TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA

La recente pubblicazione del Focus del Rapporto ANVUR 2023, dedicato all’analisi di genere nel contesto universitario, offre una serie di importanti indicazioni sulla persistenza in Italia di un ancora significativo gender gap tra uomini e donne nei percorsi di carriera e nelle opportunità di ricerca. In questo breve scritto ci concentreremo in particolare sui dati che emergono dal Rapporto con riguardo alla condizione di docenti e ricercatrici nel settore degli Studi giuridici, riservando ad ulteriori e futuri interventi un’analisi più generale del quadro complessivo.
Prima di entrare nello specifico, ritengo sia tuttavia importante rilevare come i dati presentati dall’ANVUR, se non confortano, certo non sorprendono, laddove si tenga a mente quella che è la situazione complessiva delle lavoratrici italiane. Il Global Gender Gap Index del World Economic Forum, che misura annualmente la disparità di genere in 146 Paesi, attraverso un articolato sistema di indicatori , ci ha impietosamente ricordato che nel 2023 l’Italia, su 146 Paesi considerati, si collocava nella classifica generale al 79° posto, con una perdita di ben 16 posizioni rispetto al già deprimente 63° posto rimediato nel 2022, ed in posizione assai lontana da molti tra i partners europei . Guardando poi all’indicatore specifico concernente le opportunità economiche e lavorative, il risultato è stato ancora più sconfortante, con un davvero disonorevole 104° posto. Anche il Gender Equality Index misurato dall’European Institute for Gender Equality (EIGE) dell’Unione europea vede il nostro Paese – che a livello generale si colloca al 13° posto – precipitare al 22° posto in relazione al tema della segregazione e della qualità dell’occupazione femminile, ed al 27° ed ultimo posto con riguardo alla partecipazione delle donne al lavoro .
Questi numeri, peraltro, sono lo specchio fedele di una situazione ben nota: in Italia, attualmente, sebbene negli ultimi anni si sia registrato un progressivo, anche se lieve, incremento, quasi una donna su due non ha un lavoro esterno alla famiglia (a gennaio 2024 il tasso di occupazione femminile risultava essere pari al 53%), con evidenti riverberi anche sul livello di indipendenza economica: quattro donne su dieci non sono titolari di un proprio conto corrente, tre su dieci non hanno un reddito individuale sufficiente, due su tre non hanno alcuna autonomia nel gestire il budget familiare o personale, dovendo di fatto sempre chiedere (o rendere conto) ad un uomo. Una situazione che ha evidenti risvolti anche sul piano, drammatico, della concreta possibilità di sottrarsi ad eventuali forme di violenza endofamiliare: per una donna priva di un lavoro e di risorse economiche proprie, uscire da questi contesti può, di fatto, risultare assi difficile se non impossibile. Inoltre, non solo le donne italiane hanno meno opportunità occupazionali degli uomini e partecipano in misura inferiore al mercato del lavoro, ma patiscono ancora un persistente divario salariale (il c.d. gender pay gap) – che nel 2021 Eurostat stimava in media essere del 15,5% nel settore privato e del 5,5% nel settore pubblico – riconducibile a molteplici fattori: tra questi, la maggiore incidenza sulla componente femminile di forme di impiego ad orario ridotto (in Italia, tra i part-timers, le donne sono più di 9 su 10), modalità spesso subìta più che scelta da tante lavoratrici, quale strumento per far fronte alle esigenze di cura familiari laddove siano carenti le necessarie infrastrutture sociali (a partire dagli asili nido); ma a determinare i divari salariali rileva anche la maggiore incidenza sulla componente femminile di forme di lavoro instabile e precario, così come il fenomeno della segregazione occupazionale, tanto verticale quanto orizzontale, per cui le lavoratrici si concentrano maggiormente nei profili di carriera inferiori (le donne tra i dirigenti sono poco più del 20% del totale) ed in alcuni settori economici (quali, ad esempio, i servizi alla persona, il turismo, i servizi alle imprese) dove le retribuzioni sono meno elevate. A questo proposito, si deve rilevare come le donne risultino essere purtroppo ancora significativamente sottorappresentate proprio in quei settori emergenti su cui si stanno concentrando molti investimenti legati al P.N.R.R. – si pensi al digitale, ai processi di transizione energetica, all’economia green – e che sono in grado di offrire, anche in prospettiva futura, prospettive occupazionali ed economiche di sicuro interessane.
