Testo Integrale con note e bibliografia
1. La giurisdizione nazionale e il controllo “decentrato” di costituzionalità della Consulta: la Cassazione sceglie il dialogo con la Corte di giustizia
Come è noto, il controllo accentrato di costituzionalità è stato introdotto con un contestato obiter dictum dalla sentenza n.269/2017 della Corte costituzionale, immediatamente dopo la seconda decisione della Corte di giustizia sul caso Taricco , prendendo una posizione diametralmente opposta rispetto a quella adottata dallo stesso Giudice delle leggi, qualche mese prima, con la sentenza n.111/2017 , in materia di discriminazione sulle condizioni di lavoro per l’accesso alla pensione di vecchiaia tra uomini e donne.
Nella sentenza n.111/2017, nel dichiarare inammissibile la questione di legittimità costituzionale lasciando al giudice del rinvio il compito di attuare il diritto dell’Unione, la Corte costituzionale non aveva avuto dubbi sull’applicazione diretta dell’art.21 della Carta dei diritti fondamentali Ue , parametro interposto espressamente evocato dal giudice del rinvio costituzionale, ma aveva fatto anche espresso riferimento - ed applicazione, aggiunge chi scrive - al “diritto europeo secondario”, in particolare alla direttiva antidiscriminatoria 2006/54/CE, avente efficacia cogente in materia di trattamenti pensionistici nel pubblico impiego, che operano come retribuzione differita e vanno considerati come condizioni di lavoro nel campo di applicazione del diritto Ue, primario e derivato.
Il revirement inaspettato con la sentenza n.269/2017 della Corte costituzionale sulla gerarchia delle fonti di diritto sovranazionale e nazionale e sul rapporto con la Corte di giustizia viene anticipato dalla dottrina interna alla Consulta dall’affermazione, invero molto discutibile, secondo cui ««la Corte costituzionale italiana – come ogni altra corte costituzionale nazionale – si trova spesso al crocevia di tutti e tre questi sistemi ed è chiamata ad essere contemporaneamente custode della costituzione nazionale, garante dell’osservanza del diritto dell’Unione, guardiania del rispetto della Convenzione europea. Più precisamente: in quanto custode della Costituzione nazionale – che a sua volta contiene clausole di limitazione della sovranità dello Stato (nel caso italiano all’art. 11 Cost.) e i principi che assoggettano tutte le istituzioni della repubblica al rispetto dei «vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario» e dagli «obblighi internazionali» (art.117, primo comma, Cost.) – la Corte costituzionale ha la missione di assicurare anche la piena osservanza del diritto UE e della Convenzione.»».
In realtà, neanche la nostra Carta fondamentale ha affidato al Giudice delle leggi la missione di assicurare anche la piena osservanza del diritto UE e della Convenzione, compito che spetta esclusivamente alla giurisdizione, di merito e di legittimità, ordinaria ed amministrativa, ai sensi degli artt.24 e 111 Cost., che ha il compito di garantire la tutela dei diritti e degli interessi legittimi nel pieno rispetto della Costituzione, secondo il noto principio, fino ad un passato recente molto sostenuto dalla stessa Consulta con il ricorso allo strumento dell’interpretazione conforme, del controllo diffuso di costituzionalità delle leggi.
La Corte costituzionale non è giurisdizione.
Si è trasformata eccezionalmente in giurisdizione per legittimare il primo rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia in sede incidentale con l’ordinanza n.207/2013 , per risolvere la questione del precariato scolastico di fronte all’inerzia del legislatore, pendendo, peraltro, già questioni pregiudiziali sulla stessa problematica sollevate dal Tribunale di Napoli (cause Mascolo ed altri C-22/13, C-61/13, C-62/13 e C-63/13).
Ritiene chi scrive che la Corte costituzionale avrebbe dovuto risparmiarsi il secondo rinvio pregiudiziale in sede incidentale sul caso Taricco , perché non compete alla Consulta, che non è giurisdizione, il compito di sindacare il rispetto e l’applicazione nell’ordinamento interno dei Trattati Ue ratificati con leggi dello Stato ai sensi dell’art.80 Cost., per difendere il non sacrosanto e non fondamentale diritto all’impunità dei grandi evasori fiscali in regime di Iva comunitaria, così assecondando, per facta concludentia, la non condivisibile scelta legislativa di riservare ad essi un trattamento privilegiato nell’individuazione del regime prescrizionale dei reati finanziari.
