in causa n. R.G.21/2022), la quale ha ritenuto che il datore di lavoro aveva appreso della gravità della malattia, integrante una condizione di handicap, mediante l’atto di impugnazione del recesso, ove il lavoratore aveva espressamente evidenziato la correlazione tra le assenze e la propria disabilità che consentiva lo scorporo dal periodo di comporto delle stesse.
Conseguentemente, il datore di lavoro, in ragione di tale consapevolezza, ben poteva revocare il recesso ai sensi dell’art. 18, comma 10, L. n. 300/1970, quale accomodamento ragionevole.
Tra le pronunzie di merito successive all’intervento della Suprema Corte, che recepiscono l’orientamento secondo cui “Il licenziamento attuato facendo applicazione senza correttivi ad un lavoratore portatore di disabilità di una previsione collettiva sul comporto che non contiene alcun correttivo legato alla disabilità va qualificato come discriminatorio, e conseguentemente dichiarato nullo, a prescindere da ogni indagine sulla consapevolezza in capo al datore di lavoro della discriminazione o della possibilità di acquisirla” si segnalano:
- Trib. Torino 2 luglio 2023 n. 12716, Ord, relativo al caso di lavoratrice che era stata riconosciuta invalida civile al 50% e portatrice di handicap ex art. 3, comma 1, legge n. 104/1992, la quale aveva esplicitamente ammesso di non aver mai comunicato al datore di lavoro tali circostanze. Il Tribunale, dopo aver rilevato che “gli elementi in atti confortano tale tesi difensiva: effettivamente, la ricorrente non ha consegnato la documentazione da cui, come chiarito al punto 25, si evince la sua disabilità e non ha comunicato nulla ai suoi superiori o alla direzione aziendale”, sicchè “deve ritenersi che la società convenuta abbia effettivamente intimato il licenziamento nell’ignoranza sia che la ricorrente si trovava in una condizione di disabilità sia del fatto che quest’ultima era alla base di – quantomeno – una parte delle assenze dal lavoro considerate nel calcolo del comporto”, ha sostenuto che “tale circostanza non è tuttavia idonea ad escludere la discriminatorietà e la conseguente nullità del licenziamento e della conseguente delibera di esclusione da socia”. A sostegno di tale conclusione ha invocato la sentenza n. 9050/2023 delle Corte di Cassazione, rilevando che la stesa aveva confermato quanto già affermato da Cass. n. 6575/2016 e cioè che “la discriminazione – diversamente dal motivo illecito – opera obiettivamente, ovvero in ragione del mero rilievo del trattamento deteriore riservato al lavoratore quale effetto della sua appartenenza alla categoria protetta, ed a prescindere dalla volontà illecita del datore di lavoro”.
Il Tribunale di Torino ha aggiunto, infine, che “L’art. 15 L. n. 300/1970 e l’art. 3 L. n. 108/1990, in effetti, non contengono alcuna previsione che autorizzi a tener conto dell’atteggiamento soggettivo di chi pone in essere il comportamento discriminatorio da essi sanzionato con la nullità e, come è stato efficacemente sottolineato dalla giurisprudenza di merito, al “carattere imperativo del principio comunitario di parità di trattamento”.
- Trib. Milano 20 luglio 2023, n. 2641, la quale afferma che “la materia antidiscriminatoria si connota per l'obiettiva ricorrenza di situazioni di significativo disequilibrio tra il datore di lavoro e il lavoratore portatore, quest'ultimo, dei fattori di protezione riconosciuti dall'ordinamento giuridico: in ragione di questo specifico rilievo, l'ordinamento dell'Unione Europea – anche per come declinato dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia – e, conseguentemente, l'ordinamento nazionale riconoscono rilevanza oggettiva alla discriminazione.
Non è dunque decisivo […] l'assunto di parte ricorrente di non essere stata messa a conoscenza del motivo delle assenze del lavoratore, perché i certificati medici delle assenze inoltrati al datore di lavoro non indicavano la specifica malattia a causa dell'assenza. Va, invero, confermato che la discriminazione - diversamente dal motivo illecito - opera obiettivamente, ovvero in ragione del mero rilievo del trattamento deteriore riservato al lavoratore, quale effetto della sua appartenenza alla categoria protetta, ed a prescindere dalla volontà illecita del datore di lavoro.
Sicché, è del tutto irrilevante che i certificati medici trasmessi dal medico di base rechino o meno l'indicazione dello “stato patologico sotteso o connesso alla situazione di invalidità riconosciuta” (cfr. doc. 9, fascicolo ricorrente): assoggettare l'applicazione delle tutele riservate ai soggetti portatori di questo specifico fattore di rischio alla ricorrenza, o all'adempimento, di formalità di qualsivoglia natura significherebbe creare un vulnus oltremodo severo allo statuto di protezione previsto dall'ordinamento, frustrandone ratio ed efficacia.