Infine, per chiudere queste notazioni introduttive, il divario di genere non si registra solo nell’ambito del lavoro subordinato, ma è ancora molto presente anche nel mondo del lavoro autonomo e dell’imprenditoria: solo il 22% delle imprese italiane è infatti a guida femminile, e per una buona metà si tratta di imprese individuali, quindi piccole o piccolissime; anche per le imprenditrici, dunque, il percorso è spesso in salita, con la necessità di contrastare stereotipi e pregiudizi, che non di rado ostacolano iniziative e potenzialità, per esempio laddove possono rendere più difficile per le donne ottenere finanziamenti per la propria attività.
Se questo è il contesto generale, dunque, non desta stupore il fatto che la presenza femminile nelle istituzioni scientifiche (università, istituti di ricerca, associazioni scientifiche, ecc.), incontri ancora ostacoli, che si manifestano in molti modi: da una persistente sottorappresentazione nei profili apicali di carriera, alla maggiore difficoltà nell’accedere ai finanziamenti per le proprie ricerche, alla persistente ricorrenza di eventi scientifici che vedono ancora panel – in tutto o per la maggior parte – costruiti al maschile . D’altra parte, siamo anche il Paese nel quale, in una nota trasmissione televisiva, è sembrato di recente normale ed accettabile immaginare che, a discutere di un tema come l’aborto, potessero esserci solo degli uomini.
In questo panorama, che certo non conforta e che ci dice quanto ancora si debba lavorare a livello culturale per superare le discriminazioni di genere, il recente Focus del Rapporto ANVUR 2023 fornisce una serie importante di dati, utili anche per immaginare interventi correttivi. Le autrici precisano subito, fin dall’introduzione, che
«Nonostante i dati indichino una maggiore presenza femminile nell’istruzione universitaria, si evidenzia un di¬vario di genere per quanto riguarda gli ambiti di studio scelti dalle donne, iscritte prevalentemente nelle aree artisti¬che, umanistiche e sociali, rispetto a quelli nei quali emergono essere prevalenti gli uomini, ossia le scienze ingegne¬ristiche, tecnologiche e matematico-informatiche. Egualmente, si osserva un divario di genere rispetto all’accesso alle posizioni apicali nelle carriere accademiche dove le donne, pur osservando un incremento negli anni, restano in numero inferiore.»

Premesso che dal Rapporto emerge come in Italia, in termini generali, la percentuale di donne tra il personale docente universitario, sia pure in lieve aumento (dal 36,9% nel 2013 al 38,3% nel 2021), sia inferiore a quella osservata nella maggior parte dei Paesi dell’Unione europea, in questa sede vogliamo concentrare l’attenzione sugli esiti dell’analisi di genere condotta in sede ANVUR in relazione ad un settore specifico, quello dell’Area 12, riferita alle Scienze giuridiche; un ambito tra l’altro nel quale, non dimentichiamolo, in seno alla componente studentesca vi è ormai un’ampia maggioranza femminile.
In prima battuta, è necessario segnalare che, analizzando la composizione di genere del personale docente universitario nel suo complesso, dunque con riguardo a tutte le 14 Aree scientifiche, il Rapporto indica come – nel decennio 2012-2022 oggetto della ricerca – si sia comunque registrato un aumento della presenza delle donne in tutte le fasce della docenza: in particolare, tra gli Ordinari si rileva un aumento della presenza femminile dal 20,9% del 2012 al 27% del 2022, mentre tra gli Associati le donne passano dal 34,9% al 42,3%; quanto ai Ricercatori, la forbice è ormai assai contenuta, sia pure con ancora una lieve prevalenza maschile (nel 2022: 50,9% vs. 49,1%; nel 2012 gli uomini erano il 54,5%). Guardando alle prospettive future dell’accademia, interessante è anche osservare che, tra i titolari di assegni di ricerca, nel 2022 si registra una sostanziale parità, con le assegniste che anzi superano sia pur di poco la presenza maschile, attestandosi al 50,3% (percentuale a cui contribuiscono in modo significativo i dati relativi alle Scienze mediche e biologiche – con percentuali rispettivamente del 70,5% e del 66,2% - oltre che quelli relativi agli Studi umanistici di cui alle Aree 10 e 11 – 60% e 60,4% - ed alle Scienze politiche e sociali, che vedono la presenza femminile attestarsi al 58,9%).
