testo integrale con note e bibliografia
1.- Introduzione e ordine di trattazione degli argomenti.
A partire dalla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani proclamata il 10 dicembre 1948 dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite , gli Stati membri dell’ONU (e via via anche quelli che vi hanno aderito successivamente) hanno assunto l’impegno solenne di riconoscere che “tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti”, muovendo dalla considerazione secondo cui «il riconoscimento della dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana e dei loro diritti, uguali e inalienabili, costituisce il fondamento della libertà, della giustizia e della pace» .
Il lavoro è da sempre considerato lo strumento migliore per onorare questo impegno solenne, quale veicolo primario di promozione della pari dignità.
L’avvento della IV rivoluzione industriale − sinteticamente detta dell’intelligenza artificiale – nonché, su un altro versante, la pandemia da Covid-19 e ora la guerra in Ucraina e in Medio Oriente rendono ancor più evidente questa vocazione del lavoro.
Ne consegue che non si può parlare di diritto al lavoro dei migranti, senza inserire questo argomento nel più ampio contesto del riconoscimento a tutti gli individui del diritto ad un lavoro dignitoso come diritto umano fondamentale, quale si rinviene in molte Carte internazionali, a cominciare dall’art. 23 della citata Dichiarazione universale (e dalle molteplici Convenzioni settoriali che ad essa hanno fatto seguito) ed anche, come meglio vedremo in seguito, nella nostra Costituzione.
Va, inoltre, considerato che l’efficacia dei molteplici strumenti giuridici a disposizione in ambito ONU, UE, nel sistema CEDU e in quello nazionale per la garanzia dei diritti fondamentali degli immigrati rappresenta, in un certo senso, il banco di prova delle democrazie contemporanee.
2.- La dimensione sociale del diritto al lavoro tra quarta rivoluzione industriale, pandemia di Covid-19, guerre in Ucraina e in Medio Oriente.
In tutte le citate Carte internazionali ed anche, come meglio vedremo in seguito, nella nostra Costituzione il diritto al lavoro dignitoso è ‒ sia pure in termini non del tutto coincidenti ‒ configurato come un diritto che inerisce ad ogni persona, ma allo stesso tempo è collettivo, in quanto dalla sua attuazione dipende il miglioramento del benessere dei singoli e contemporaneamente del corpo sociale in cui sono inseriti e, quindi, il futuro di entrambi.
E questa dimensione sociale del diritto al lavoro è propria anche della nostra Costituzione.
Tuttavia, questa impostazione, specialmente negli ultimi trent’anni benché mai espressamente negata, è andata via via “scolorendo”.
Infatti, nel nostro Stato, nella UE ma anche negli Stati di altri continenti non sono stati favoriti “progressi duraturi in termini di creazione netta di lavoro dignitoso”, considerando tale obiettivo centrale per lo sviluppo equo e sostenibile, come più volte sottolineato in sede ONU e dall’OIL.
Così, per un processo di eterogenesi dei fini ‒ cioè come conseguenza non intenzionale di azioni che, almeno all’apparenza, si dichiaravano intenzionalmente dirette a contrastare la disoccupazione ‒ è accaduto che, in quella che il compianto Zygmunt Bauman ha definito “società liquida”, anche il lavoro è diventato “liquido” e cioè è diventato “occupazione”, termine che si collega ad un’attività che consente di procurarsi un reddito e di vivere o anche solo sopravvivere nel presente, a differenza del “lavoro” che, per come lo intende anche la nostra Costituzione, non solo consente di procurarsi un reddito, ma anche di farlo mettendo a frutto i propri talenti e dando così un “un contenuto concreto” alla partecipazione del singolo alla comunità, in una dimensione che non è quindi solo legata al presente ma è proiettata verso il futuro.
Questa trasformazione è stata una conseguenza della globalizzazione che, nella fase attuale iniziata negli anni novanta del novecento (fase chiamata globalizzazione neo-liberista), nasce da ragioni tecnologico/scientifiche e, come tale, è un fenomeno economico-sociale inarrestabile perché legato all’evoluzione della stessa società moderna.
Un altro fenomeno irreversibile è rappresentato dalla quarta rivoluzione industriale – sinteticamente chiamata rivoluzione dell’intelligenza artificiale – che ha fatto la sua prima comparsa ufficiale nel lontano 2011 quando alla Fiera di Hannover − la più importante manifestazione mondiale sull’industria − per la prima volta è stata utilizzata l’espressione “Industria 4.0” per indicare il passaggio verso un tipo nuovo di industrializzazione fondato su un mix tecnologico di automazione, digitalizzazione, connessione e programmazione, con conseguente cambio totale dei paradigmi tecnologici e culturali fino ad allora esistenti.
Questa rivoluzione, infatti, ha un impatto sulla società nel suo complesso molto più incisivo delle precedenti rivoluzioni industriali , perché non riguarda solo l’industria o il mondo produttivo in senso stretto, ma si caratterizza per la crescente compenetrazione tra mondo fisico, digitale e biologico con importanti riflessi etici.
E ha notevoli effetti anche sul mondo del lavoro, comportando il rischio di perdita dei lavori completamente automatizzabili (che però sono una minima percentuale) e la trasformazione digitale dei lavori nei quali solo alcune funzioni sono automatizzabili, con conseguente richiesta di lavoratori più competenti e in grado di svolgere mansioni più complesse e non automatizzabili, di tipo cognitivo e non routinario.
In definitiva si sostiene che robot e software, pur facendo sparire posti di lavoro del tipo indicato (che però sono una minoranza) hanno e avranno come effetto specifico quello di far sparire compiti e mansioni ripetitivi e quindi di puntare sulla qualità piuttosto che sulla quantità del tempo dedicato al lavoro.
E il capitale umano necessario per questa operazione si trova in quei luoghi dove operano università, centri di formazione e centri di ricerca, non solo di tipo strettamente tecnico.
Ora agli effetti sul mondo del lavoro derivanti dalla quarta rivoluzione industriale dobbiamo sommare quelli della pandemia di Covid-19 (ancora percepiti in alcune realtà produttive).
La somma di questi effetti potrebbe comportare un aumento degli “occupati a rischio povertà” già da tempo molto numerosi anche in Europa e in Italia.
Al forte impatto sulle dinamiche del mondo del lavoro derivanti dalle anzidette situazioni devono ora aggiungersi le conseguenze delle guerre in Ucraina e in Medio Oriente, che hanno cambiato drasticamente lo scenario nazionale e internazionale.
E deve anche sottolinearsi che l’indicata trasformazione del mercato del lavoro non riguarda i milioni di persone che, a partire dai Paesi meno sviluppati, continuano ad occupare quei ganci più bassi delle catene del valore svolgendo lavori manuali senza alcun innalzamento del livello delle competenze, spesso anche non registrati regolarmente.
E spesso immigrati.
3.- L’economia “non osservata”.
In questa complessiva situazione si rinviene anche nel nostro Paese un’ampia fetta di c.d. economia “non osservata” che sfugge alle rilevazioni ed ha una componente di economia sommersa e una di economia illegale, che, da recenti rilevazioni ISTAT, risulta essere in crescita e vale mediamente ben 203 miliardi di euro, pari all’11,3% del PIL per anno.
In questa economia si inseriscono le situazioni dei lavoratori irregolari e in nero, molti dei quali immigrati (ma anche connazionali) presenti in tutto il territorio nazionale non solo nei settori della edilizia e della agricoltura ma anche in molti altri settori come ad esempio in quelli dei rider, dei driver e degli altri lavoratori al servizio delle piattaforme digitali, con rapporti di lavoro non registrati che espongono particolarmente al rischio di infortuni e possono costringere a turni massacranti con salari miserabili, se non addirittura in situazioni schiavistiche.
A ciò va aggiunto che nel nostro Paese abbiamo la più bassa percentuale di under 35 di Europa e che, in compenso, ogni anno aumentano i cittadini soprattutto giovani (ma non solo) che emigrano. Così dal Rapporto Italiani nel Mondo 2024 curato dalla Fondazione Migrantes risulta che la comunità dei cittadini e delle cittadine residenti all’estero è composta da oltre 6 milioni 134 mila unità: da tempo, sicché l’unica Italia a crescere continua ad essere soltanto quella che ha scelto l’estero per vivere.
D’altra parte, dalla nota Paese dell’OCSE su Occupazione in Italia 2024 risulta che, nonostante il rallentamento della crescita economica dalla fine del 2022, il mercato del lavoro italiano ha raggiunto livelli record di occupazione e livelli minimi di disoccupazione e inattività, anche se il tasso di disoccupazione in Italia 6,8% a maggio 2024) è ancora al di sopra della media OCSE del 4,9%.
Inoltre, il nostro Paese che ha registrato il maggior calo dei salari reali tra le maggiori economie dell’OCSE.
L’Italia, poi, spende meno della media OCSE in istruzione per individuo e, come in altri Paesi, l’investimento sul sociale ovvero sul presente penalizza quello sull’istruzione e sul futuro
Peraltro, è tutta la UE che invecchia e cresce molto meno di altri luoghi del mondo, non solo dal punto di vista demografico, ma anche produttivo, come è attestato dal Rapporto Draghi sulla competitività che rintraccia nella crescita la sfida esistenziale del Vecchio Continente i cui valori fondamentali sono la prosperità, l’equità, la libertà, la pace e la democrazia in un ambiente sostenibile.