Peraltro, nel caso di specie, a fronte delle ripetute e protratte assenze della lavoratrice e, soprattutto, a seguito dei reiterati giudizi di temporanea inidoneità alla mansione, non può ragionevolmente affermarsi che il datore di lavoro non fosse in grado di avvedersi della particolarità della situazione della lavoratrice e, in ogni caso, di procedere con tutte le verifiche del caso prima di intimare il licenziamento”.
-Trib. Milano 25 agosto 2023 n. 2756, la quale afferma: ” La circostanza che la società datrice non fosse a conoscenza della condizione della ricorrente si palesa del tutto irrilevante stante la rilevanza puramente oggettiva di tale stato.
Per la medesima ragione, si palesa inconferente, ai fini decisori, la mancata “spunta” da parte del medico di base, della casella, presente sui certificati medici rilasciati, di “stato patologico sotteso o connesso alla situazione di invalidità riconosciuta”.
-Trib. Como 29 giugno 2023, n. 161.
Va, tuttavia, sottolineato che la Suprema Corte, nel respingere il motivo di impugnazione formulato sul punto dall’Azienda, pur affermando che la discriminazione opera in modo oggettivo ed è irrilevante l’intento soggettivo del suo autore, ha comunque implicitamente rilevato che sussistevano elementi di prova della conoscenza della situazione di disabilità del lavoratore dal datore di lavoro ( v. Cass, n. 9095/2023, punto 29).
Nella successiva sentenza n. 35747/2023 i Giudici di legittimità, pur ribadendo che la discriminazione opera in modo oggettivo, hanno avvertito l’esigenza di soffermarsi in maniera più puntuale sulla questione, affermando:
“quanto alla conoscenza dei motivi delle assenze del lavoratore da parte dell’Azienda, nella presente causa risulta altresì, in base alla stessa sentenza della Corte di appello di Milano qui impugnata, che lo stato di disabilità del lavoratore fosse un dato pure conosciuto dal datore di lavoro per essersi egli difeso nel giudizio sostenendo di aver sempre adibito il lavoratore a mansioni compatibili con il suo stato di salute (pag. 13, rigo 18 della sentenza).
Pertanto, risulta comprovato nel presente giudizio che al datore di lavoro ricorrente fossero note sia la situazione di assenza ripetuta del lavoratore per malattia, sia la sua condizione di disabilità (e pertanto il suo rischio di assentarsi maggiormente dal lavoro per morbilità).
Si tratta di fatti certi, specifici e obiettivamente verificabili in virtù dei quali si può dunque ragionevolmente affermare – contrariamente a quanto si sostiene reiteratamente nei motivi di ricorso - che il medesimo datore di lavoro potesse senz’altro prevedere, attraverso una valutazione combinata di entrambe le circostanze, che la condizione di disabilità del lavoratore si ponesse, come probabile fattore causale, all’origine delle assenze dal lavoro di cui si discute; sicchè il datore, in base a diligenza e buona fede, fosse pure tenuto ad agire sul piano della disciplina del rapporto ed organizzativo - anche attraverso “soluzioni ragionevoli” - per neutralizzarne o ridimensionarne la portata ai fini del computo del comporto del lavoratore disabile, evitando così che si producesse il risultato discriminatorio vietato di cui si è discusso nella causa.
D’altro canto, sempre i Giudici di legittimità sembrano escludere che la illeceità del licenziamento per la mancata adozione di accomodamenti ragionevoli possa fondarsi su una sorta di responsabilità oggettiva, li dove, sia pure con riguardo al licenziamento per sopravvenuta inidoneità alle mansioni assegnate, affermano:
“Al fine di non sconfinare in forme di responsabilità oggettiva, per verificare l'adempimento o meno dell'obbligo legislativamente imposto dall'art. 3, comma 3 bis, D.lgs. n. 216 del 2003, occorre avere presente il contenuto del comportamento dovuto, così come definito nel paragrafo precedente, e che esso si caratterizza non tanto, in negativo, per il divieto di comportamenti che violano la parità di trattamento, quanto piuttosto per il suo profilo di azione, in positivo, volta alla ricerca di misure organizzative ragionevoli idonee a consentire lo svolgimento di un'attività lavorativa, altrimenti preclusa, a persona con disabilità” ( v. Cass 9/3/2021 n. 6497).