Ad ogni buon conto, abiurando la sua stessa giurisprudenza di pochi mesi prima (sentenza n.111/2017), la Corte costituzionale sembrava aver rinunciato di fatto a continuare ad avere un ruolo importante nella costruzione dell’acquis communautaire, ponendosi anche in contrasto con il quadro normativo sia sovranazionale che interno.
Come è noto, il primato del diritto “comunitario” sulle legislazioni nazionali è sancito nella dichiarazione n. 17 , allegata ai Trattati Ue: «Per giurisprudenza costante della Corte di giustizia dell’Unione europea, i trattati e il diritto adottato dall’Unione sulla base dei trattati prevalgono sul diritto degli Stati membri alle condizioni stabilite dalla summenzionata giurisprudenza.».
Ai sensi dell’art.17 del TFUE la Commissione «vigila sull’applicazione dei trattati e delle misure adottate dalle istituzioni in virtù dei trattati» e «vigila sull’applicazione del diritto dell’Unione sotto il controllo della Corte di giustizia dell’Unione europea». In virtù del suo ruolo di “custode dei trattati”, spetta alla Commissione il compito di garantire la corretta applicazione del diritto dell’Unione da parte degli Stati membri.
Per l’Italia, il quadro costituzionale presenta una serie di indici normativi “sopravvenuti” rispetto al testo originario della Carta fondamentale, che consentirebbero di ritenere ormai archiviata la teoria dei «controlimiti» (risalente alle sentenze n. 232 del 1989, n. 170 del 1984 e n.183 del 1973), che lo stesso Giudice delle leggi aveva in passato paventato per impedire che il diritto Ue, nella concreta fattispecie, andasse a violare i principi supremi dell’ordinamento costituzionale nazionale.
Al solo art.11 Cost. tradizionalmente la giurisprudenza della Corte costituzionale ha fatto riferimento per riconoscere la penetrazione diretta nell’ordinamento interno delle fonti comunitarie (cfr. sentenze n.284 del 2007, n. 389 del 1989 e n. 113 del 1985), comprese le sentenze della Corte di giustizia in sede interpretativa aventi come parametro di comparazione le regole nazionali (cfr. ordinanze n.252 del 2006, nn.194 e 195 del 2016, in cui la decisione dei Giudici di Lussemburgo viene considerata «ius superveniens»), salva l’ammissibilità dell’incidente di costituzionalità in caso di regole Ue di non diretta applicazione (cfr. ordinanza n.207 del 2013).
Successivamente, con la legge costituzionale n.3/2001 ha introdotto il novello art.117, comma 1, Cost., in base al quale la potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali, e non a caso la nuova disposizione costituzionale viene richiamata più volte, in combinato disposto con l’art.11 Cost., nella 1ª ordinanza di rinvio pregiudiziale in sede incidentale del Giudice delle leggi.
In secondo luogo, la legge costituzionale n.1/2012 ha introdotto il nuovo art.97, comma 1, Cost., che dispone che le pubbliche amministrazioni, in coerenza con l’ordinamento dell’Unione europea, assicurano l’equilibrio dei bilanci e la sostenibilità del debito pubblico.
Nella legislazione ordinaria i precetti costituzionali sulla primazia del diritto dell’Unione europea sono stati recepiti, con particolare riferimento all’applicazione diretta delle sentenze della Corte di giustizia, dalla legge n.234/2012, che contiene le «Norme generali sulla partecipazione dell’Italia alla formazione e all’attuazione della normativa e delle politiche dell’Unione europea», attraverso l’art.14, comma 1, lett.a); l’art.29, comma 7, lett.b); l’art.30, comma 2, lett.b) e comma 3, lett.b); art.37, comma 1; l’art.43, commi 1, 2 e 4.
Inoltre, la legge n.18/2015 ha introdotto significative modifiche all’art.2, comma 3, della legge n.117/1988 sulla responsabilità civile dei magistrati, individuando una fattispecie di colpa grave del giudice e di responsabilità dello Stato la manifesta violazione del diritto dell’Unione europea, individuata, in particolare, nel mancato rinvio pregiudiziale da parte del giudice di ultima istanza.
