testo integrale con note e bibliografia

1. Il mio intervento si incentra sul comporto di malattia del lavoratore disabile e, in particolare, sulla valutazione delle assenze che ne determinano il superamento, legittimando così il recesso del datore di lavoro secondo quanto previsto dall’art. 2110, co. 2, cod. civ..
Com’è noto, la questione è al centro dell’attenzione della giurisprudenza eurounitaria, di legittimità e di merito messa assai bene in evidenza dalla relazione del Presidente Giovanni Pascarella nelle varie e contrapposte argomentazioni e, quindi, mi limiterò ad aggiungere solo alcune parole sul tema.
2. Partirei con l’affermazione che la condizione di disabilità del lavoratore assume rilievo nella determinazione del periodo di comporto di malattia.
Non appare, infatti, condivisibile la tesi negazionista secondo la quale le molteplici, variegate ed ampie tutele previste dal legislatore per il lavoratore disabile assorbono e, quindi, escludono ogni possibile correlazione tra questa condizione e la computabilità di esse nel periodo di comporto.
Non credo, infatti, che questa conclusione possa essere argomentata evocando l’art. 10, co. 1, L 12 marzo 1999, n. 68 laddove afferma, per i lavoratori assunti obbligatoriamente, il diritto allo stesso “trattamento economico e normativo previsto dalle leggi e dai contratti collettivi” per la generalità dei lavoratori; salvo poi stabilire alcune eccezioni – come tali non estensibili analogicamente – che stabiliscono una tutela rafforzata, come avviene per il licenziamento per sopravvenuta inidoneità e per quello collettivo (art. 10, co. 3 e 4, L n. 68/1999).
Infatti, la condizione di disabilità implica per il lavoratore una protezione riconducibile ai principi generali risalenti alla L 1° marzo 2006, n. 67 che, nel promuovere “la piena attuazione del principio di parità di trattamento e delle pari opportunità nei confronti delle persone con disabilità” (art. 1, co. 1), afferma: “il principio di parità di trattamento comporta che non può essere praticata alcuna discriminazione in pregiudizio delle persone con disabilità” (art. 2, co. 1), precisando ulteriormente che: a) “si ha discriminazione diretta quando, per motivi connessi alla disabilità, una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata una persona non disabile in situazione analoga” (art. 2, co. 2); b) mentre “si ha discriminazione indiretta quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri mettono una persona con disabilità in una posizione di svantaggio rispetto ad altre persone” (art. 2, co. 3).
La portata di tali disposizioni impone all’interprete di interrogarsi se al licenziamento per superamento del comporto sia applicabile la regola generale dell’art. 2110 cod. civ. oppure se essa vada integrata con la speciale tutela riservata al disabile.
3. Per affrontare il tema e chiarirne i termini è opportuno distinguere inizialmente tre situazioni: a) il licenziamento discriminatorio del lavoratore causato dalla sua disabilità; b) il licenziamento del lavoratore disposto in base a norme generali che, nella loro applicazione, determinano uno svantaggio riconducibile alla condizione di disabilità; c) il licenziamento del lavoratore per motivazioni del tutto estranee alla sua disabilità.
Nella prima ipotesi il licenziamento si configura come un atto di discriminazione diretta in quanto adottato “per motivi connessi alla disabilità” (art. 2, co. 2). Si deve aggiungere che in questo caso la discriminazione sussiste anche quando non costituisce il motivo unico e determinante del licenziamento (diversamente da quello illecito ex art. 1345 cod. civ.) che, però, dovrà essere causato, pur sempre, dalla condizione di disabilità del lavoratore. Nel senso che questa condizione è quella che induce effettivamente il datore di lavoro a licenziare il dipendente, ancorché sia diversa la motivazione formalizzata nell’atto di recesso, ad esempio il superamento del comporto realmente avvenuto. In questo caso la discriminazione si disvela dimostrando, ad esempio, che, in una molteplicità di altri casi, pur in presenza di un’identica causa legittimante il recesso (il superamento del comporto), il datore di lavoro non se ne sia avvalso per licenziare i lavoratori normodotati.