In questa Europa la tendenza alla denatalità continua a manifestarsi in tutti i Paesi ma in Italia in modo particolarmente severo e con costanti – e pare inarrestabili - aumenti dal 2009 secondo i dati elaborati dall’ISTAT.
E si deve considerare che non si tratta soltanto di un dato statistico, ma di un fenomeno con conseguenze profonde e a lungo termine che si riflettono su vari aspetti della società, basta solo pensare che per effetto della riduzione della forza lavoro potenzialmente si limita la crescita economica. E secondo alcune attendibili previsioni, se il trend rimarrà inalterato, nel 2042 si potrebbe avere una perdita del PIL fino al 18%.
Il calo demografico risulta più sensibile nelle aree interne del nostro Paese e, in particolare, in quelle del Mezzogiorno che soffrono per una triplice perdita: il calo demografico nazionale, la mobilità interna e le partenze verso l’estero.
Anche i Paesi dell’Europa occidentale e del Nord soffrono una crisi delle nascite simile a quella Italiana e questo non può non preoccupare visto che, in ambito internazionale, il nostro Continente si deve confrontare con giganti demografici come India e Cina.
Dobbiamo pensare che lo scenario internazionale attuale è molto diverso da quello esistente al tempo in cui Robert Schuman, allora ministro degli Esteri francese, il 9 maggio 1950 propose la creazione di una Comunità europea del carbone e dell'acciaio, dando l’avvio a tutto il processo di creazione dell’attuale Unione europea.
All’epoca l’Europa era più forte di oggi demograficamente ed economicamente, in rapporto alla situazione esistente.
Oggi il nostro Continente è in condizioni molto diverse e il calo demografico viene considerato un primo elemento di declino.
Va sottolineato che tenere presenti queste problematiche significa puntare ad ottenere un mondo del lavoro inclusivo nel quale non ci si preoccupi prevalentemente del PIL ma si pensi invece al “capitale umano e sociale” anche extra-UE proprio come “investimento”.
E questo da parte di tutti i “decisori” – secondo la terminologia OIL – ma pure da parte della società civile, anche considerando che il nostro Paese è il terzo tra i Paesi OCSE per il livello della pressione fiscale. Infatti, nel 2023 questo livello era pari al 42,8% - dopo quello della Francia pari al43,8% e quello della Danimarca pari al 43,4% - stabile rispetto all'anno precedente, ma ben al di sopra della media dell'organizzazione che è pari al 33,9%.
Quindi, almeno sulla carta, le risorse ci sarebbero e forse neppure ne servono tante, perché quello che si richiede è una modifica di comportamento e di prospettiva: considerare la conciliazione tra tempi di vita e di lavoro, la tutela della salute fisica e psichica e la corresponsione di salari adeguati come investimenti per il presente e per il futuro.
Del resto, il PIL, ad esempio, non considera la crescita delle diseguaglianze nei diversi territori e valuta come positivi anche alcuni costi sociali e ambientali. Non misura il reale benessere (welfare) della società, non tenendo conto di indicatori come salute, conciliazione fra lavoro e tempi di vita, cultura, istruzione, sostenibilità ambientale, qualità dei servizi, del paesaggio e delle relazioni sociali … tutti fattori che rendono la vita soddisfacente e degna di essere vissuta.
Questa è invece la filosofia su cui si basano l’economia della felicità e l’annuale Rapporto sulla felicità (World Happiness Report ), diffuso annualmente in ambito ONU, secondo cui le componenti di base della “felicità” ‒ cioè del benessere ‒ di una popolazione sono: reddito, salute, generosità, fiducia (forza della rete sociale di supporto), libertà e assenza di corruzione.
4.- Alcune realtà aziendali felici.
Purtroppo, questo non sta avvenendo e i datori di lavoro, pubblici e privati, nel nostro Paese in maggioranza non accedono alla suddetta logica.
Però vi sono avveduti imprenditori che ritengono che: «Se le persone stanno bene, si sentono realizzate, fanno qualcosa per cui si sentono utili, riescono anche a lavorare meglio. E se lavorano meglio i nostri collaboratori, anche la azienda ottiene risultati migliori». Queste sono le parole usate da Katia Abondio, amministratore delegato di Fedabo, una Esco fondata nel 1999 a Darfo Boario Terme, in provincia di Brescia, assieme al socio Andrea Fedriga.
Oggi l’azienda ha un fatturato di circa 7 milioni di euro e una sessantina di dipendenti (per il 43% donne) e ritiene che tenere viva una comunità, offrire ai giovani un’idea di futuro, dare alle persone l’opportunità di svolgere un lavoro appagante, ma anche di costruirsi una famiglia, fare figli e spendersi per il proprio territorio sia una forma di contrasto alla denatalità e all’impoverimento demografico.
La Fedabo è una B-Corp ma anche molte imprese di tipo tradizionale condividono tale impostazione.
Ad esempio, la grande impresa Ferrero – come risulta dal suo sito web – “crede fermamente che diversità e inclusione rappresentino valori indispensabili per il successo a lungo termine dell’azienda. Ci impegniamo a motivare i nostri dipendenti, ad assegnare loro maggiori responsabilità decisionali e a migliorare il loro livello di attenzione verso le esigenze dei consumatori. Con oltre 38.000 dipendenti che operano in oltre 50 Paesi, dobbiamo coinvolgere e garantire opportunità di crescita professionale a tutti se vogliamo mantenere la nostra leadership nel settore. Questo significa ascoltare e tenere conto delle loro opinioni, creando un ambiente di lavoro in cui le persone si sentano valorizzate e possano migliorare”.
E, in base ad un accordo siglato dalla Ferrero con i sindacati, i seimila lavoratori dell’azienda in servizio (impiegati e operai, dirigenti esclusi) dell’azienda dolciaria nella busta paga di ottobre 2023 hanno ricevuto un premio di risultato di circa 2.400 euro, legato agli obiettivi raggiunti. Nell’accordo si legge che l’azienda e le organizzazioni sindacali hanno espresso «piena soddisfazione per i risultati conseguiti, ponendo al centro l’attenzione e la tutela della persone, l’importanza dei legami sociali e riconoscono il ruolo strategico di consolidate e proficue relazioni industriali».
I dati ci dicono che questa è la strategia vincente e che la trasformazione digitale chiama i datori di lavoro a realizzare ambienti lavorativi caratterizzati da un mix di tecnologia, formazione, inclusione e quindi fiducia circolare. Un modello nel quale vengono valorizzati insieme le persone e il bene della struttura lavorativa (privata o pubblica).
Una simile ottica dovrebbe, a maggior ragione, essere propria delle Pubbliche Amministrazioni e in questo dovrebbe consistere l’auspicato cambiamento di prospettiva richiesto da tempo da UE e OIL che, dalle Pubbliche Amministrazioni – che sono lo specchio dello Stato – dovrebbe diffondersi anche nel lavoro privato.
Per abbandonare la suindicata logica di tipo aziendalistico nel lavoro pubblico che è diffusa anche grazie ai contratti non standard (specialmente: contratti a termine e somministrazione a termine) si potrebbe, ad esempio, cominciare dalle parole, tornando a chiamare le strutture del SSN “Unità Sanitarie Locali” invece che “Aziende Sanitarie Locali” perché le strutture sanitarie non possono essere considerate aziende, neppure solo nominalmente.
Si potrebbe poi basare la concorrenza tra le scuole o le università non sulla realizzazione di strategie di marketing ma sul “valore aggiunto” prodotto, inteso come il miglioramento apportato alla preparazione degli studenti dall’aver frequentato uno specifico istituto scolastico o universitario.
E, per gli appalti pubblici, si potrebbero effettuare i previsti controlli sulle condizioni di lavoro anche con riguardo alle ipotesi di subappalto (che ricorre nelle cronache sulla morte dei lavoratori) e per i lavori che si possono affidare senza gara (che sono in aumento).
Va anche detto che, diversamente dalle aspettative, la logica aziendalistica nelle Pubbliche Amministrazioni, come sottolineato dalla Corte dei conti. ha favorito l’aumento sia dei costi (anche per l’imponente contenzioso) sia dei comportamenti scorretti dei dipendenti: dalla burocrazia difensiva a veri e propri illeciti penali.
In tutto questo, specialmente nel settore privato la precarizzazione spesso si è accompagnata a basse retribuzioni (lavoro povero) in nero e con scarse tutele antinfortunistiche e quindi molti infortuni anche mortali, oltre a malattie professionali e molestie e violenze (tutte situazioni in aumento). Mentre, nel lavoro pubblico, si sono avute situazioni di precariato di lunghissima durata (basta pensare al c.d. esercito invisibile delle maestre precarie “storiche” del comune di Roma che hanno lavorato per più di dieci anni nei nidi e nelle materne del Comune senza essere stabilmente assunte).
In sintesi, a tutti i lavoratori precari, sia pubblici sia privati, vanno riconosciuti gli stessi diritti fondamentali anche perché a questo ci obbligano la direttiva 1999/70/CE e l’accordo quadro sui contratti a tempo determinato ad essa allegato.
Ma, in entrambi i settori, i datori di lavoro spesso violano questo principio fondamentale e le relative specificazioni.