Gli accomodamenti ragionevoli

1.Va ricordato che nel caso di discriminazione indiretta, coesistono:
una giustificazione di carattere generale, prevista dall’ art..2, §2, lett. b, punto i), Dir. 2000/78/CE ossia perseguimento di una finalità legittima- ad es. lotta all’assenteismo sul lavoro per eccessiva morbilità- purché i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari e, quindi, proporzionati;
essa fa riferimento all’ipotesi in cui lo svantaggio per un determinato gruppo di soggetti sia la conseguenza dello strumento adottato per perseguire, con mezzi appropriati e necessari, una finalità legittima;
una giustificazione di carattere specifico, prevista dall’art. 2, §2, lett. b) punto ii, Dir.2000/78/CE ossia introduzione, in forza della legislazione nazionale, dell’obbligo a carico del datore di lavoro di adottare soluzioni o accomodamenti ragionevoli per ovviare agli effetti svantaggiosi provocati dalla disposizione, dal criterio o dalla prassi apparentemente neutra, salvo che non comportino oneri finanziari sproporzionati.
Essa concerne solo e proprio la discriminazione indiretta fondata sulla disabilità.
2.Secondo una opzione interpretativa, le due previsioni devono essere lette congiuntamente, sicchè l’accomodamento ragionevole potrà essere individuato solo in correlazione con la finalità legittima e i mezzi adeguati a perseguirla; tale finalità potrà produrre i suoi effetti giustificativi solo all’esito dell’introduzione degli accomodamenti ragionevoli.
Quindi, se si reputa necessario il rispetto di ambedue le scriminanti, non sarà sufficiente la sussistenza dell’esimente generale, ma andrà fatto un confronto con l’obbligo di soluzioni ragionevoli da parte del datore di lavoro, valutando se questi avrebbe potuto scomputare ulteriori assenze e/o adottare interventi di altro tipo.
Tuttavia, sia le citate sentenze della Suprema Corte (Cass. n. 9095/2023 e Cass. 35747 /2023) che le pronunce di merito intervenute sul punto sembrano considerare gli accomodamenti ragionevoli come una giustificazione autonoma, indipendente dalla verifica negativa dell’esistenza di una finalità legittima.
Tale opzione potrebbe trovare conforto nell’uso da parte della Direttiva della congiunzione disgiuntiva “o” tra il punto i) e il successivo punto ii).
Di particolare interesse appare, sulla questione, la sentenza della CGUE 11 settembre 2019, C-397/18, DW c. Nobel Plastiques Iberica SA, che si caratterizza proprio per aver messo esplicitamente in relazione per la prima volta il divieto di discriminazione indiretta e l’obbligo di accomodamenti ragionevoli, attribuendo a questi ultimi il ruolo di causa di giustificazione.
Secondo la Corte, infatti, se ai sensi dell’art. 2,§ 2, lett. b) punto ii) il giudice del rinvio dovesse giungere alla conclusione che il datore di lavoro di DW ha adottato le misure appropriate e che quini ha messo in atto le soluzioni ragionevoli, ai sensi dell’art. 5 della direttiva 2000/78/CE non si dovrebbe ritenere che un licenziamento fondato su criteri di selezione della produttività inferiore ad un determinato livello, della minore polivalenza nei posti di lavoro dell’impresa nonché di un elevato tasso di assenteismo costituisca una discriminazione indiretta fondata sulla disabilità ai sensi dell’art. 2, §2, punti ii), di tale direttiva.
3.È il considerando n. 20 della direttiva a specificare, in via esemplificativa, cosa deve intendersi per “misure appropriate”, individuando misure sia di carattere strutturale che organizzativo come la sistemazione dei locali, l’adattamento delle attrezzature, i ritmi di lavoro, la ripartizione dei compiti o la fornitura dei mezzi di formazione o inquadramento. Allo stesso modo, per poter determinare se le misure in questione diano o meno luogo a oneri finanziari sproporzionati, il considerando n. 21 impone di tenere conto “in particolare”- e, quindi, con una elencazione che, anche in questo caso, non assume i caratteri della tassatività - “dei costi finanziari o di altro tipo che esse comportano, delle dimensioni e delle risorse finanziarie dell’organizzazione o della impresa e della possibilità di ottenere fondi pubblici o altre sovvenzioni”. A delineare i tratti distintivi delle soluzioni ragionevoli, analogamente a quanto avvenuto con riferimento alla delimitazione della nozione di disabilità di cui all’art. 1 della direttiva, è intervenuta la Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità che all’art. 2, comma 4, ha fatto riferimento a tutte “le modifiche e gli adattamenti necessari ed appropriati che non impongano un onere sproporzionato o eccessivo adottati, ove ve ne sia necessità in casi particolari, per garantire alle persone con disabilità il godimento e l’esercizio, su base di uguaglianza con gli altri, di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali”
4. Nei casi in cui siano note sia la disabilità del dipendente sia la sua connessione con le patologie che determinano le assenze, subentra l’ulteriore interrogativo avente ad oggetto l’individuazione degli accomodamenti ragionevoli esigibili dal datore di lavoro, ossia delle soluzioni che il datore di lavoro, data per scontata l’adibizione del lavoratore a mansioni compatibili, deve adottare per evitare comunque la discriminazione indiretta derivante dal calcolo, nel periodo di comporto, delle malattie imputabili a disabilità.