Non c’è dubbio che nell’esempio ora accennato assume un particolare rilievo la disciplina speciale in materia di ripartizione degli oneri probatori di cui all’art. 28, co. 4, D. lgs., 1° settembre 2011, n. 150 in forza della quale “quando il ricorrente fornisce elementi di fatto, desunti anche da dati di carattere statistico, dai quali si può presumere l'esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori, spetta al convenuto l'onere di provare l'insussistenza della discriminazione. I dati di carattere statistico possono essere relativi anche alle assunzioni, ai regimi contributivi, all'assegnazione delle mansioni e qualifiche, ai trasferimenti, alla progressione in carriera e ai licenziamenti dell'azienda interessata”.
La seconda ipotesi è quella nella quale, ricorrendo un presupposto oggettivamente neutrale (nel caso che ci riguarda il superamento del comporto), il disabile viene licenziato senza, però, considerare in alcun modo: a) lo specifico svantaggio soggettivamente subito per tale condizione; b) la possibilità, attraverso accomodamenti ragionevoli, di rimuove tale svantaggio, ripristinando così condizioni comparabili con quelle dei lavoratori pienamente abili.
La terza ipotesi si riscontra quando il licenziamento di cui è destinatario il disabile non presenta alcun collegamento diretto o indiretto con la sua condizione.
In quest’ultimo caso il licenziamento resta disciplinato dalle regole generali, salvo alcune ipotesi del tutto eccezionali nelle quali il legislatore attribuisce rilievo alla disabilità imponendo ulteriori limiti al recesso del datore di lavoro, come stabilisce l’art. 10, co. 4, L n. 68/1999 che considera “annullabili” il licenziamento collettivo o quello individuale per giustificato motivo oggettivo dei lavoratori assunti obbligatoriamente solo perché “nel momento della cessazione del rapporto, il numero dei rimanenti lavoratori occupati obbligatoriamente sia inferiore alla quota di riserva prevista” dalla legge. Questa tecnica evoca, seppur in tutt’altro contesto e con una finalità ben diversa, l’art. 18, co. 11, Statuto dei lavoratori che nel caso del licenziamento del dirigente della RSA, per tale qualità e prescindendo dalle motivazioni del licenziamento, accorda una speciale tutela processuale che consente la rapida decisione della causa.
4. Secondo un’opinione ormai largamente prevalente, il licenziamento del disabile per superamento del periodo di comporto deve essere valutato quanto alla possibilità che esso venga a configurarsi come una discriminazione indiretta.
La tesi accolta anche dalla Cassazione (Cass., 31 marzo 2023, n. 9095 e, in senso conforme, Cass., 21 dicembre 2023, n. 35747), sulla scorta della giurisprudenza eurocomunitaria (ampiamente richiamata dalla Cassazione), mi sembra nelle premesse assolutamente convincente.
Infatti, l’applicazione della disciplina del comporto di malattia, apparentemente neutra, può determinare per il lavoratore disabile un particolare svantaggio causato dalla frequenza delle sue assenze per malattie rispetto a quanto avviene per i dipendenti normodotati.
Si tratta, allora, di capire in quali casi il licenziamento per comporto possa configurare una discriminazione indiretta da accertare verificando la ricorrenza dei fatti costitutivi, anche quelli omissivi (gli accomodamenti ragionevoli).
Preliminarmente appare necessario ricordare la distinzione – evidente, ma non sempre adeguatamente considerata – tra la malattia come causa della disabilità e come effetto di essa. Nel senso che la malattia può (seppure non necessariamente) generare una disabilità che, una volta sopravvenuta, potrebbe provocare malattie (anche se non sempre) che costringono il dipendente ad assentarsi dal lavoro fruendo della tutela dell’art. 2110 cod. civ. e, quindi, avvalendosi del comporto.
Questa distinzione trova riscontro anche in quella giurisprudenza (v., tra le altre, Cass., 3 novembre 2015, n. 22410) che afferma “la malattia del lavoratore costituisce situazione diversa dalla inidoneità al lavoro. Invero, pur essendo entrambe cause di impossibilità della prestazione lavorativa, esse hanno natura e disciplina diverse, poiché mentre la prima ha carattere temporaneo e implica la totale impossibilità della prestazione, che determina la legittimità del licenziamento, ex art. 2110 c.c., quando abbia causato l'astensione dal lavoro per un tempo superiore al periodo di comporto, la seconda ha carattere permanente o, quantomeno, durata indeterminata o indeterminabile e non implica necessariamente la impossibilità totale della prestazione. La inidoneità al lavoro consente la risoluzione del contratto, ex artt. 1256 e 1463 c.c., eventualmente previo accertamento di essa con la procedura di cui all'art. 5 della legge n. 300 del 1970 (Statuto dei Lavoratori), indipendentemente dal superamento del periodo di comporto”.