5.- Chi sono i lavoratori immigrati in Italia.
In prevalenza anche in Europa e nella UE – fondata sul riconoscimento della pari dignità di tutti gli esseri umani – la situazione del mondo del lavoro – anche se statisticamente aumenta l’occupazione - sta precipitando e con essa la dimensione sociale del diritto al lavoro, che non essendo stata amministrata in modo adeguato ‒ ponendo al centro dell’attenzione la qualità del lavoro per tutti i consociati, in condizioni di uguaglianza offre un quadro nel quale spesso il lavoro è povero e i diritti fondamentali non vengono riconosciuti, specialmente alle donne.
In questo il lavoro degli immigrati e l’argomento della immigrazione, in genere, sono diventati questioni di divisione tra le persone e uno degli alimenti principali dei rigurgiti xenofobi che si vanno registrando in tutti i Paesi europei ‒ comprese le nostre città ‒ e che portano ad imputare alla presenza degli immigranti anche la disoccupazione dei nativi, in una complessiva ottica di “invasione emergenziale”
Si tratta di un argomento che non trova riscontro nei dati anche recenti del Ministero del Lavoro secondo cui nel 2022 gli immigrati sbarcati in Italia sono stati 94.343, nel 2023 sono stati 151.218 e nel 2024 (fino al 21 novembre) sono stati 60.509.
D’altra parte, secondo il Centro studi di Confindustria il nostro Paese avrà bisogno di almeno 120mila lavoratori stranieri all’anno per i prossimi cinque anni, per un totale di 610mila nuovi ingressi, al fine di mantenere i ritmi di crescita economica previsti.
Peraltro, sia tra i lavoratori italiani sia tra gli immigrati occupati nel nostro Paese molti nutrono profonda incertezza sul proprio futuro al punto tale da ritenere di perdere il proprio impiego. L’orizzonte temporale che si apre dinanzi a questi lavoratori è di breve durata, innervato di incertezze e timori. Il rischio percepito aumenta al crescere dell’età.
E i suddetti dati ovviamente non comprendono l’economia “non osservata”, molto ingente nel nostro Paese, come si è detto, e in gran parte riguardante i lavoratori immigrati.
Eppure va ricordato che la stessa Commissione UE, in più occasioni, ha evidenziato che un eventuale aumento del numero di migranti per gli Stati membri se nel breve periodo può comportare difficoltà, politiche ed economiche, collegate alla relativa accoglienza, comunque nel medio-lungo periodo è da considerare come un elemento idoneo a influire in maniera positiva sulla situazione finanziaria dei Paesi ospitanti.
Anche il Fondo Monetario Internazionale (FMI) sostiene da tempo che le migrazioni attuali possono avere effetti positivi per le economie europee, contribuendo al tasso di crescita del PIL, purché i Governi siano in grado di garantire ai migranti un processo di assimilazione nell’economia nazionale rapido ed efficiente ed una flessibilità alta all’interno del mercato del lavoro.
E il FMI ha sottolineato che ogni sforzo di reprimere la migrazione internazionale non farebbe altro che esacerbare le pressioni demografiche, con conseguenze nefaste per la crescita delle economie avanzate e la tenuta dei loro sistemi di sicurezza sociale.
6.- Riconoscimento ai migranti dei diritti fondamentali.
Abbiamo detto che il lavoro è da sempre considerato il veicolo primario di promozione della pari dignità umana e sociale.
Questo vale in particolare nel nostro ordinamento nel quale i Padri Costituenti - pur avendo attribuito nella Carta un ruolo centrale alla persona umana e al rispetto della persona ‒ per una precisa scelta , anziché dedicare un apposito articolo alla tutela della dignità umana, hanno seguito una diversa impostazione, che si è tradotta nella solenne proclamazione, al primo comma dell’art. 1, che «l’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro».
In tal modo è stato creato un profondo collegamento tra democrazia e lavoro, configurandosi la questione democratica come questione del lavoro.
Ne consegue che, nel nostro ordinamento, per far vivere la democrazia non basta alzare il livello culturale della popolazione o offrire una “occupazione”, ma è necessario favorire l’affermazione ‒ come tipo di lavoro dominante ‒ di un lavoro che sia compatibile con il modello avuto di mira dai Costituenti.
Cioè: un lavoro diretto al benessere – materiale e spirituale − del singolo e della società e che consenta a ciascuno di coltivare le proprie aspettative personali – anche affettive – programmando, con sacrifici ma con serenità, il proprio futuro, in una condizione in cui vi sia armonia tra lo sviluppo della personalità individuale, che ha bisogno di certezze e di stabilità, e l’esperienza di vita e lavorativa.
Un lavoro che non è solo un mezzo di sostentamento economico, ma anche una forma di accrescimento della professionalità e di affermazione dell’identità, personale e sociale, come tale tutelato dagli articoli 1, 2 e 4 Cost. (Cass. 18 giugno 2012, n. 9965).
Allo stesso tempo il lavoro, così configurato, è stato collegato alla tutela della salute, da intendere come “stato di completo benessere fisico, mentale e sociale” e non come “semplice assenza dello stato di malattia o di infermità”, secondo la definizione contenuta nel Preambolo della Costituzione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità OMS (oppure World Health Organization, WHO, entrata in vigore il 7 aprile 1948), recepita nel nostro TU.
Tutto questo vale anche per gli immigrati.
Infatti, in base all’art. 2 del Testo unico in materia di immigrazione: “allo straniero comunque presente alla frontiera o nel territorio dello Stato sono riconosciuti i diritti fondamentali della persona umana previsti dalle norme di diritto interno, dalle convenzioni internazionali in vigore e dai principi di diritto internazionale generalmente riconosciuti”.
Nei fatti questa disposizione non viene prevalentemente rispettata per varie ragioni: carenza di interpreti specializzati, difficoltà burocratiche, comportamenti delle PA e dei singoli.
7.- L’ingresso e il soggiorno nel territorio nazionale, la pluralità di giurisdizioni. – Sintesi.
La normativa nazionale che disciplina l’ingresso e il soggiorno di tutti i cittadini di Paesi terzi e degli apolidi deve essere letta alla luce dei suddetti principi, anche se deve rispettare pure i principi del CEAS (Common European Asylum System - Sistema europeo comune di asilo), in cui si inscrive, a partire dalla basilare regola generale secondo cui il soggiorno in Italia e nei Paesi Schengen per essere regolare presuppone che il possesso da parte dell’interessato di un permesso di soggiorno o documento analogo che abiliti al soggiorno, anche se il regime per ottenere simile documento è diverso, rispettivamente per i “migranti forzati” e per gli altri migranti.
Inoltre, deve essere considerato il nuovo Patto europeo su migrazione e asilo, approvato dal Consiglio Ue nel dicembre 2023 e dal Parlamento Ue nell’aprile 2024, che accentua la chiusura verso i profughi del Sud del mondo e, in un quadro, anche istituzionale, in cui l’idea che l’immigrazione sia una minaccia alla sicurezza ne oscura perfino l’importanza, spesso irrinunciabile, per le economie europee. Le parole d’ordine sono: chiusura, respingimenti, esternalizzazione delle frontiere e respingimenti, come si rileva nel Dossier statistico sulla immigrazione 2024, curato dal Centro Studi e Ricerche IDOS.
Un altro inconveniente è rappresentato dal fatto che la normativa UE – oltre a dare rilievo al Paese di primo approdo, senza tenere conto delle aspirazioni degli interessati ‒ è basata sulla distinzione tra migranti “forzati” e cd migranti economici, da molti contestata.
Ai migranti forzati – che sono quelli che in base alla Convenzione di Ginevra, emigrano per ragioni politiche e/o discriminatorie ‒ si applicano le regole proprie della protezione internazionale che, ovviamente, tengono conto della peculiare situazione di coloro che, per le suindicate ragioni, sono costretti a lasciare il proprio Paese. E si applica la normativa sui Paesi di origine sicuri (oggi di grande attualità).
Invece, per gli altri ‒ che rappresentato un’ampia categoria nella quale non rientrano solo coloro che emigrano per lavoro ma anche, per esempio, i c.d. migranti climatici, ugualmente costretti a lasciare il proprio Paese, anche se non per ragioni politiche o discriminatorie, ma per ragioni di sopravvivenza ‒ vale il regime generale secondo cui:
1) i cittadini di Paesi non appartenenti all’Unione Europa (salvo i casi di esenzione) per fare ingresso legalmente in Italia oltre agli altri requisiti previsti dal TUI devono essere in possesso del visto d’ingresso, da chiedere al Ministero degli Esteri italiano, ovvero delle rappresentanze diplomatiche o consolari italiane nello Stato di origine del cittadini straniero, che sono responsabili dell’accertamento e della valutazione dei requisiti necessari per l’ottenimento del visto, in base alle vigenti norme in materia nazionali e Schengen;
2) mentre i cittadini di Paesi appartenenti all’Unione Europea non hanno questo obbligo e possono circolare liberamente all’interno dell’Unione.
Il visto viene rilasciato, se ne ricorrono i requisiti e le condizioni, per la durata e per i motivi della richiesta, in relazione alla domanda presentata ed alla relativa documentazione.