Dalla sentenza Conejero, che invita il giudice del rinvio a verificare tali soluzioni, si evince che nell’ottica del giudice europeo esse potrebbero costituire una compensazione dello svantaggio patito dal lavoratore disabile proprio in quanto idonee a escludere la neutralizzazione, ai fini del calcolo del comporto, di alcuni periodi di malattia.
In questa fattispecie di recesso gli accomodamenti, in realtà, non si riferiscono alla disabilità ma proprio alla malattia.
A differenza che nelle ipotesi di licenziamento per sopravvenuta inidoneità alle mansioni assegnate, nel licenziamento per superamento del periodo di comporto, poiché l’accomodamento deve riguardare un evento come la malattia, integralmente impeditivo della prestazione e non ascrivibile al datore di lavoro, l’unico intervento da parte di quest’ultimo può riguardare il tempo, ossia la gestione del decorso del periodo di comporto.
Non sembra che a diversa conclusione possa pervenirsi sulla base di quanto affermato nella sentenza delle CGUE HK Danmark, ove è indicato come ragionevole accomodamento la riduzione dell’orario di lavoro, poiché in quel caso specifico, premesso che nella nozione di portatore di handicap rientra anche chi può lavorare in modo temporalmente limitato a causa della malattia, l’omessa adozione di un provvedimento di riduzione dell’orario avrebbe finito per costituire la causa dell’assenza.
Il problema della individuazione degli accomodamenti ragionevoli è ulteriormente aggravato dal fatto che la regola generale è stata elaborata su sistemi quali quello spagnolo e danese che sono incentrati su prescrizioni dettate dal legislatore e particolarmente restrittive ( l’ordinamento spagnolo consente il recesso a fronte di assenze non continuative e pari approssimativamente a 15 giorni di lavoro in due mesi consecutivi, nonché ad altrettanti giorni nell’anno precedente), lì dove nel sistema italiano la fonte legale si limita ad autorizzare il recesso al decorso di un periodo di tempo la cui individuazione è tuttavia affidata alla contrattazione collettiva, che interviene con una regolazione di dettaglio, per lo più a precetto specifico, che disciplina anche le varie modalità e condizioni di computo e che prevede di regola termini interni molto più ampi di quelli previsti dalle legislazioni spagnola e danese.
La Cassazione nella sentenza n. 9095/2023 si limita a ricordare che l’introduzione di accomodamenti ragionevoli avrebbe consentito di assicurare la parità di trattamento tra disabili e normodotati, ma si tratta di affermazione generica, non declinata rispetto alla specifica vicenda esaminata, che pure concerneva lavoratore disabile portatore di handicap ex art. 3, comma 1,legge n. 104/1992 e con invalidità del 75%, che gli avrebbe consentito di fruire delle assenze per cure di 30 giorni al mese previste dall’art. 7 D.lgs. n. 119/2011, escluse dal comporto.
5.Le soluzioni ipotizzabili potrebbero essere:
a) espunzione dal comporto di ogni periodo di malattia connesso allo stato di disabilità, con l’effetto di massimo adattamento alla situazione concreta ma di minima considerazione delle esigenze di certezza cui pure le disposizioni sul comporto sono finalizzate.
Alcune pronunzie di merito ipotizzano tale misura (v. App. Napoli 17 gennaio 2023 n. 168, Trib. Parma 9 gennaio 2023 n. 1, Trib. Mantova 22 settembre 2021, n. 126; App. Roma 26 maggio 2021, n. 2194; App. Roma 20 novembre 2020 n. 2589, ove si afferma che tra “le misure adeguate, al fine di evitare la discriminazione indiretta, ben può essere ricompresa la sottrazione dal calcolo del comporto dei giorni di malattia ascrivibili all’handicap”), evidenziandosi che anche un comporto significativamente più lungo per i disabili non impedirebbe la discriminazione, ritenendo non sufficiente da parte del datore di lavoro l’applicazione del solo allungamento del periodo di comporto, pure previsto dal contratto collettivo. ( v. Trib. Lecco 27 giugno 2022. Ord. in causa n. R.G. 21/2022).