A quanto appena detto si deve aggiungere l’osservazione del tutto pacifica e non confutabile che la disabilità non è necessariamente causa di malattie ad essa collegate da un nesso causale; ciò avviene, per fare qualche esempio, per i non vedenti o non udenti.
Così come, per converso, malattie di lunga durata (che portano al superamento del comporto) non generano necessariamente una disabilità che, invece, “include una condizione patologica causata da una malattia diagnosticata come curabile o incurabile, qualora tale malattia comporti una limitazione, risultante in particolare da menomazioni fisiche, mentali o psichiche, che, in interazione con barriere di diversa natura, possa ostacolare la piena ed effettiva partecipazione della persona interessata alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori” (Cass. n. 9095/2023).
5. Riportando le considerazioni appena accennate all’interno della nozione di discriminazione indiretta, si deve subito evidenziare che il particolare svantaggio che la connota e caratterizza non va identificato nella disabilità in sé considerata, bensì nella frequenza delle assenze per malattie che da essa possono derivare.
In altre parole, la situazione di particolare svantaggio non può essere ricondotta alla disabilità del lavoratore quando non ha alcuna diretta incidenza sul computo del periodo di comporto la cui disciplina, in questo caso, continuerebbe ad essere neutra rispetto alla condizione di disabilità.
Il fattore di rischio deve essere, piuttosto, individuato nella reiterazione delle assenze per malattia dovute alla disabilità. È questa reiterazione che espone il lavoratore disabile, rispetto agli altri dipendenti, ad un rischio maggiore di licenziamento per superamento del comporto.
Questa conclusione, peraltro, appare coerente con la sistemazione generale che nel rapporto di lavoro viene riservata al rischio malattia (comune, cioè non professionale). Rischio traslato sul datore di lavoro limitatamente alla durata del periodo di comporto contrattualmente previsto e, quindi, solo temporaneamente. Infatti, il dipendente subisce le conseguenze delle sue malattie venendo licenziato a causa di esse soltanto quando le assenze superano il comporto. Convergente con questo assetto è la giurisprudenza (v., tra le altre, Cass., 4 febbraio 2020, n. 2527) che esclude dal comporto le assenze causate da malattie ascritte alla responsabilità del datore di lavoro che, per questo, non possono esporre il lavoratore al rischio di licenziamento. Un completamento di questa sistemazione si realizza nel caso in esame delle malattie dovute alla disabilità; rispetto ad esse si manifesta la necessità di riequilibrare la ripartizione del rischio malattia, per evitare che tale rischio si scarichi sul disabile non già perché incolpevole (come qualsiasi altro lavoratore) delle malattie, ma piuttosto perché la frequenza di esse, se dovuta alla disabilità, configura quello svantaggio che deve essere neutralizzato.
Peraltro, che senso avrebbe, ad esempio, l’allungamento del periodo di comporto nei confronti di un lavoratore disabile non vedente o non udente?
Se si dovesse attribuire rilevanza a qualsiasi malattia anche se del tutto estranea alla condizione di disabilità del lavoratore, quest’ultimo finirebbe non già per essere equiparato a quello abile, ma posto addirittura in una situazione di (indebito) vantaggio. Infatti, il lavoratore disabile, a fronte della stessa durata delle assenze per malattie patite da qualsiasi altro lavoratore, potrebbe far valere la propria disabilità per contestare la legittimità del licenziamento motivato dal superamento del comporto.
Peraltro, questa tesi dovrebbe per coerenza essere argomentata e inquadrata non più nell’ambito della discriminazione indiretta, ma di quella diretta, in quanto si baserebbe – del tutto infondatamente – sull’assunto che l’applicazione al lavoratore disabile del comporto costituisce di per sé un trattamento discriminatorio in quanto sempre e comunque meno favorevole, anche quando le assenze che ne determinano il superamento nulla hanno a che vedere con la disabilità.
Concludendo su questo punto, sembra corretto affermare che la discriminazione indiretta si configura soltanto quando nel verificare il superamento del periodo di comporto si trascura di tener conto delle malattie causate dalla disabilità del lavoratore che, in tal modo, verrebbero ad essere equiparate alle malattie comuni nelle quali può incorre qualsiasi dipendente; equiparazione che costituirebbe violazione del principio di uguaglianza sostanziale che deve essere garantito al disabile.