Ma non è riconosciuto ai cittadini stranieri un diritto all’ottenimento del visto. Infatti, il visto è una autorizzazione concessa allo straniero per l’ingresso nel territorio della Repubblica Italiana o in quello delle altre Parti contraenti per transito o per soggiorno, da valutare alla luce di esigenze connesse con il buon andamento delle relazioni internazionali e con la tutela della sicurezza nazionale e dell’ordine pubblico.
È, però possibile impugnare il diniego del visto, con ricorso al TAR del Lazio entro 60 giorni dalla notifica del provvedimento ovvero al Tribunale ordinario per il solo caso di diniego di visto per ricongiungimento familiare o familiare al seguito.
La suddetta differenza del giudice cui si deve rivolgere l’eventuale ricorso non deve stupire perché nonostante l’attribuzione — realizzatasi nel tempo in termini sempre più ampi — delle controversie in materia di protezione internazionale o umanitaria alla giurisdizione del giudice ordinario, dovuta alle progressive modifiche del quadro normativo (interno, comunitario, internazionale) di riferimento, agli interventi della Corte costituzionale e delle Corti di Strasburgo e Lussemburgo e — in modo significativo — alla sensibilità dimostrata dalle Sezioni unite della Corte di cassazione, tuttavia sono comunque rimaste devolute alla giurisdizione del giudice amministrativo le controversie relative alle impugnative dei provvedimenti amministrativi discrezionali in materia di ingresso e soggiorno degli stranieri, che spesso si sovrappongono e si intrecciano con quelle riguardanti la domanda di protezione.
Con il d.l. n. 13 del 2017, il c.d. decreto Minniti-Orlando, convertito con modificazioni nella l. n. 46 del 13 aprile 2017 è stato in parte ridisegnato il sistema della tutela giurisdizionale garantita allo straniero con la finalità di riportare ordine ed organicità ad una legislazione fattasi ormai, nel tempo, confusa e insoddisfacente e per questo è stata prevista l’istituzione delle Sezioni specializzate dei Tribunali ordinari in materia di immigrazione, protezione internazionale e libera circolazione dei cittadini dell’Unione.
Ma la riforma ha toccato solo in parte il complesso sistema della tutela giurisdizionale per i migranti, essendo rimasto in vigore il tradizionale dualismo, imperniato, cioè, sulla devoluzione di talune controversie al giudice ordinario, quale giudice dei diritti soggettivi, e di altre al giudice amministrativo, quale giudice degli interessi legittimi. Sicché tuttora il riparto di giurisdizione in questa materia, tuttavia, è ben lungi dal potersi definire chiaro e lineare .
Va comunque ricordato che, ormai da anni, le Sezioni Unite della Corte di cassazione hanno chiarito che, in mancanza di norma derogatrice al criterio generale, spetta al giudice ordinario la cognizione dell’impugnazione dei provvedimenti amministrativi che incidono su situazioni soggettive aventi consistenza di diritto soggettivo, in quanto rivolti, senza margini di ponderazione di interessi in gioco da parte dell’Amministrazione, all’accertamento positivo di circostanze-presupposti di fatto esaustivamente individuate dalla legge ed a quello negativo rispetto alla insussistenza dei presupposti per l’applicazione delle disposizioni vigenti che disciplinano la protezione internazionale (vedi, per tutte: Cass. SU 17 giugno 2013, n. 15115).
In base a tale principio deve considerarsi sussistente la giurisdizione del giudice ordinario per tutti i permessi di soggiorno ex casi particolari in cui il decreto Salvini (d.l. n. 113 del 2018 cit.) prevede la possibilità di concedere il permesso di soggiorno ai sensi dell’articolo 32, comma 3, del decreto legislativo 28 gennaio 2008, n. 25 (ex protezione umanitaria): cioè quelli per cure mediche nonché quelli di cui agli articoli 18 (per motivi di protezione sociale), 18-bis (per le vittime di violenza domestica), 20-bis (per calamità), 22, comma 12-quater (per particolare sfruttamento lavorativo) e 42-bis (per atti di particolare valore civile) del TUI.
Del resto, nel decreto Salvini si specifica che sulle relative controversie si pronunciano le Sezioni specializzate in composizione collegiale.
E si tratta di una precisazione opportuna visto che l’iter per la concessione della maggior parte di tali permessi è complesso e prevede una serie di interventi di Autorità amministrative e/o della Procura della Repubblica che, a volte, sono stati erroneamente qualificati come espressione di poteri autoritativi discrezionali il cui esame si è ritenuto – erroneamente, come dimostra il decreto Salvini – riservato alla giurisdizione amministrativa.
Pertanto, può dirsi che, piano piano, si è cercato di rendere meno difficile identificare per i migranti il giudice dotato di giurisdizione e limitare la frammentazione delle tutele.
Di recente si sono però avuti degli interventi legislativi che, di fatto, seguono un’ottica diversa:
a) l’art. 18 del d.l. 13 giugno 2023, n. 69 (c.d. decreto “salva infrazioni”), convertito dalla legge 10 agosto 2023, n. 103 (Disposizioni urgenti per l’attuazione di obblighi derivanti da atti dell’Unione europea e da procedure di infrazione e pre-infrazione pendenti nei confronti dello Stato italiano) ha introdotto nell’art. 10, TUI, il comma 1-bis a mente del quale «contro i provvedimenti di respingimento alla frontiera di applicazione immediata adottati ai sensi del comma 1 é ammesso ricorso al Tribunale amministrativo regionale nella cui circoscrizione ha sede l’ufficio di polizia di frontiera che ha disposto il respingimento. Con tale modifica sono stati “superati” i decennali orientamenti espressi a favore della giurisdizione del giudice ordinario in materia sia dalle Sezioni unite della Corte di cassazione, con la sentenza n. 15115 del 2013 (riguardante specificamente i respingimenti differiti) sia dal Consiglio di Stato, III sez., con sentenza 13 settembre 2013 n. 4543, che, completando il quadro, aveva riconosciuto la sussistenza della giurisdizione del giudice ordinario anche per i respingimenti immediati alla frontiera.
Peraltro, tale modifica non è intervenuta sulla persistente attribuzione alla giurisdizione ordinaria di tutte le controversie inerenti le espulsioni amministrative (anche quelle per ingresso illegale di cui all’art. 13, co. 2, lett. a) TUI che si applicano allo straniero che è entrato nel territorio nazionale eludendo i controlli di frontiera, senza essere stato respinto, ragion per cui si tratta di misura finitima al respingimento immediato), e di quelle relative al respingimento differito.
Pertanto, per effetto della modifica – cancellando dieci anni di giurisprudenza volta ad evitare la doppia giurisdizione in un ambito così delicato e in assenza di procedure di infrazione − si è quindi creata una frammentazione circa i rimedi giudiziali esperibili a fronte di provvedimenti aventi tutti e tre (espulsione, respingimento differito e respingimento immediato) ad oggetto il medesimo interesse pubblico: il controllo delle frontiere, oltretutto con rilevanti difficoltà per gli interessati sia di tipo economico che di tipo pratico in genere .
b) in sede di conversione in legge del d.l. n. 145 del 2024 (c.d. decreto flussi 2024) è stato sostituito l’art. 16 del decreto con un nuovo testo con il quale è stata trasferita dalla Sezione specializzata del tribunale alla Corte di appello in composizione monocratica la competenza per i procedimenti:
• di convalida del provvedimento di trattenimento;
• di proroga del trattenimento disposto dal questore nei confronti del richiedente protezione internazionale;
• di convalida delle misure alternative al trattenimento.
Tutto questo senza tenere conto delle esigenze delle Corti d’appello illustrate in un documento firmato da tutti i Presidenti della 26 Corti d’appello nazionali;
Quindi, non solo resta il suddetto dualismo delle giurisdizioni, con residui inconvenienti, con i quali si trovano a doversi misurare la quasi totalità dei migranti anche se meritevoli di protezione internazionale o umanitaria, visto fin dal loro arrivo nel territorio nazionale si trovano spesso a dover fare i conti con la coesistenza di ragioni di ordine pubblico e sicurezza con ragioni di tutela di diritti fondamentali, che è uno dei connotati tipici, come si è detto, della condizione giuridica degli stranieri.
Ma, nell’ambito della giurisdizione ordinaria, dopo l’eliminazione dell’appello contro le decisioni dei Tribunali (disposto dal d.l. n. 13 del 2017, convertito dalla legge n. 46 del 2017 che ha introdotto l’art. 35- bis nel d.lgs. n. 25 del 2008), abbiamo un ritorno delle Corti d’appello non in sede di gravame) tra i giudici che si occupano della materia che si aggiungono ai Tribunali, ai giudici di pace e, ovviamente, alla Corte di cassazione. Con una frammentazione che non solo non riduce i tempi processuali ma incide negativamente sul diritto di difesa e sulla condizione di vita degli immigrati.
Detto questo, va precisato che, una volta ottenuto il visto, all’arrivo in Italia si deve chiedere il permesso di soggiorno entro otto giorni lavorativi dall’ingresso nel territorio dello Stato. Il ritardo è giustificato solo per cause di forza maggiore.
Il permesso di soggiorno va chiesto per la stessa ragione per la quale si è ottenuto il visto.
Peraltro, del permesso di soggiorno si può fare a meno in caso di soggiorni di breve durata (inferiori ai 90 giorni) per motivi di visite, affari, turismo e studio.