In particolare, App. Genova 21/7/2021 n. 211, afferma: “L’esclusione dal computo del periodo di comporto dei giorni di assenza per malattie connesse allo stato di handicap dei lavoratori non costituisce un carico eccessivo per il datore di lavoro che ha a disposizione tutta una serie di misure e sostegni per poterlo sopportare, non ultimo quello di controllare in modo costante l’idoneità alla mansione del lavoratore disabile; fatta tale premessa, la conseguenza è che è discriminatorio non contemplare un regime differenziato del periodo di comporto per malattie connesse allo stato di handicap, equiparando in modo non consentito lo stato di handicap (caratterizzato da una menomazione permanente non destinata alla guarigione ma, nella maggior parte dei casi, al peggioramento dei postumi) ad una comune 'malattia' (intesa come episodio di inabilità temporanea destinato alla guarigione)”. La Corte genovese specifica che la soluzione in questione non sarebbe eccessivamente onerosa dal momento che l’art. 10, L. n. 68/1999 consente al datore di lavoro di richiedere, in caso di aggravamento della patologia, l’accertamento della compatibilità delle mansioni affidate con lo stato di salute del lavoratore; che, in caso di accertata incompatibilità, il datore di lavoro può sospendere il dipendente senza retribuzione per tutto il tempo in cui tale incompatibilità persista; che, inoltre, il CCNL ANSTE applicabile, nel disciplinare il trattamento economico del lavoratore assente per malattia, prevede regole precise tali da contenere l’onere economico in capo all’azienda per determinati limiti temporali, superati i quali il lavoratore malato conservava solo il diritto a mantenere il posto di lavoro senza retribuzione.
Altre pronunzie, che si muovono in questa ottica, asseriscono che il datore di lavoro, in ottemperanza all’obbligo di adottare accomodamenti ragionevoli, dovrebbero dare la prova di aver escluso dal computo del termine i periodi di assenza che fossero conseguenza immediata e diretta della patologia causa di disabilità, ovvero dovrebbe provare l’impossibilità di adempiere a tale obbligo: ad esempio dimostrando che l’intero periodo di assenza imputato al lavoratore fosse indipendente dalla condizione di disabilità. ( v. Trib. Milano 12 giugno 2023).
Tra le più recenti pronunzie intervenute sulla questione, si segnalano:
-App. Milano 11 luglio 2023 n. 758, la quale, dopo aver rilevato che “nel caso di specie, l'analisi delle certificazioni mediche prodotte, unitamente alla documentazione sanitaria in atti, prova l'effettività anche in concreto del maggior rischio, per il disabile, di doversi assentare per malattia rispetto al lavoratore non disabile, posto che …. una quota determinante delle assenze per malattia è riferibile alle patologie da cui Gr. è affetta e che concorrono a determinare la sua condizione di disabilità” ha asserito che i giorni di assenza dovuti a patologie sottese o connesse allo stato di invalidità – determinato da insufficienza renale cronica che ha determinato il trapianto di rene- “devono essere sottratti al numero complessivo delle assenze per malattie e sono decisivi al fine di escludere superamento del periodo di comporto”
- Trib. Milano 25 agosto 2023 n. 2756
-App. Milano 26 maggio 2023, n. 339, la quale afferma pure che irrilevante il fatto “che il licenziamento sia intervenuto dopo 480 giorni di assenza, ossia dopo un periodo eccedente la durata del comporto contrattuale (15 mesi, equivalenti a 450 giorni).
La circostanza, discendente da una scelta discrezionale della datrice di lavoro, non esigibile né prevedibile ex ante, non è idonea ad escludere la discriminazione indiretta a danno dei disabili sotto il profilo qui in esame, atteso che la disciplina del diritto alla conservazione del posto di lavoro in caso di malattia è rimessa alle parti sociali, alle quali è demandato ex art. 2110, comma 2, c.c., il compito di quantificare il periodo decorso il quale il datore di lavoro può esercitare il recesso”.
Secondo la Corte, dunque, la discriminazione indiretta non è evitata dal datore di lavoro anche se egli di propria iniziativa abbia riconosciuto al disabile un più ampio periodo di comporto.
-Trib. Messina 10 ottobre 2023 n. 1757, che afferma la nullità del licenziamento, in quanto “le assenze per malattia cumulate dalla ricorrente non sono computabili quali giorni di malattia ai fini del calcolo del periodo di comporto, in quanto tutte connesse alla grave patologia invalidante e documentate da certificazione medica tempestivamente - e pacificamente -trasmessa alla datrice di lavoro in formato cartaceo”.