Del resto in questi termini si è espressa anche la CGUE nella sentenza 18 gennaio 2018, in causa C-270/16, Conejero, affermato che “l’articolo 2.2 bis) della Direttiva del Consiglio 2000/78/CE del 27 novembre 2000 … deve essere interpretato in modo tale da costituire un ostacolo all'applicazione di una disposizione nazionale, secondo la quale il datore di lavoro può licenziare un dipendente per assenza ricorrente dal lavoro, anche quando tale assenza è valida, nel caso in cui l’assenza sia dovuta a malattie derivanti dall'invalidità del dipendente”.
6. Le implicazioni derivanti dalle conclusioni a cui ora si è accennato sono due ed attengono alla necessità di verificare la legittimità del licenziamento per superamento del comporto del lavoratore disabile in base: a) alla conoscenza del tipo di disabilità; b) che è funzionale per individuare, poi, le assenze per malattia ad essa collegate.
Pur affrontando il punto, la Cassazione nella sentenza n. 35747/2023 risolve la questione affermando che “occorre rilevare poi che la discriminazione opera in modo oggettivo ed è irrilevante l’intento soggettivo dell’autore. Non è dunque decisivo … l’assunto di parte ricorrente di non essere stata messa a conoscenza del motivo delle assenze del lavoratore, perché i certificati medici delle assenze inoltrati al datore di lavoro non indicavano la specifica malattia a causa dell'assenza. Va, invero, confermato che la discriminazione - diversamente dal motivo illecito - opera obiettivamente, ovvero in ragione del mero rilievo del trattamento deteriore riservato al lavoratore, quale effetto della sua appartenenza alla categoria protetta, ed a prescindere dalla volontà illecita del datore di lavoro”.
Si tratta di un’affermazione, in parte, scontata ed irrilevante e, in parte, non pertinente.
Non c’è dubbio, infatti, che nella discriminazione indiretta non rileva affatto l’intenzionalità della condotta del datore di lavoro che non costituisce un presupposto di essa. Come non è in alcun modo pertinente il richiamo ai differenti requisiti del motivo illecito (unico e determinante) e degli atti discriminatori.
Il punto è un altro e, come già detto, riguarda il fattore di rischio che non è la disabilità del lavoratore in sé, ma le malattie da essa causate che costringono il dipendente ad assenze più frequenti e ricorrenti rispetto alle quali è necessario differenziare la disciplina del comporto di malattia per realizzare così un’equiparazione non già meramente formale, ma sostanziale del disabile con gli altri lavoratori.
Di qui l’affermazione dalla quale si è partiti della necessaria conoscenza del tipo di disabilità del lavoratore, funzionale all’individuazione delle assenze causate dal essa.
Del resto, solo così diventa possibile immaginare l’attivazione degli accomodamenti ragionevoli ed appropriati – sui quali si tornerà nel prosieguo – previsti dall’art. 3, co. 3-bis, D. lgs. 9 luglio 2003, n. 216 (come modificato dall’art. 9, co. 4-ter, DL 28 giugno 2013, n. 76, convertito con L 9 agosto 2013, n. 99) per “garantire il rispetto del principio della parità di trattamento delle persone con disabilità”. Principio in forza del quale “i datori di lavoro pubblici e privati sono tenuti ad adottare accomodamenti ragionevoli, come definiti dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, ratificata ai sensi della legge 3 marzo 2009, n. 18, nei luoghi di lavoro, per garantire alle persone con disabilità la piena eguaglianza con gli altri lavoratori”.
7. Secondo quanto fin qui accennato, la rilevanza attribuita all’individuazione delle malattie causate dalla disabilità del lavoratore pone immediatamente – prima ancora del riparto degli oneri probatori in sede processuale – la questione della conoscibilità di questo dato e delle sue modalità di acquisizione, quanto alle condotte dovute, rispettivamente, dal prestatore e dal datore di lavoro nello svolgimento del rapporto di lavoro.
Questione da affrontare partendo dall’osservazione che in alcuni casi la disabilità potrebbe addirittura essere ignota al datore di lavoro (in altri, invece, notoria) e, comunque, appare difficile che il datore di lavoro possa avere contezza delle malattie che da essa derivano.
Conseguentemente graverà sul dipendente l’onere di informare il datore di lavoro della sua disabilità, senza neppure la necessità di specificarne la tipologia, ma indicando anche quali assenze per malattia sono causate da tale disabilità.