Ma, pure in queste ipotesi, l’interessato è tenuto a fare una dichiarazione della propria presenza in Italia all’autorità di frontiera al momento dell’ingresso, nel caso in cui provenga da un Paese non appartenente all’Area Schengen, oppure negli altri casi al Questore della Provincia in cui si trova, entro otto giorni dall’ingresso. La dichiarazione è effettuata su apposito modulo o, se lo straniero è alloggiato, in struttura alberghiera o analoga, mediante la dichiarazione cui è tenuta la struttura. L’adempimento è attestato con rilascio di copia della dichiarazione, da esibire a richiesta di ufficiali ed agenti della polizia (vedi legge 28 maggio 2007, n. 68, e decreto del Ministero dell’Interno del 26 luglio 2007).
I tipi di permessi di soggiorno sono moltissimi.
Tanti permessi di soggiorno (anche se non rilasciati per lavoro autonomo o subordinato) abilitano allo svolgimento di attività lavorativa.
In generale i permessi di soggiorno che abilitano al lavoro possono anche, alla scadenza, essere convertiti in un permesso di soggiorno per motivi di lavoro.
I permessi di soggiorno che in ogni caso non abilitano al lavoro sono quelli rilasciati per motivi di turismo, affari o giustizia.
Qui appare opportuno sottolineare che, pur avendo le Questure la competenza generale al rilascio dei permessi di soggiorno, però a partire dall’11 dicembre 2006 le richieste per una serie di tipologie di permessi di soggiorno possono essere presentate dall’interessato presso gli Uffici Postali abilitati.
Tra questi permessi rientra la maggior parte di quelli che abilitano allo svolgimento di un’attività lavorativa.
Invece, deve essere richiesto alle Questure ‒ e, precisamente, all’Ufficio immigrazione della Questura competente in relazione al domicilio o alla residenza del richiedente, a seconda del motivo della richiesta di rilascio o rinnovo del permesso ‒ il primo rilascio dei permessi di soggiorno per asilo politico, apolidia, integrazione del minore, minore età (minori non accompagnati), motivi umanitari e protezione sociale, potendosi fare richiesta per il tramite degli Uffici postali soltanto per il rinnovo di tali permessi di soggiorno.
Sempre alle Questure va chiesto il permesso di soggiorno per tutti i motivi non espressamente indicati tra quelli per i quali ci si può rivolgere alle Poste Italiane.
8.- Il controllo dei flussi migratori.
Quanto ai permessi di soggiorno rilasciati specificamente per ragioni di lavoro il sistema dell’ingresso si basa sui “decreti flussi”, che sono provvedimenti con i quali il Presidente del Consiglio dei Ministri stabilisce ogni anno le quote di ingresso dei cittadini stranieri non comunitari che possono entrare in Italia per motivi di lavoro subordinato, autonomo e stagionale.
Il sistema nasce dall’idea di prevenire la concorrenza tra migranti e “autoctoni” – per evitare cioè che gli stranieri «ci rubino il lavoro», come anche oggi si dice in tutta Europa – i Governi hanno pensato bene di contingentare gli ingressi, cioè di limitarli numericamente: un “tot” ogni anno (una quota, come si dice in gergo), quanto basta per rifornire le aziende delle “braccia” necessarie, ma non troppi da creare competizione con i “nazionali”.
E poiché nel corso degli anni la situazione occupazionale non è certo diventata migliore, pur nella consapevolezza dell’inefficienza del sistema delle quote e delle sue drammatiche conseguenze, non si pensa a cambiamenti complessivi.
Tuttavia, a partire dal 2020 la disciplina è stata modificata nel senso di aumentare le quote massime di stranieri da ammettere nel territorio dello Stato per lavoro.
I decreti flussi stabiliscono il numero massimo di assunzioni dall’estero da stipulare in un anno. Quando viene pubblicato il decreto, il datore di lavoro presenta una proposta di assunzione in favore di uno straniero: se l’istanza è inoltrata prima delle altre – cioè prima dell’esaurimento della quota – il lavoratore può entrare in Italia. Diversamente, se la richiesta parte troppo tardi, lo straniero dovrà rimanere a casa sua.
In particolare, in base all’art. 3, comma 4, del TUI, nel testo attualmente vigente:
“Con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, sentiti il Comitato di cui all’articolo 2-bis, comma 2, la Conferenza unificata di cui all’articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, e le competenti Commissioni parlamentari, sono annualmente definite, entro il termine del 30 novembre dell’anno precedente a quello di riferimento del decreto, sulla base dei criteri generali individuati nel documento programmatico, le quote massime di stranieri da ammettere nel territorio dello Stato per lavoro subordinato, anche per esigenze di carattere stagionale, e per lavoro autonomo, tenuto conto dei ricongiungimenti familiari e delle misure di protezione temporanea eventualmente disposte ai sensi dell’articolo 20.
Qualora se ne ravvisi l’opportunità, ulteriori decreti possono essere emanati durante l’anno. I visti di ingresso ed i permessi di soggiorno per lavoro subordinato, anche per esigenze di carattere stagionale, e per lavoro autonomo, sono rilasciati entro il limite delle quote predette. In caso di mancata pubblicazione del decreto di programmazione annuale, il Presidente del Consiglio dei ministri può provvedere in via transitoria, con proprio decreto”,
All’interno delle quote generali il suddetto decreto riserva apposite quote ai lavoratori di origine italiana nonché ai cittadini di Paesi con i quali l’Italia abbia sottoscritto accordi bilaterali per la regolamentazione dei flussi di ingresso e delle procedure di riammissione e, nel contempo, prevede restrizioni numeriche per i lavoratori appartenenti a Stati che non collaborano adeguatamente nel contrasto all’immigrazione clandestina (vedi: art. 21 d.lgs. n. 286 del 1998).
La regolamentazione dei flussi di ingresso (legge n. 40 del 1998, oggi art. 3 TUI) prevede due passaggi:
• un documento triennale (detto Documento Programmatico) relativo alla politica dell’immigrazione e degli stranieri nel territorio dello Stato, che è approvato dal Governo e trasmesso al Parlamento e che serve a pianificare i flussi migratori in ingresso in Italia ed è emanato ogni tre anni salva la necessità di un termine più breve;
• il decreto (decreto flussi) del Presidente del Consiglio dei ministri per programmare annualmente, le quote massime di stranieri da ammettere nel territorio italiano, oggi non più unico e da emanare entro il 30 novembre dell’anno precedente a quello di riferimento, essendo possibile l’emanazione di altri decreti flussi nel corso dell’anno.
I decreti flussi stabiliscono il numero massimo di assunzioni dall’estero per tipologie di rapporti di lavoro da stipulare in un anno. Quando viene pubblicato il decreto, il datore di lavoro presenta una proposta di assunzione in favore di uno straniero: se l’istanza è inoltrata prima delle altre – cioè prima dell’esaurimento della quota – il lavoratore può entrare in Italia. Diversamente, se la richiesta parte troppo tardi, lo straniero dovrà rimanere a casa sua.
All’interno delle quote generali il suddetto decreto riserva apposite quote ai lavoratori di origine italiana nonché ai cittadini di Paesi con i quali l’Italia abbia sottoscritto accordi bilaterali per la regolamentazione dei flussi di ingresso e delle procedure di riammissione e, nel contempo, prevede restrizioni numeriche per i lavoratori appartenenti a Stati che non collaborano adeguatamente nel contrasto all’immigrazione clandestina (vedi: art. 21 d.lgs. n. 286 del 1998).
Per ciò che riguarda la definizione del numero di ingressi, è previsto il coinvolgimento delle Regioni che possono far pervenire alla Presidenza del Consiglio, entro il 30 novembre di ogni anno, “un rapporto sulla presenza degli immigrati extracomunitari nel territorio regionale, contenente anche le previsioni relative ai flussi sostenibili nel triennio successivo”.
Va sottolineato che per lavoro ”in casi particolari” l’art. 27 TUI ha previsto una serie di situazioni lavorative che non rientrano nel decreto annuale di programmazione dei flussi e cioè sono “fuori quota”, tra queste, ad esempio, sono comprese le assunzioni presso strutture sanitarie pubbliche e private degli infermieri professionali.
Nel corso del tempo la tipologia di queste situazioni è molto aumentata (vedi artt. da 27-bis a 27-sexies del TUI) anche per dare attuazione a direttive comunitari.
Così, via via, fra i “fuori quota” si sono fatti rientrare: l’ingresso e soggiorno per volontariato, per ricerca scientifica, per lavoratori altamente qualificati provenienti da Paesi oltre i confini UE cui viene rilasciata la Carta blu UE (ai sensi del d.lgs. 20 giugno 2012, n. 108, che ha dato attuazione della direttiva 2009/50/CE sulle condizioni di ingresso e soggiorno di cittadini di Paesi terzi che intendano svolgere lavori altamente qualificati), l’ingresso e soggiorno nell’ambito di trasferimenti intra-societari (permesso di soggiorno ICT - intra-corporate transfer, rilasciato dall’Italia o da altro Stato membro UE) e da ultimo ingresso e soggiorno di lavoratori autonomi beneficiari del programma Italia Startup Visa nonché ingresso e soggiorno per investitori stranieri.
9.- Il “divieto” di regolarizzazione.