Altro orientamento asserisce che la scomputo generalizzato di tutte le assenze riconducibili alla disabilità non può essere considerato un accomodamento ragionevole ed esigibile in quanto esso finisce per addossare al datore di lavoro una funzione di assistenza sociale che l’art. 38 Cost. riserva allo Stato e gli impone di mantenere in forza un dipendente impossibilitato a svolgere la prestazione per un tempo sostanzialmente indefinito, lì dove il diritto alla conservazione del posto di lavoro ex art. 2110, comma 2, c.c. incontra il proprio limite nella possibilità per il datore di lavoro di trarre una utilità dalla prestazione entro un lasso temporale quantomeno predeterminabile, al fine di contenere i costi economici e le ripercussioni organizzative derivanti dall’assenza del lavoratore.
Tale soluzione finirebbe quindi, per rendere evanescente la distinzione tra l’impossibilità temporanea della prestazione, alla base della disciplina della malattia, e l’impossibilità definitiva, alla base del regime della sopravvenuta inidoneità al lavoro, oltre ad essere incompatibile con il 17° considerando della Dir. 2000/78/CE, il quale non prescrive il mantenimento dell’occupazione di un individuo non capace o non disponibile ad effettuare le funzioni essenziali del lavoro in questione (v. Trib. Lodi 12 settembre 2022 n.19; Trib. Venezia 7 dicembre 2021 n.6273; Trib. Vincenza 27 aprile 2022 n. 181).
Detto che la previsione del 17° considerando sembra riferirsi più alla fattispecie della totale e permanente sopravvenuta impossibilità della prestazione, suggerendo anzi l’inciso finale “fermo restando l’obbligo di prevedere una soluzione appropriata per i disabili” la natura speciale della tutela accordata a questi ultimi, va comunque sottolineato che la soluzione dello scorporo generalizzato non sembra ipotizzata neppure dalla Suprema Corte nella sentenza n.9095/2023 cit, lì dove afferma che la tutela differenziata da apprestare ai lavoratori disabili non comporta “che un limite massimo in termini di giorni di assenza per malattia del lavoratore disabile non possa o non debba essere fissato” ( v. punto 23).
b) ampliamento del periodo di comporto, che salvaguarda le esigenze di certezza a scapito della concretezza delle singole fattispecie.
L’unica soluzione concretamente adottabile sembra essere quella che identifica l’accomodamento ragionevole in un ampliamento del periodo di comporto rispetto a quello ordinario, vale a dire in una soluzione che, a fronte dell’assenza di una disciplina legale e collettiva con regole specifiche di maggior tutela per il disabile, chiami il datore di lavoro, in prima battuta, ed il giudice, poi, ad applicare il criterio dell’equità previsto dall’art. 2110, comma 2, c.p.c.
Se si adotta tale soluzione, per ogni concreta vicenda occorre esaminare, da un lato, l’esistenza di tutele della disabilità derivanti da specifiche previsioni normative; dall’altro, la complessiva regolamentazione del comporto fissata dalla disciplina legale e contrattuale
Ma rimane dubbio se la disciplina interna dovrebbe giudicarsi sempre non in linea con il diritto eurounitario quando le misure compensative all’applicazione della regola ordinaria del licenziamento per eccessiva morbilità sono limitate solo ai disabili che siano portatori di invalidità o inabilità tipizzate o superiori a determinate percentuali ( v. ad es. permessi ex art. 3, comma 3, legge n. 104/1992 o ex art. 7 D.lgs n. 119/2011) oppure che siano affetti da particolati patologie ovvero se a tale conclusione debba pervenirsi solo se in concreto esse non siano applicabili nello specifico caso perché il lavoratore disabile non rientra negli ambiti anzidetti.
Il dubbio nasce in considerazione della precisazione della Corte di Giustizia secondo cui non possono considerarsi misure compensative quelle che escludono dal computo assenze che “non comprendono tutte le situazione di handicap ai sensi della direttiva” (v. punto 54 sentenza Conejero).
Particolare attenzione dovrebbe essere dedicata alla complessiva regolamentazione collettiva della materia, che talvolta prevede specifiche tutele svincolate dal formale accertamento di una percentuale di invalidità e condizionate invece all’esistenza di un determinato stato morboso. In molti casi, oltre alle malattie oncologiche, sono considerate anche patologie croniche, degenerative e ingravescenti, ossia condizioni soggettive di per sé soltanto contigue alla condizione di disabilità ma che a questa possono assimilarsi.
Tali previsioni costituiscono misura adeguata ad evitare gli effetti svantaggiosi derivanti da un termine unico di comporto per il disabile e per il normodotato?
App. Torino 3 novembre 2021 n. 604 da risposta positiva al quesito, rilevando che il CCNL prevede un periodo più lungo di conservazione del posto di lavoro in ipotesi particolari e assicura, quindi, una tutela differenziata ai lavoratori che, a causa delle loro condizioni di salute, siano maggiormente esposti al rischio di assenze prolungate.