Il datore di lavoro, una volta informato, dovrà operare di conseguenza, attivando gli accomodamenti ragionevoli ed appropriati oggetto dell’obbligo che grava su di lui.
Non occorre neppure sottolineare che gli adempimenti di cui si è detto devono essere rispettosi della regola generale della buona fede e correttezza che impone un dovere di cooperazione reciproca ai soggetti (debitore e creditore) di un rapporto obbligatorio.
Come si è detto, l’informazione a carico del lavoratore ha un duplice oggetto, riguardando la disabilità e le assenze per malattia da essa causate, anche se può essere resa sia congiuntamente che disgiuntamente.
Indicati i contenuti minimali dell’informazione, si pone l’ulteriore tema se essa sia soddisfatta con una mera comunicazione o, invece, richieda anche una certificazione medica; soluzione per la quale propenderei in analogia con quanto avviene per la malattia comune. In questo caso, quindi, il certificato medico dovrà precisare che si tratta di una malattia dovuta alla disabilità del lavoratore, senza alcuna necessità di diagnosi.
In base a quanto accennato si palesa del tutto insufficiente la trasmissione da parte del lavoratore di certificati medici che si limitano a indicare la prognosi della malattia, individuata genericamente solo negli effetti necessari per l’applicazione dell’art. 2110 cod. civ. (la temporanea impossibilità di esecuzione della prestazione di lavoro).
Anzi questo comportamento potrebbe ingenerare nel datore di lavoro la convinzione che con la trasmissione del certificato il lavoratore intende attestare la sussistenza di malattie riconducibili alla disciplina ordinaria del comporto previsto dal CCNL e, quindi, non meritevoli dell’attivazione degli accomodamenti ragionevoli.
Convinzione, per di più, rafforzata se nella formulazione del certificato telematico il medico non ha neppure flaggato l’apposita casella in esso prevista che identifica e collega la malattia con uno “stato patologico connesso a situazioni di invalidità riconosciuta”.
In tutti questi casi si deve ritenere che il lavoratore disabile non abbia assolto all’onere di segnalare la situazione di svantaggio in cui versa e ciò esclude il conseguente obbligo del datore di lavoro di provvedere agli accomodamenti ragionevoli.
Aggiungo, infine, che il diritto alla riservatezza del lavoratore non può essere evocato per contestare la soluzione prospettata, attesa la base giuridica sulla quale si fonda che, del resto, presenta molti aspetti comuni al caso in cui il lavoratore fa valere il diritto previsto dalla disciplina collettiva ad una maggiore durata del comporto a fronte di malattie derivanti da specifiche patologie (oncologiche, ecc.).
8. Una volta che il dipendente avrà assolto agli oneri di informazione di cui più sopra si è detto, il datore di lavoro deve attivarsi per realizzare gli accomodamenti ragionevoli di cui al già richiamato art. 3, co. 3-bis, D. lgs. n. 216/2003.
Gli accomodamenti devono essere ragionevoli, pertinenti ed appropriati in quanto finalizzati, come dice il legislatore, a “garantire il rispetto del principio della parità di trattamento delle persone con disabilità”.
È di immediata evidenza che l’attuazione di tali accorgimenti pone il tema, di non facile soluzione, del bilanciamento tra la tutela dovuta al lavoratore svantaggiato in relazione alle assenze causate dalla disabilità ed i limiti che tale tutela incontra in termini di costi ed efficienza produttiva a garanzia della funzionalità dell’organizzazione imprenditoriale che non può essere gravata da oneri puramente assistenziali (art. 38 Cost.).
Il bilanciamento (in questo caso) voluto dal legislatore – non già creato dell’interprete, come spesso avviene nei più vari contesti – implica un elevato grado di discrezionalità applicativa con notevoli incertezze in sede di controllo giurisdizionale del contemperamento in concreto praticato dal datore di lavoro. Si tratta di un esito inevitabile, non essendo possibile predeterminare normativamente i limiti del contemperamento, fissandone a priori contenuti e modalità attuative (per la nozione di accomodamenti ragionevoli v. le preziose indicazioni di Cass., 9 marzo 2021, n. 6497).
Quanto detto consente soltanto di indicare il perimetro all’interno del quale si devono dispiegare gli accomodamenti, ricordando che “è necessario tener conto in particolare dei costi finanziari che essi comportano, delle dimensioni e delle risorse finanziarie dell’organizzazione o dell’impresa” (CGUE, 18 gennaio 2024, n. 631/22, C.N.N. SA).