I decreti flussi consentono di entrare in Italia soltanto ai cittadini stranieri che si trovano ancora nei loro Paesi di origine, mentre non possono fare domanda per il decreto flussi, i migranti che si trovano già nel nostro territorio senza permesso di soggiorno.
Va sottolineato che per lentezze burocratiche tali decreti, di fatto, restano spesso inutilizzati e, mentre rimangono quote residue in abbondanza, nel frattempo aumenta il lavoro in nero degli immigrati governato dai caporali.
Pertanto, l’unico strumento per consentire un soggiorno legittimo a chi non può chiedere la protezione internazionale o speciale (già umanitaria) – cioè il decreto flussi ‒ spesso, nei fatti, non riesce a rispondere alla propria finalità di offrire posti di lavoro regolari a chi viene dall’estero e, comunque, non può trovare applicazione per chi già si trova in Italia, in posizione irregolare.
In definitiva, il sistema si regge su quello che è stato chiamato “divieto di regolarizzazione”: lo straniero che si trovi già in Italia, e che non abbia i documenti di soggiorno, non deve regolarizzarsi in alcun modo, nemmeno se ha trovato un lavoro, nemmeno se è in grado mantenersi da solo (senza gravare sull’assistenza pubblica).
All’origine di queste bizzarre disposizioni c’è appunto l’idea per cui l’immigrazione deve essere regolata “a monte” (disciplinando gli ingressi) e non “a valle” (mettendo in regola chi è già arrivato): lo Stato deve cautelarsi in anticipo dai flussi “indesiderati”, consentendo l’arrivo in Italia soltanto agli stranieri che abbiano già un contratto di lavoro o che comunque siano “interessanti” (come dimostra l’ampliamento dei casi “fuori quote”).
Ciò significa che, nei casi ordinari, l’assunzione dovrà avvenire prima della partenza: i futuri migranti otterranno il visto esibendo un “invito” dei loro datori di lavoro, e solo così potranno entrare in Italia.
Peraltro, non dobbiamo dimenticare che la Corte costituzionale da tempo ha dimostrato una diversa sensibilità sottolineando che il controllo dei flussi migratori e la disciplina dell’ingresso e della permanenza degli stranieri nel territorio nazionale rappresentano « un grave problema sociale, umanitario ed economico che implica valutazioni di politica legislativa non riconducibili a mere esigenze di ordine e sicurezza pubblica » (vedi sentenza n. 22 del 2007), nel cui contesto il lavoro si pone, per i migranti, come « l’agognato fattore di legittimazione e la chiave di inserimento nel Paese in cui si spostano ».
La Corte ha anche soggiunto che i conseguenti cambiamenti che si determinano nel mercato del lavoro necessitano di interventi volti a favorire la più ampia applicazione del principio di uguaglianza, nel rispetto e nella valorizzazione delle diversità, onde combattere la clandestinità e il sommerso e così contribuire alla costruzione di una società multietnica e multiculturale.
Ciò, del resto, corrisponde, perfettamente agli impegni assunti a livello internazionale e comunitario, ribaditi e rafforzati con il Trattato di Lisbona (che l’Italia ha ratificato e reso esecutivo con legge 2 agosto 2008, n. 130 e che la maggior parte dei Paesi dell’Unione ha, del pari, ratificato) nonché con la nuova versione della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea fatta a Strasburgo il 12 dicembre 2007.
Il Giudice delle leggi ha anche precisato che nel nostro ordinamento la disposizione legislativa da cui si deve partire per considerare la situazione del lavoratore straniero è il citato art. 2 del TUI il quale al comma 3 stabilisce che: « la Repubblica italiana, in attuazione della convenzione dell’OIL n. 143 del 24 giugno 1975, ratificata con legge 10 aprile 1981, n. 158, garantisce a tutti i lavoratori stranieri regolarmente soggiornanti nel suo territorio e alle loro famiglie parità di trattamento e piena uguaglianza di diritti rispetto ai lavoratori italiani ».
Questa disposizione si collega in modo evidente all’art. 3 Cost.
I suddetti principi sono stati ribaditi dalla Corte costituzionale nella citata sentenza n. 186 del 2020 – che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della normativa introdotta dal d.l. n. 113 del 2018 che impediva ai richiedenti asilo di ottenere l’iscrizione anagrafica, così privandoli del riconoscimento giuridico della loro condizione di residenti − nella quale è stato ricordato il consolidato indirizzo secondo cui il legislatore può valorizzare le esistenti differenze di fatto tra cittadini e stranieri (sentenza n. 104 del 1969), ma non può porre gli stranieri (o, come nel caso di specie, una certa categoria di stranieri) in una condizione di “minorazione” sociale senza idonea giustificazione, e ciò per la decisiva ragione che lo status di straniero non può essere di per sé considerato «come causa ammissibile di trattamenti diversificati e peggiorativi» (in questi termini sentenza n. 249 del 2010; analogamente, tra le tante, sentenze n. 166 del 2018, n. 230, n. 119 e n. 22 del 2015, n. 309, n. 202, n. 172, n. 40 e n. 2 del 2013, n. 172 del 2012, n. 245 e n. 61 del 2011, n. 187 del 2010, n. 306 e n. 148 del 2008, n. 324 del 2006, n. 432 del 2005, n. 252 e n. 105 del 2001, n. 203 del 1997, n. 62 del 1994, n. 54 del 1979, n. 244 e n. 177 del 1974, n. 144 del 1970, n. 104 del 1969, n. 120 del 1967).
Ciò in quanto una simile normativa (quale, nella specie, la norma censurata che privava i richiedenti asilo del riconoscimento giuridico della loro condizione di residenti) viene ad incidere irragionevolmente sulla «pari dignità sociale», riconosciuta dall’art. 3 Cost. alla persona in quanto tale, a prescindere dal suo status e dal grado di stabilità della sua permanenza regolare nel territorio italiano.
D’altra parte, anche per i migranti “forzati” l’ottenimento di un lavoro regolare non è certo facile né immediato.
L’attribuzione sia del permesso di soggiorno per asilo politico (riconoscimento dello status di rifugiato), sia di quello per protezione sussidiaria consentono di svolgere attività lavorativa, anche se a condizioni rispettivamente diverse e per periodi di tempo differenti (che dipendono dalla diversa durata dei permessi e dalle diverse condizioni per il rinnovo). E lo stesso vale per coloro che tuttora hanno o possono avere (ratione temporis) il vecchio permesso per protezione umanitaria (oggi speciale) oppure per i titolari di un permesso di soggiorno per protezione speciale.
Tuttavia, prima di ottenere uno dei suddetti permessi di soggiorno al migrante non è consentito di svolgere attività lavorativa subito dopo aver presentato la domanda di protezione internazionale e asilo politico.
Visto che spesso i tempi necessari per l’esame delle domande sono lunghi il Ministero del Lavoro con il parere prot. n. 14751 del 26 luglio 2016 ha stabilito che la ricevuta attestante la presentazione della richiesta di protezione internazionale costituisce permesso di soggiorno provvisorio che consente di espletare attività lavorativa (subordinata oppure autonoma) decorsi 60 giorni dalla presentazione della domanda di protezione, laddove il relativo procedimento non si sia concluso ed il ritardo non sia ascrivibile al richiedente.
Tale permesso di soggiorno rilasciato in attesa del riconoscimento della protezione internazionale, pur consentendo dopo due mesi dalla presentazione della domanda di svolgere attività lavorativa, non può essere convertito in altro titolo di soggiorno e quindi in permesso per motivi di lavoro”, essendone considerati diversi i presupposti, diversamente da quanto accade per i c.d. migranti economici in possesso di un permesso di soggiorno che abilita al lavoro, pur avendo una diversa causale.
Molte sono le sanzioni previste a carico dei datori di lavoro che assumono personale “in nero”, irrogate a seguito dei controlli degli ispettori o delle forze dell’ordine.
In sede di controllo presso i datori di lavoro, gli ispettori sono tenuti ad acquisire la ricevuta di verbalizzazione della domanda di protezione internazionale, dal cui rilascio vanno calcolali i 60 giorni per l’espletamento dell’attività lavorativa e nel caso in cui venga riscontrata l’occupazione “in nero” – per mancanza della comunicazione preventiva di assunzione – dei cittadini stranieri in possesso della ricevuta di verbalizzazione della domanda, troverà applicazione la maxi sanzione ai sensi dell’art. 3, co. 3, d.l. n. 12 del 2002 (convertito dalla legge n. 73 del 2002), come da ultimo modificato dall’art. 22, d.lgs. n. 151 del 2015, ma non potrà ritenersi integrata la fattispecie penale di cui all’art. 22, comma 12, TUI.
Quest’ultima disposizione stabilisce che: “12. Il datore di lavoro che occupa alle proprie dipendenze lavoratori stranieri privi del permesso di soggiorno previsto dal presente articolo, ovvero il cui permesso sia scaduto e del quale non sia stato chiesto, nei termini di legge, il rinnovo, revocato o annullato, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni e con la multa di 5.000 euro per ogni lavoratore impiegato”, quindi configura l’illecito come delitto.