Risposta positiva è stata data anche in una recente sentenza del Tribunale di Milano ( v. sentenza 5 febbraio 2023), che - operate le dovute premesse, secondo le quali 1) né la normativa nazionale né quella sovranazionale impongono tout court di escludere dal periodo di comporto le assenze determinate da una minorazione costituente handicap, 2) non può ritenersi che la previsione di un periodo di comporto per i lavoratori malati e per i portatori di handicap persegua ex se una finalità non legittima (le Sezioni Unite della Corte di Cassazione nella sentenza del 22/05/2018 n. 12568, hanno infatti chiarito che nell’art. 2110, comma 2, c.c., si rinviene “un’astratta predeterminazione del punto di equilibrio fra l’interesse del lavoratore a disporre d’un congruo periodo di assenze a seguito di malattia o infortunio e quello del datore di lavoro di non doversi fare carico a tempo indefinito del contraccolpo che tali assenze cagionano all’organizzazione aziendale”), 3) tale bilanciamento neppure viene escluso dalla Direttiva 2000/78/CE, che al suo considerando 17, “non prescrive il mantenimento dell’occupazione di un individuo non competente, non capace o non disponibile ad effettuare le funzioni essenziali del lavoro in questione” – giunge ad affermare che, escludere dal periodo di comporto tutte le assenze determinate da una minorazione costituente handicap, “onererebbe il datore di lavoro di una funzione assistenziale che va ben al di là del suo obbligo di protezione e della solidarietà sociale”.
Occorrerà allora valutare con riferimento al caso concreto se le previsioni del contratto collettivo applicato in materia di comporto siano adeguate e non vadano al di là di quanto è necessario per il perseguimento del legittimo interesse del datore di lavoro ad ottenere la prestazione, tenuto altresì conto del contrapposto specifico interesse al lavoro dei disabili che – come sottolineato in più occasioni dalla CGUE - incontrano maggiori difficoltà rispetto agli altri normodotati a reinserirsi nel mercato del lavoro ed hanno esigenze specifiche connesse alla tutela richiesta dalla loro condizione (v., in tale senso, sentenza dell’11 aprile 2013, HK Danmark, C-335/11 e C337/11, EU:C:2013:222, punto 91)”.
Qualora, dunque, la disciplina della contrattazione collettiva (come nel caso sottoposto all’attenzione del Tribunale di Milano, il CCNL per le lavoratrici e i lavoratori addetti all’industria metalmeccanica privata e alla installazione di impianti) preveda una tutela specifica delle malattie di lunga durata, gravi e croniche, anche con episodi frazionati, estendendo in tali ipotesi il periodo di comporto, attuando così una tutela più pregnante anche dei lavoratori disabili, che proprio a cagione della disabilità sono più esposti ad ammalarsi, non troverebbe spazio, a giudizio del Tribunale di Milano, una doglianza di discriminazione indiretta a danno dei portatori di handicap. Né può ritenersi, conclude tale pronuncia, “che la tutela dell’handicap imponga un trattamento differenziato dei portatori di handicap rispetto a coloro che sono affetti da malattie croniche, di lungo periodo o recidivanti, dovendosi invece ritenere che il discrimine ipotizzabile ai fini della durata del comporto attenga all’intensità delle esigenze di cura e assistenza, e non allo status di disabilità in sé”, e che “deve ritenersi con riferimento al CCNL in esame (a differenza delle conclusioni cui sono giunte altre sentenze di merito con riferimento ad altri CCNL) che la circostanza che le parti sociali, alle quali è demandato il compito di quantificare il periodo decorso il quale il datore di lavoro può esercitare il recesso (art. 2110, co. 2, c.c.), abbiano disciplinato in modo differenziato l’ipotesi di malattie che comportino assenze di lunga durata, dilatando il periodo di comporto in maniera significativa, per di più con la previsione della decorrenza mobile che consente la valorizzazione dei periodi più recenti, nonché con la possibilità della concessione di ulteriore aspettativa, valga di per sé sola ad escludere la discriminazione in danno dei disabili, poiché il rischio aumentato di assenze a causa di malattia invalidante è tutelato con il diritto ad un periodo più lungo di conservazione del posto di lavoro” ( v. Trib. Milano 5 febbraio 2023).
Il quadro complessivo è tuttavia disomogeneo, con rilevanti differenze per il settore pubblico e privato e va compiutamente esaminato, sicché appare necessario ricostruire le tutele applicabili nel caso concreto e verificare se esse, alla luce della specifica condizione soggettiva del disabile, siano o meno sufficienti a compensare l’esistenza di un particolare svantaggio ex art., par. 2, lett. b), Dir 2000/78/CE, anche se non risulta sempre agevole comprendere quale siano le patologie di volta in volta considerate, atteso che i contratti collettivi spesso impiegano formule generiche, rifacendosi a parametri di tipo valutativo tutt’altro che certi, come quelli di “ gravità” o di “situazioni particolari di difficoltà”.