Nello stesso tempo, però, gli accomodamenti devono essere funzionali e, quindi, appropriati per “consentire al lavoratore di conservare il posto di lavoro”, senza “che siffatte soluzioni costitui[scano] un onere sproporzionato”.
Quindi l’accomodamento non deve spingersi fino a vanificare ogni possibilità di licenziamento del lavoratore disabile per superamento del periodo di comporto, bensì deve tendere a neutralizzare lo svantaggio subìto dal lavoratore che è costretto ad assentarsi più frequentemente per le malattie causate dalla sua disabilità.
Ciò potrebbe indurre a ritenere, almeno in prima battuta, che l’idoneità degli accomodamenti richieda misure personalizzate che tengano conto della condizione di disabilità del singolo lavoratore e, ancor più in particolare, della probabile incidenza di essa sulle assenze per malattie. Ma questa ipotesi si palesa impraticabile, in quanto l’onere di informazione del lavoratore, come si è detto, non si spinge fino al punto di indicare la sua disabilità e di identificare le malattie ad essa riconducibili che lo costringono ad assentarsi.
Gli accomodamenti, quindi, dovranno riguardare misure di carattere generale, anche scontando la possibilità che l’uniformità di esse comporti una scarsa efficacia a fronteggiare situazioni di disabilità (salvo che non sia portate a conoscenza del datore di lavoro) che richiedano interventi ad hoc.
Queste misure possono essere incorporate nella disciplina generale del comporto di malattia prevista dal CCNL, ad esempio prevedendo un periodo di comporto di più lunga durata o il diritto ad un’aspettativa (non prevista per la generalità dei dipendenti oppure, in questo caso, di durata superiore) fruibile una volta che il comporto sia stato superato.
Ove, però, non avesse provveduto la contrattazione collettiva, deve essere necessariamente il datore di lavoro ad adottare gli accomodamenti ragionevoli, essendo egli gravato dal relativo obbligo e, quindi, responsabile anche di eventuali carenze o insufficienze degli accomodamenti previsti dalla disciplina collettiva.
La funzione dell’accomodamento ragionevole è quella di incidere sul maggior rischio del lavoratore disabile di essere licenziato per superamento del comporto, ciò consente di individuare il punto rilevante sul quale intervenire che è quello della conservazione del posto di lavoro per interdire così il licenziamento. Un risultato che può essere ottenuto anche con misure non (direttamente) onerose per il datore di lavoro, come quella di un’aspettativa non retributiva.
Quanto appena detto non vuol dire, però, che la questione non possa riguardare anche il trattamento economico dovuto durante il comporto nei casi in cui la disciplina collettiva prevede la riduzione del trattamento economico, dopo un certo numero di giorni di assenza. Infatti, per il disabile questa riduzione potrebbe essere determinata (ed accelerata rispetto ad un lavoratore normodotato) a causa della frequenza delle assenze per malattia dovute alla disabilità.
Non c’è dubbio, comunque, che nel caso qui in esame gli accomodamenti ragionevoli si risolvono principalmente nell’adeguare il periodo di conservazione del posto di lavoro prolungandone la durata o prevedendo un diritto ad un’aspettativa, ma potrebbero anche riguardare l’esclusione dal computo del periodo di comporto di una percentuale delle assenze, presumendo che siano imputabili alla disabilità.
È evidente che non è possibile, anche per le ragioni accennate, individuare con certezza in quale misura debba essere allungata la durata del periodo di comporto affinché l’accomodamento possa assolvere alla sua funzione di tutela senza “che siffatte soluzioni costitui[scano] un onere sproporzionato”.
Ciò rende ancor più opportuno l’intervento della contrattazione collettiva che dovrà trovare il bilanciamento necessario assolvendo al compito usuale di composizione dei contrapposti interessi che la Costituzione le affida.
Va solo aggiunto che, mentre la durata del periodo di comporto è rimessa dall’art. 2110 cod. civ. alla determinazione insindacabile del contratto collettivo, gli accomodamenti ragionevoli devono assolvere alla funzione indicata dalla legge, quella di incidere sullo svantaggio del disabile evitando così che possa essere vittima di una discriminazione indiretta.
Ciò significa, come si è detto, che la sede più idonea per la definizione degli accomodamenti è senz’altro quella collettiva, ma che essa non si sottrae al controllo giurisdizionale in ordine all’idoneità del bilanciamento realizzato.