Anche con specifico riguardo all’Area delle Scienze giuridiche si conferma nel decennio questa tendenza all’aumento della componente femminile, così come una presenza delle donne che in tutte le fasce risulta comunque sempre ancora inferiore al 50% e decresce progressivamente con il crescere del livello di inquadramento. In particolare, nell’Area 12, tra gli Ordinari la percentuale delle donne passa dal 20,9% del 2012 al 28,8% del 2022; tra gli Associati, dal 36,1% al 45,2%; per i Ricercatori, infine, la presenza femminile aumenta dal 47,3% al 47,8%. Quanto agli Assegnisti, vi è una sostanziale parità, con le donne che si attestano al 49,9%, dunque con un dato che in questo caso risulta invece lievemente inferiore a quello medio nazionale.
Nel 2022 si osserva dunque, in relazione tanto alla prima quanto alla seconda fascia della docenza, un risultato migliore dell’Area 12, sia pur di poco, rispetto al dato complessivo medio nazionale, mentre per i Ricercatori e gli Assegnisti il dato registrato appare essere inferiore a quello medio nazionale. Se dunque la presenza femminile cresce nei ruoli accademici più elevati, lo fa però assai lentamente; laddove tali ritmi di crescita restassero stabili, e considerando ad esempio la prima fascia della docenza, a fronte di solo otto punti percentuali in aumento registrati nel decennio 2012-22022, potrebbero volerci quasi trent’anni per arrivare ad una sostanziale parità: un lasso di tempo, francamente, inaccettabile.
Scendendo poi nello specifico, alcune indicazioni interessanti arrivano anche dal confronto tra i diversi settori scientifico-disciplinari interni all’Area delle Scienze giuridiche, che evidenziano significative differenze nella dinamicità dei percorsi di crescita della componente femminile nel decennio 2012-2022 preso in considerazione dal Rapporto ANVUR.
Partendo dalla prima fascia della docenza, si va da settori dove la presenza femminile nel decennio è aumentata tra gli Ordinari in misura superiore al 10% (tra questi, il Diritto comparato, il Diritto costituzionale, il Diritto ecclesiastico e canonico, il Diritto processuale penale, il Diritto romano e Diritti dell’antichità), superando dunque il dato medio complessivo nazionale relativo a tutte le Aree scientifiche, che segnala un aumento più contenuto e pari al 6,1%, a settori dove si supera comunque – sia pure talora di poco – tale dato medio complessivo (Diritto del lavoro, con un aumento del 6,4%; Diritto amministrativo, + 8,6 %; Storia del Diritto medievale e moderno, + 6,8%; Filosofia del diritto, + 6,2%), mentre gli altri settori dell’Area delle Scienze giuridiche restano sotto il dato medio complessivo, con il Diritto penale fanalino di coda, dal momento che nel decennio registra un aumento della componente femminile pari solo ad uno striminzito 0,6%. Peraltro, proprio quest’ultimo settore è tra quelli che fanno registrare una delle percentuali di aumento più significative in relazione alla seconda fascia della docenza (+18%), a fronte di un dato medio complessivo per tutte le 14 Aree scientifiche che è pari al 7, 4%. Ma il dato nazionale è ampiamente superato, con riguardo alle Associate, anche da molti altri settori disciplinari dell’Area 12 (Diritto del lavoro, +13,7%; Diritto ecclesiastico e canonico, +24,1%; Diritto amministrativo, +14,9%, Diritto tributario, +12,2%, Diritto comparato, +20,9%; Diritto processuale civile, +9,6% Diritto processuale penale, +9,8%; Storia del Diritto medievale e moderno, +15,3%). Si tratta di aumenti significativi, che aiutano a ben sperare – nella consapevolezza che, peraltro, non vi sono automatismi – in una dinamica di crescita futura più vivace anche nel passaggio dalla seconda alla prima fascia; colpiscono, invece, in controtendenza, i dati di Filosofia del diritto e di Diritto dell’economia e dei mercati finanziari ed agroalimentari, che registrano nel decennio una diminuzione della componente femminile nella seconda fascia della docenza pari, rispettivamente, al 4,1% e al 5%., anche se in qualche modo ‘compensata’, come abbiamo già segnalato, da un parallelo aumento delle donne nella prima fascia superiore al dato medio nazionale (e pari, rispettivamente, al 6,2% e al 15%). Per la seconda fascia, peraltro, la parità con gli uomini è decisamente assai più vicina, alla luce del dato che – come abbiamo già sopra ricordato – vede le Associate di Area 12 aver superato nel 2022 la percentuale del 45% sul totale.