Sebbene le soluzioni contrattuali siano eterogenee, il giudice della controversia potrebbe richiamarsi alle previsioni della contrattazione collettiva che prevedono l’allungamento del comporto per alcune patologie o l’esclusione dal computo di determinate assenze, con un’ operazione non di estensione analogica ma volta a ricavare parametri per applicare il criterio dell’equità previsto dall’art. 2110, comma 2, c.c. e che sicuramente conterrebbe il formarsi di soluzioni ispirate ad accomodamenti improvvisati e secondo la legge del caso per caso.
È stato anche evidenziata l’opportunità di distinguere l’ipotesi in cui il CCNL contenga previsioni di maggiore sensibilità verso alcune patologie ingravescenti o croniche da quella in cui la disciplina collettiva è tutto indifferente verso tali affezioni. In questo secondo caso, l'illegittimità del licenziamento deriverebbe dall'assoluta insussistenza dell'esimente generale e il datore che volesse evitare di incorrere in un licenziamento discriminatorio dovrebbe scomputare tutte le assenze derivanti dall'handicap del lavoratore e porre in essere tutti gli interventi materiali utili a diminuire il numero delle assenze ovvero dimostrare l'eccessiva onerosità di tali misure.
Nella prima ipotesi, dovrebbe comunque verificarsi la possibilità di adottare soluzioni ragionevoli, senza però dover accertare la possibilità da parte datoriale di scomputare ulteriori assenze.
c) ulteriori accomodamenti
In alcune pronunzie di merito (v. Trib. Rovereto 30 novembre 2023 n. 44; App. Trento 9 marzo 2023, n. 8; App. Napoli 17 gennaio 2023 n. 168; Trib. Vicenza 27 aprile 2022 n. 181 ) si indicano come misure atte a neutralizzare gli effetti svantaggiosi derivanti per il lavoratore disabile dal temine di comporto indifferenziato: la riduzione dell’orario di lavoro, l’avviso dell’approssimarsi della scadenza del periodo di comporto o della possibilità di fruire dell’aspettativa non retribuita o delle ferie residue ( altrimenti escluso dalla giurisprudenza), l’ accesso preferenziale al lavoro agile, la sottoposizione tempestiva alla visita medica di sorveglianza sanitaria.
Va, tuttavia, rilevato che molte di esse si esauriscono nell’adempimento di obblighi relativi alla tutela della salute e sicurezza delle generalità dei lavoratori, altre – riduzione orario di lavoro e lavoro agile- presuppongono che il lavoratore disabile malato sarebbe stato comunque in grado di conservare capacità lavorative residue per rendere la prestazione con tali modalità, laddove la malattia è normalmente uno stato integralmente impeditivo del lavoro.
Tutte le problematiche esaminate sono state oggetto di rinvio pregiudiziale alla CGUE da parte del Trib. Ravenna del 4/1/2024, che ha sottoposto alla Corte i seguenti quesiti.
“1) se la direttiva 2000/78 sia di ostacolo ad una normativa nazionale che, prevedendo il diritto alla conservazione del posto di lavoro in caso di malattia per 180 giorni retribuiti, nel periodo dal 1.1 al 31.12 di ciascun anno, oltre ad ulteriori 120 giorni di aspettativa non retribuita (fruibili questi 1 sola volta) su richiesta del lavoratore, non preveda una disciplina differente tra lavoratori qualificabili come disabili e lavoratori che non lo sono;
2) laddove la normativa nazionale descritta in motivazione dovesse essere considerata astrattamente integrante una discriminazione indiretta, se la normativa stessa sia comunque oggettivamente giustificata da una finalità legittima e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari;
3) se un accomodamento ragionevole idoneo e sufficiente ad evitare la non retribuita, a richiesta del lavoratore, successiva allo scadere dei 120 giorni di malattia ed idonea ad impedire il licenziamento sino alla sua scadenza;
4) se possa ritenersi ragionevole un accomodamento consistente nel dovere del datore di lavoro di concedere alla scadenza del periodo di 180 giorni di malattia retribuita un ulteriore periodo retribuito integralmente a suo carico, senza ottenere una controprestazione lavorativa;
5) se, al fine di valutare il comportamento discriminatorio del datore di lavoro, possa valutarsi (ai fini dello stabilire la legittimità o meno del licenziamento) la stabilità del rapporto retribuita a carico del datore di lavoro non avrebbe consentito il rientro al lavoro del disabile, permanendo il suo stato di malattia.

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