La precisazione è dettata da ragioni di completezza del ragionamento e dalla preoccupazione che tale controllo possa portare ad un’invadenza della giurisprudenza nella difficile definizione degli accomodamenti ragionevoli. È probabile che in questo caso la giurisprudenza opererà in modo analogo a quanto avviene per le clausole collettive che individuano descrivendole le infrazioni disciplinari punibili con il licenziamento; clausole che raramente la giurisprudenza ritiene invalide perché non conformi alla fattispecie legale ed inderogabile di giusta causa o di giustificato motivo soggettivo.
Un ultimo cenno meritano alcuni interventi della giurisprudenza di merito (anche qui rinvio alla relazione di Giovanni Pascarella) che riconducono nell’ambito degli accomodamenti ragionevoli – ritenendoli doverosi e sanzionandone la mancata predisposizione con l’illegittimità del licenziamento per superamento del comporto – condotte del datore di lavoro che si sostanziano nell’iniziativa, ad esempio, di informare il disabile del diritto a richiedere l’aspettativa prevista dal CCNL per la generalità dei dipendenti (ed anche quei casi, pur diversi, in cui l’informativa riguarderebbe il diritto del disabile a fruire di ferie o permessi non goduti).
Non credo affatto che tale configurazione sia conforme alla nozione legale di accomodamento ragionevole, si tratta di scorciatoie o veri e propri escamotage con i quali si vuole dare soluzione al caso concreto in base ad una valutazione di interessi che elude la corretta applicazione della legge. Infatti, in questi casi il disabile è, al pari degli altri dipendenti, titolare di un diritto al cui esercizio non è di ostacolato la disabilità. Con la conseguenza evidente dell’impropria evocazione degli accomodamenti ragionevoli che il legislatore impone “per garantire alle persone con disabilità la piena eguaglianza con gli altri lavoratori”; in queta prospettiva, e solo in questa, i “datori di lavoro … sono tenuti ad adottare accomodamenti ragionevoli, come definiti dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità.
9. Collegato ai profili in precedenza esaminati (ed in particolare a quanto accennato nel par. 7), anche se distinto da esso, è quello che riguarda le allegazioni delle parti e la ripartizione degli oneri probatori in sede processuale.
Anche in questo caso il riferimento dal quale muovere è l’affermazione della Cassazione (n. 9095/2023) “secondo cui, in tema di licenziamento discriminatorio, in forza dell’attenuazione del regime probatorio ordinario introdotta per effetto del recepimento delle direttive n. 2000/78/CE, n. 2006/54/CE e n. 2000/43/CE, così come interpretate dalla CGUE, incombe sul lavoratore l’onere di allegare e dimostrare il fattore di rischio e il trattamento che assume come meno favorevole rispetto a quello riservato a soggetti in condizioni analoghe, deducendo al contempo una correlazione significativa tra questi elementi, mentre il datore di lavoro deve dedurre e provare circostanze inequivoche, idonee ad escludere, per precisione, gravità e concordanza di significato, la natura discriminatoria”.
L’applicazione di questo principio implica che il lavoratore debba provare, in primo luogo, il fattore di rischio, vale a dire la condizione di disabilità. Ma non sarà sufficiente la generica allegazione e documentazione di una qualsiasi disabilità, ma di una disabilità che sia causa delle malattie che costringono il dipendente ad assentarsi essendo temporaneamente impedita l’esecuzione della prestazione lavorativa. Quindi il fattore di rischio, per le ragioni esposte, non coincide con la mera condizione di disabile del lavoratore, ma con una disabilità-causa di malattie che determina le assenze dal lavoro.
In questa prospettiva si palesa non condivisibile la tesi, emersa ripetutamente in giurisprudenza, che la sola consapevolezza del datore di lavoro della disabilità del dipendente comporterebbe per il primo l’obbligo di attivare un’indagine sulla natura delle malattie per accertare l’eventuale dipendenza di esse dalla disabilità, predisponendo in questo caso idonei accomodamenti ragionevoli.
Infatti, la disabilità, come si è detto, non costituisce di per sé un fattore specifico che espone il dipendente ad un maggior rischio di licenziamento per superamento del comporto, ma lo diventa se e nella misura in cui è causa di malattie frequenti che costringono il lavoratore ad assentarsi.