Un altro dato interessante fornito dal Rapporto riguarda il rapporto di genere nella VQR 2015-19; in questo caso permane, nell’Area 12, un lieve vantaggio nei punteggi medi degli uomini (0,692) rispetto a quelli delle donne (0,661); questo gap si registra peraltro in quasi tutte le Aree GEV, fatta esclusione per GEV 06 (Scienze mediche), GEV 07 (Scienze agrarie e veterinarie), GEV 08a (Architettura) e GEV13b (Economia Aziendale) che vedono un punteggio lievemente superiore per le donne. Nei settori SSH (che il Rapporto valuta nel loro complesso) risultano comunque assai contenute – nelle diverse fasce della docenza – le differenze di punteggi tra uomini e donne. Interessante anche segnalare che i prodotti associati alle donne dei GEV SSH hanno un punteggio medio lievemente superiore per le università telematiche, mentre gli uomini registrano un lieve vantaggio negli atenei statali e non statali e per le scuole speciali.
Conclusivamente, se ovviamente va salutato con favore il dato positivo legato all’aumento della presenza femminile nelle diverse fasce della docenza in seno all’Area 12, tuttavia la lentezza del processo, in particolare con riguardo alla prima fascia, interroga su possibili correttivi che consentano di accelerare i tempi. In quest’ottica, importanti appaiono alcuni strumenti, a partire dall’attenzione da riservare, da parte della governance dei singoli atenei, allo strumento del bilancio di genere, che consente di raggiungere due obiettivi, avendo una duplice funzione: da un lato, quella di fornire una fotografia accurata ed aggiornata della distribuzione femminile nei diversi ruoli della docenza; dall’altro, quella di fornire una base concreta ed allo stesso tempo di diventare un repertorio delle azioni e degli interventi correttivi messi via via a punto per una rappresentanza di genere più equa ed equilibrata nei diversi percorsi di carriera. Si tratta, dunque, di individuare indicatori e politiche, così come di disseminare le buone prassi adottate.
In quest’attività di contrasto alla discriminazione di genere – che deve essere necessariamente implementata anche alla luce delle richieste specifiche dell’Unione europea (a partire da quelle legate al finanziamento dei progetti di ricerca), così come delle indicazioni del P.N.R.R. – un ruolo centrale potrà e dovrà essere anche giocato dai C.U.G. (i Comitati Unici di Garanzia), ai quali non a caso il Rapporto dell’ANVUR dedica un paragrafo specifico; si tratta infatti di soggetti ai quali la legge affida tra l’altro un ruolo propositivo, presso gli organismi di governo degli Atenei, di azioni positive e best practices per il riequilibrio di genere. Parallelamente, un utile strumento può essere anche dato dallo sviluppo di specifici percorsi formativi volti ad approfondire, in seno alle istituzioni di ricerca, la capacità di individuare e contrastare possibili pratiche generatrici di distorsioni di genere nei modelli organizzativi e nell’attività lavorativa, così come necessario appare un attento monitoraggio del gender balance in tutte le diverse iniziative (di ricerca, di divulgazione scientifica, ecc.) adottate, per impedire che continuino a vedersi panels declinati interamente al maschile, che continuano a relegare in secondo piano talenti e competenze femminili. Le azioni da intraprendere dunque possono essere molte, ma alla base resta sempre necessario operare per orientare – anche nell’ambiente accademico – un definitivo cambio di mentalità che non può non chiamare in causa direttamente gli uomini, affrontando la questione della presenza femminile nelle carriere non tanto in una logica di contrapposizione, quanto attivando pratiche di analisi, confronto e dialogo che valorizzino una prospettiva di condivisione degli obiettivi di riequilibrio e di ripensamento dei modelli di genere fino ad ora imperanti in tema di percorsi di carriera, organizzazione del lavoro e finanche di valutazione dei prodotti della ricerca.
In fondo, laddove non si voglia considerare il costo per il nostro Paese dello ‘spreco’ che ancora avviene dei talenti femminili (formati e poi, non di rado, ‘regalati’ alle istituzioni scientifiche di altri Paesi) - circostanza che già di per sé dovrebbe muovere all’azione - si tratta comunque di una questione di democrazia, la cui soluzione potrebbe rivelarsi utile anche agli uomini, nella misura in cui questi ultimi siano disponibile ad una prospettiva che abbraccia inevitabilmente anche un ripensamento del lavoro (a partire dai suoi modelli organizzativi), così come un’apertura a nuovi approcci alla ricerca.

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