Invece, in base all’art. 3, comma 3, del d.l. n. 12 del 2002 cit., oltre all’applicazione delle sanzioni già previste dalla normativa in vigore, in caso di impiego di lavoratori subordinati senza preventiva comunicazione di instaurazione del rapporto di lavoro da parte del datore di lavoro privato, con la sola esclusione del datore di lavoro domestico, si applica anche una sanzione amministrativa pecuniaria di misura crescente a seconda della durata del rapporto instaurato con i lavoratori irregolari. Tali sanzioni sono aumentate del venti per cento in caso di impiego di lavoratori stranieri o di minori in età non lavorativa.
Tale ultimo sistema sanzionatorio, come regola generale, presuppone che il personale ispettivo in caso di constatata inosservanza delle norme di legge o del contratto collettivo in materia di lavoro e legislazione sociale se rilevi inadempimenti dai quali derivino sanzioni amministrative, deve provvedere a diffidare il trasgressore e l’eventuale obbligato in solido, a regolarizzare le inosservanze comunque materialmente sanabili, entro il termine di trenta giorni dalla data di notificazione del verbale di ispezione (art. 13 del d.lgs. 23 aprile 2004, n. 124, Razionalizzazione delle funzioni ispettive in materia di previdenza sociale e di lavoro, a norma dell’articolo 8 della legge 14 febbraio 2003, n. 30).
Ebbene, nel citato parere del Ministero del Lavoro si conclude precisando che laddove, in sede di controllo ispettivo, si riscontri l’occupazione “in nero” ma di cittadini stranieri che non sono in possesso della ricevuta di verbalizzazione della domanda, allora il personale ispettivo dovrà seguire le medesime procedute previste in caso di irregolare occupazione di cittadini extracomunitari privi del permesso di soggiorno, ivi compreso l’interessamento delle forze dell’ordine per la verifica della posizione dei cittadini stranieri. In tali casi, ferma restando la configurabilità dell’ipotesi di reato di cui all’art. 22, comma 12, del TUI e la contestazione della fattispecie aggravata di maxi sanzione. Deve anche essere esclusa l’operatività della diffida atteso che il lavoratore straniero non può essere considerato “occupabile”.
Questo articolato sistema non però è sufficiente ad arginare il problema degli irregolari che, a volte, pur avendo un titolo di protezione o avendolo chiesto a buon diritto, sono intercettati dalle mafie e quindi diventano ombre visibili solo come “prede” per i datori di lavoro, nella maggior parte italiani, che non rispettano la normativa loro imposta né per le retribuzioni, né per l’orario di lavoro né per i contributi previdenziali e assistenziali.
E, purtroppo, questo esercito nel corso del tempo è rimasto molto numeroso visto che senza specifici accordi con i Paesi di origine, non si possono fare i rimpatri e, d’altra parte, è diventato sempre più difficile per molti immigrati riuscire ad ottenere un permesso di soggiorno o comunque a lavorare in modo legale, anche per la presenza delle mafie.
Ovviamente, non si hanno notizie precise sul numero delle persone irregolari, ma da rilevazioni attendibili si stima che nel 2023 erano circa 500 mila, compresi i richiedenti asilo e i già rifugiati attualmente presenti nel sistema di accoglienza dello Stato italiano, che includeva le persone ospitate nei diversi Centri di accoglienza e nel sistema SPRAR di accoglienza diffusa (che erano 174 mila, secondo i dati del Ministero dell’Interno aggiornati al 20 marzo 2017) e i migranti “ufficialmente” irregolari, ospitati nei CIE in attesa di espulsione.
Quindi il problema resta aperto.
10.- La sete di dignità e libertà. Le nuove schiavitù.
Va, considerato che queste numerosissime e sconosciute persone ‒ che nelle statistiche neppure assurgono alla “dignità” di numeri ‒ spesso arrivano da Paesi nei quali non hanno neppure l’accesso all’acqua pulita e, dopo aver affrontato viaggi tremendi a volte contraendo debiti usurari con i trafficanti di esseri umani per poterli affrontare, si trovano in una condizione di estrema vulnerabilità che è ideale per diventare vittime delle c.d. “nuove schiavitù”, le quali sono ancora più subdole di quelle del passato perché non sempre manifeste ed evidenti.
Così, nel nostro Paese ‒ e nella maggior parte degli Stati europei ‒ alla loro sete di acqua si sostituisce una altrettanto fondamentale “sete di dignità e di libertà”.
Il primo ostacolo che si oppone alla lotta alla terribile piaga della schiavitù è che spesso le situazioni schiavistiche sono “nascoste”.
Basta pensare che il suddetto fenomeno riguarda moltissime situazioni, tra le quali: la prostituzione forzata, la pedofilia, la servitù domestica, ma anche lo sfruttamento di manodopera spesso clandestina, il prestito ad usura, il lavoro forzato, fino ad arrivare alla tratta di donne e bambini da sfruttare come strumenti del sesso oppure di forme di servitù matrimoniale.
Come si vede sono situazioni, che pur non avendo tutte lo stesso grado di disvalore sociale, sono comunque accomunate dal determinare la mortificazione o addirittura l’annullamento della dignità umana.
Ebbene, se il futuro del nostro pianeta dipende da come sapremo amministrare l’acqua, il futuro degli esseri umani non può non dipendere dall’effettivo riconoscimento a tutti gli individui della pari dignità, come è scritto su tutte le Carte e le Costituzioni approvate dagli Stati europei i quali proprio mossi dal suddetto sentimento, dopo le orrende atrocità commesse nella devastante seconda guerra mondiale, hanno dato l’inizio al processo che ha portato all’attuale Unione europea ma poi, nel corso degli anni, hanno reso sempre più difficile l’attuazione di quel principio.
Quelle indicate, come esempi, sono situazioni molto variegate ma sono anche molto diffuse.
Così, diversamente da quanto si può essere portati a credere, in Italia non riguardano solo l’agricoltura e l’edilizia, perché possono riguardare anche il settore commercio, il lavoro negli studi professionali o molte altre situazioni di lavoro subordinato così come si possono verificare, in riferimento al ricorso al prestito usurario.
Certo, in agricoltura e nell’edilizia si può anche arrivare a “morire di fatica”, come Paola Clemente la bracciante agricola che il 13 luglio 2015 è stata stroncata da un infarto mentre lavorava all’acinellatura dell’uva nei campi di Andria, per pochi euro l’ora e che è diventata il simbolo del lavoro in nero in agricoltura, gestito dai caporali.
Però, molte altre situazioni schiavistiche, se anche non portano alla morte fisica, possono determinare la morte psicologica di una persona.
Basta pensare ai 170 milioni di bambine e bambini coinvolti nelle peggiori forme di schiavismo, a partire dai bambini-soldato, il cui equilibrio psichico è fortemente compromesso per tutta la vita, al pari di quello dei bambini vittime della pedofilia.
Va anche considerato che si tratta di un fenomeno che si manifesta non soltanto in tutto il nostro territorio nazionale, ma in tutta Europa e in tutto il mondo.
Per quel che riguarda il nostro Stato dal X Atlante dell’Infanzia (a rischio) pubblicato ad ottobre 2019 da Save The Children risulta che l’Italia ha il record negativo tra i Paesi UE per la percentuale di minori che vivono in povertà assoluta ‒ cioè privi dei beni indispensabili per condurre una vita accettabile ‒ essendo tale percentuale più che triplicata in un decennio, passando dal 3,7% del 2008 al 12.5% del 2018.
Poiché le vittime dello schiavismo ‒ nell’ampia accezione indicata ‒ in genere sono persone dotate di una ridotta autonomia economica e/o psicologica, è evidente che i minori che vivono in povertà assoluta, oltre ad avere conseguenze di tipo fisico derivanti dalla malnutrizione, sono anche più facilmente schiavizzabili, come viene confermato dal IX Rapporto “Piccoli schiavi invisibili 2019” pubblicato sempre da Save the children, il 30 luglio 2019, in occasione della Giornata internazionale contro la tratta di esseri umani, al fine di offrire una fotografia aggiornata della tratta e dello sfruttamento dei minori in Italia, ed in particolare del sistema dello sfruttamento sessuale.
Da tale rapporto emerge che:
a) delle 20.500 vittime, registrate tra il 2015 e il 2016, il 56% riguarda la tratta a scopo di sfruttamento sessuale e in questo tipo di tratta il 23% riguarda minori e il 68% donne e ragazze;
b) come direttamente riscontrato anche in una indagine effettuata nel 2018 da operatori di Save the children in 5 regioni italiane (Marche, Abruzzo, Veneto, Lazio e Sardegna), i minorenni e neo-maggiorenni coinvolti nella tratta sono in costante aumento, in quanto le vittime su strada intercettate sono passate da 1.396 del 2017 a 2.210 del 2018;
c) negli ultimi anni, in questo ambito, il coinvolgimento delle donne e delle ragazze di origine nigeriana ha assunto una rilevanza decisamente maggiore rispetto a quello delle donne e delle ragazze originarie dei Balcani e dei Paesi dell’Europa dell’Est.
Secondo il recente rapporto della Walk Free Foundation − che analizza la schiavitù moderna e il traffico di esseri umani in 167 Paesi − in Europa l’Italia è al terzo posto della classifica, preceduta da Polonia e Turchia, mentre almeno 10.000 bambini riconosciuti come rifugiati ‒ di cui 5.000 in Italia e 1.000 in Svezia ‒ risultano ora dispersi.