In altre parole, il lavoratore disabile ha diritto alle tutele generali previste per la sua condizione che non può esporlo a discriminazioni dirette, a queste tutele se ne aggiungono altre che operano soltanto se e quando dall’applicazione di trattamenti ordinari ed apparentemente neutri (nel caso che ci riguarda il comporto di malattia) emerge uno svantaggio che configura una discriminazione indiretta collegato non già alla disabilità in sé, ma alla possibilità che essa costringa il dipendente ad assentarsi dal lavoro.
Non c’è dubbio che nella materia della ripartizione degli oneri probatori ha un peso determinate il principio già richiamato in (art. 28, co. 4, D. lgs., n. 150/2011) in forza della quale “quando il ricorrente fornisce elementi di fatto, desunti anche da dati di carattere statistico, dai quali si può presumere l’esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori, spetta al convenuto l'onere di provare l'insussistenza della discriminazione”.
Un principio che, però, merita alcune precisazioni, anche in considerazione all’uso non sempre appropriato da parte della giurisprudenza.
In particolare, si deve mettere in evidenza che gli elementi di fatto, desunti da dati anche statistici, che il lavoratore deve allegare e provare riguardano non già la generica numerosità delle assenze per malattia, bensì che tale numerosità è causata dalla disabilità.
Solo a questo punto si realizza il presupposto previsto dalla norma che addossa “al convenuto l’onere di provare l'insussistenza della discriminazione”.
Infatti, il gran numero di assenze per malattia è un dato che riguarda indistintamente ogni lavoratore allorché si approssima il superamento del periodo di comporto ed è, quindi, del tutto neutro e, come tale, inidoneo ad innescare il meccanismo normativo che postula “elementi di fatto … dai quali si può presumere l’esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori”. Non sembra, quindi, corretta l’affermazione che il solo dato della frequenza delle assenze – si ripete comune a qualsiasi lavoratore licenziato per superamento del comporto – è sufficiente a fare presumere la discriminazione, addossando sul datore di lavoro la prova dell’insussistenza di essa.
In secondo luogo, il disabile deve provare lo svantaggio subito rispetto agli altri dipendenti in conseguenza della disciplina indifferenziata del comporto che, nella regolazione del CCNL o nell’applicazione in concreto da parte del datore di lavoro, non tiene conto dell’adeguamento necessario ad incidere sullo svantaggio del disabile per le assenze dovute a malattia.
Infine, quanto al terzo punto – sicuramente quello più delicato e rilevante – la prova della correlazione tra disabilità e disciplina del comporto di malattia, la Cassazione afferma che si deve trattare di una “correlazione significativa”, ciò richiede la dimostrazione da parte del lavoratore del nesso causale tra disabilità, malattia e superamento del comporto e, quindi, che: a) la disabilità era conosciuta dal datore; b) la disabilità era causa delle malattie che hanno costretto il dipendente ad assenze determinati ai fini del superamento del periodo di comporto e, quindi, del licenziamento; c) il datore di lavoro era stato informato o, comunque, era consapevole di tutto ciò.
Invece il datore di lavoro dovrà dimostrare gli accorgimenti ragionevoli applicati e la loro idoneità a incidere sullo svantaggio del disabile quanto alle malattie causate dalla disabilità.
In chiusura un solo cenno – anche se il tema meriterebbe ben altro approfondimento – va riservato alla necessità (ravvisata dalla recente ordinanza 4 gennaio 2024 del Tribunale di Ravenna) di rimettere alla CGUE le questioni sorte circa la computabilità nel comporto delle assenze causate dalla disabilità del lavoratore, sul presupposto che la differenziazione della durata del comporto sarebbe irrealizzabile nel nostro ordinamento – che, peraltro, già riconosce al disabile un’ampia e generale protezione – poiché non è consentito al datore di lavoro di violare la riservatezza del dipendente per conoscere la condizione di disabilità ed i suoi effetti sulle assenze per malattia.
Ma, come si è detto, la generale tutela del lavoratore disabile non preclude la specifica protezione da attuare attraverso gli accomodamenti ragionevoli, come del resto dimostra la previsione, concorrente e non alternativa, di entrambe le garanzie. Né si può ritenere che la riservatezza del lavoratore neutralizzi gli interventi necessari a sottrarre il disabile dallo svantaggio che subisce per le ricorrenti assenze per malattia. Se così fosse ogni tutela del lavoratore inidoneo verrebbe messa in discussione e la prevalenza della riservatezza sulla disabilità abdicherebbe alla necessità di quel bilanciamento che sembra invece realizzabile con le modalità di cui si è detto in precedenza (v. paragrafo 7).

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