Tra le situazioni analizzate sono comprese anche le schiavitù esistenti nell’ambito dei culti religiosi, in tutto il mondo e anche nel nostro Paese. In particolare, l’ONAP (Osservatorio Nazionale Abusi Psicologici) stima che in Italia ci siano 1500 tra sette e culti religiosi minori, che hanno ridotto in schiavitù 3 milioni di persone tra cittadini italiani e stranieri, residenti nel nostro Paese.
Ma il “fenomeno” purtroppo ha tantissime “applicazioni”, spesso legate a lauti profitti degli schiavisti del terzo millennio; nello stesso tempo, è un fenomeno che “si nasconde” e le vittime, proprio perché tali, non riescono a denunciare i loro aguzzini. A volte cercano di scappare ma non sempre la fuga è “vincente”.
In una complessiva situazione di estrema difficoltà nella conoscenza e nello sradicamento del fenomeno, da vari reportage risulta che, da sempre, la risposta del Governo italiano al problema è tra le più deboli d’Europa, mentre si tratta una situazione che, con la pandemia di Covid-19 e con l’aumento dei migranti irregolari, rischia di espandersi sempre di più e che, almeno per quanto riguarda le forme di sfruttamento lavorativo, tocca le nostre stesse vite quotidiane, ad esempio attraverso l’acquisto di prodotti commerciali nell’ambito dell’economia globale.
Deve anche essere considerato che in Italia, a partire dalla legge 11 agosto 2003, n. 228, sono stati profondamente modificati gli articoli del codice penale sui reati di riduzione in schiavitù (articoli 600, 601, 602) includendo in tale nozione anche la costrizione a prestazioni lavorative e sessuali, l’accattonaggio e altre forme di sfruttamento.
È stata anche approvata la legge 29 ottobre 2016, n. 199 sul contrasto al caporalato, che era attesa da decenni e che è diretta a sanzionare il fenomeno dello sfruttamento lavorativo, che è una piaga nazionale e non solo.
Basta pensare che di questo tipo di situazioni lavorative, per altri Paesi, la Corte EDU ha avuto modo di pronunciarsi, come ad esempio con la sentenza Chowdury e altri c. Grecia, 30 marzo 2017 nella quale la Corte (in una situazione di bracciantato agricolo) ha ritenuto violato l’art. 4 § 2 CEDU a causa dell’inadempimento, da parte dello Stato convenuto, dei suoi obblighi positivi derivanti da tale disposizione, vale a dire gli obblighi di prevenire la situazione controversa di tratta di esseri umani, proteggere le vittime, indagare sulle violazioni e punire i responsabili della tratta.
Gli indicati strumenti a nostra disposizione in ambito nazionale sono senz’altro importanti e quindi vanno fatti funzionare al meglio, ma la cosa migliore sarebbe – almeno per le situazioni lavorative in nero – cercare, attraverso i controlli, di prevenire la deriva penalistica.
Tuttora, però nei controlli ispettivi ‒ di cui da tempo è stata evidenziata la necessità di un potenziamento, di personale e mezzi ‒ si riscontrano notevoli difficoltà operative.
Infatti, qualche tempo fa Fabio Vitale, quando ricopriva il ruolo di Capo della Direzione centrale Vigilanza, Prevenzione e Contrasto all’economia sommersa dell’INPS, ha affermato che il caporalato è “un vero e proprio schiavismo del terzo millennio” e che nell’ambito del lavoro agricolo nei campi muoiono molti braccianti che sono del tutto “trasparenti” perché clandestini e privi di familiari che possano denunciarne la scomparsa come accade, invece, per i lavoratori italiani che fanno la stessa fine, come Paola Clemente la bracciante agricola stroncata da un infarto mentre lavorava all’acinellatura dell’uva nei campi di Andria nel 2015.
Inoltre, Vitale ha sottolineato che, nelle campagne, “il caporalato è talmente forte nei territori dove opera, che gli ispettori devono andare insieme ai carabinieri a fare gli accertamenti e spesso sono esposti a denunce, anche perché i caporali sono forti da un punto di vista economico e, il più delle volte, sono collegati all’Ndrangheta, a Cosa Nostra e alla Camorra”.
A ciò può aggiungersi che esistono delle situazioni di vera e propria tratta degli esseri umani ‒ che danno luogo a situazioni schiavistiche di tipo internazionale ‒ per le quali sarebbe necessario raggiungere un’azione comune e omogenea a livello UE e internazionale, visto che sono fenomeni che vanno ben oltre i confini dei singoli Stati e anche dei singoli continenti.
11.- Conclusioni.
A conclusione di questa ampia panoramica si può dire che, purtroppo, il quadro normativo così articolato, pur con gli apprezzabili apporti della giurisprudenza, non risulta certamente adeguato ad attribuire, in linea generale, ai lavoratori e in particolare alle donne e agli immigrati una condizione di vita dignitosa né nella sostanza è conforme ai principi di base dell’ordinamento nazionale e di quello UE e internazionale.
Nei nostri territori circola un esercito di “ombre” che, a volte, anche se hanno un titolo più che valido per lavorare in modo regolare a causa del sequestro dei documenti e delle loro persone, vengono schiavizzati dalla malavita organizzata, direttamente o indirettamente, sicché come accade in molti altri Paesi la dignità dei migranti – a volte anche cittadini europei, come i rumeni ‒ viene in vario modo comunque calpestata.
Tutto questo non fa che aumentare di giorno in giorno le situazioni di disagio sociale e le diseguaglianze che sono sempre più marcate e che, come affermato reiteratamente anche nel World Economic Forum di Davos, sono anche la causa principale del rallentamento della crescita mondiale e della creazione disoccupazione.
Sappiamo che quello dell’immigrazione è l’ambito in cui più di ogni altro emerge la necessità di assicurare un ragionevole bilanciamento tra libertà e sicurezza, nonché tra i diversi diritti che ne conseguono e che comunque risultano essere compresi tra i diritti e le libertà fondamentali, come ci insegna anche la Corte costituzionale.
Finora, la UE ha preferito impegnarsi principalmente sul fronte della sicurezza lasciando in secondo piano le questioni umanitarie.
Questa scelta se rafforzata e prolungata nel tempo ‒ come sembra essere avvenuto nel nuovo Patto europeo su migrazione e asilo ‒di recente approvato può determinare l’arresto se non il fallimento del “progetto europeo” quale concepito dai Padri fondatori della UE, grazie al quale abbiamo avuto all’interno dell’Europa il più lungo periodo di pace della storia.
Certamente una simile deriva va evitata in tutti i modi e credo che ognuno di noi possa e debba fare la sua parte, ricordando l’auspicio dell’ONU secondo cui la “società civile organizzata” deve assumere il ruolo di pungolo esterno al processo decisionale in senso stretto dei Governi, onde sollecitare spinte in avanti.
Penso che valga la pena di non rimanere indifferenti rispetto alle suindicate situazioni di sofferenza, per noi e per le future generazioni.
Non possiamo quindi più girarci dall’altra parte, come reiteratamente afferma Papa Francesco, che, nella sua terza enciclica, “Fratelli tutti”, dedicata alla fraternità e all’amicizia sociale, è tornato sul tema della fratellanza umana leggendolo anche alla luce della recente pandemia.
Ebbene, questa è un’impostazione senz’altro da seguire e sviluppare.
Del resto, non va dimenticato che l’auspicio formulato quattro anni prima della presa della Bastiglia dal poeta tedesco Friedrich von Schiller: “Alle “Menschen werden Brüder”− tutti gli uomini saranno fratelli – è stato inserito nell’ultimo movimento della Nona Sinfonia di Ludwig van Beethoven, composta mettendo in musica l’Inno alla gioia, scritto da Friedrich von Schiller.
Questo inno è diventato l’inno dell’Unione europea e dell’intera Europa.
Quando lo sentiamo siamo tutti in qualche modo commossi, ma è arrivato il momento di chiederci se in Europa siamo realmente diventati “fratelli”, nella consapevolezza che il concetto di fratellanza in Europa funziona su due livelli: fra gli Stati membri e fra le persone che vivono in Europa.
E credo che dobbiamo anche domandarci se i numerosi Stati firmatari della Dichiarazione Universale dei diritti umani del 1948 e i loro cittadini siano o meno diventati “fratelli”, visto che l’art. 1 della Dichiarazione dopo il solenne riconoscimento secondo cui: “Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti” – da cui siamo partiti – afferma che: “Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza”.
Penso che, a fronte dell’aumento delle diseguaglianze e delle pesanti conseguenze della pandemia, delle guerre e dei mutamenti climatici non possiamo più eludere simili domande né restare inerti.
Del resto, in caso contrario dovremmo sentire tutti la responsabilità (quantomeno sociale) di non essere stati capaci. con la nostra cecità e il nostro egoismo, di evitare epiloghi tragici per noi e per le future generazioni, visto che, come affermava Thomas Mann: “la tolleranza diventa un crimine quando si applica al male” .
Per cominciare questo virtuoso cammino possiamo partire dalle parole del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella secondo cui fin dal suo primo articolo la nostra Costituzione stabilisce un vincolo ideale inscindibile tra democrazia e lavoro. “Il pieno rispetto della dignità dei lavoratori ne è un principio fondamentale, affermato anche al livello internazionale; un obiettivo che, tuttavia, non è stato ancora pienamente raggiunto”.