Sul nuovo testo della legge sulla responsabilità civile del giudice, peraltro, è possibile che vi sia un’opposta valutazione tra Corte costituzionale e Corte di giustizia, perché mentre le norme in questione sono state dichiarate legittime dal Giudice delle leggi con la sentenza n.164/2017, la Corte di Lussemburgo potrebbe orientarsi nel senso dell’incompatibilità con il diritto dell’Unione europea di tali disposizioni che possono ledere il principio dell’indipendenza e dell’imparzialità della magistratura, accogliendo in tal senso una specifica questione pregiudiziale sollevata dal Giudice di pace di Bologna con l’ordinanza del 16 ottobre 2018 in causa C-658/18 UX.
La Sezione lavoro della Cassazione non ha condiviso il sindacato accentrato di costituzionalità imposto dal Giudice delle leggi con la sentenza n.269/2017 e, in effetti, il principio di non discriminazione sulle condizioni di lavoro con applicazione diretta da parte del giudice comune europeo del diritto dell’Unione, come condivisibilmente affermato nella sentenza n.111/2017 della Consulta, ha trovato la prima efficace applicazione nella sentenza della Corte di legittimità n.12108/2018 , che a sua volta ha dato attuazione correttamente all’ordinanza Maturi della Corte di giustizia, intervenuta, su questione pregiudiziale sollevata dalla stessa Suprema Corte con le ordinanze n.6101 e n.6102 del 2017 in materia di licenziamento discriminatorio sempre per ragioni di sesso, in ragione dell’inferiore età prevista per le donne per la pensione di vecchiaia, intimato nei confronti di tersicoree della Fondazione Teatro dell’Opera di Roma.
In applicazione dell’ordinanza Maturi della Corte di giustizia e dei principi enunciati dalla Corte costituzionale nella sentenza n.111/2017, la Cassazione nella sentenza n.12108/2018 ha contestato la cripticità e l’applicabilità alla fattispecie di causa dell’obiter dictum del Giudice delle leggi nella sentenza n.269/2017, rifiutandosi di adire preliminarmente la Consulta per il controllo accentrato di costituzionalità.
Inoltre, la Suprema Corte nella citata decisione sul licenziamento discriminatorio delle tersicoree ha precisato al punto 15 che il principio di non discriminazione per sesso va applicato direttamente nei confronti delle pubbliche amministrazioni, stante la natura pubblica delle Fondazioni lirico-sinfoniche, risolvendo così ab origine il problema dell’applicazione diretta della direttiva 2006/54/CE e della non necessità di utilizzare (anche) la norma primaria dell’art.21 della Carta di Nizza.
Il contrasto della Sezione lavoro della Cassazione all’obiter dictum della Corte costituzionale sul controllo accentrato di costituzionalità della sentenza n.269/2017 ha trovato ulteriori “sfoghi” in due ordinanze di rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia, escludendo la rimessione alla Consulta con motivazione sostanzialmente identica: «Il dialogo diretto con la Corte di Giustizia risulta essere, nel presente caso, lo strumento più diretto ed efficace per accertare la compatibilità del diritto interno con le disposizioni dell'Unione ed i principi posti a tutela dei diritti fondamentali stante la chiara prevalenza degli aspetti concernenti il contestato rispetto del diritto dell'Unione sui profili nazionali.».
Con la prima ordinanza di rinvio pregiudiziale n.13678/2018 in causa C-398/18 la Suprema Corte ha chiesto l’applicazione diretta (seppure in via subordinata) dell’art.21 della Carta di Nizza per la discriminazione per età in materia di licenziamento in una controversia tra privati.
Inoltre, con la recente ordinanza di rinvio pregiudiziale n. 451/2019 la Cassazione ha interrogato la Corte di giustizia sull’applicazione diretta dell’art.31, paragrafo 2, della Carta, in fattispecie di indennità di ferie maturate e non godute per responsabilità del datore di lavoro privato legata ad un licenziamento individuale dichiarato illegittimo con reintegrazione nel posto di lavoro, limitatamente al periodo di “servizio” dal momento dell’illegittimo recesso fino al ripristino del rapporto di lavoro, aggiungendo, ad colorandum e per escludere che vi possa essere possibile contrasto con principi fondamentali dell’ordinamento interno, che il diritto alle ferie è anche garantito dall’art.36, comma 3, della Costituzione nazionale.
Non vi è dubbio che, così facendo, la Cassazione abbia minato nelle fondamenta il controllo accentrato di costituzionalità voluto dalla Consulta nella sentenza n.269/2017, anticipando o seguendo il profondo tracciato della Corte di giustizia in direzione del rafforzamento costituzionale europeo della tutela dei diritti fondamentali attraverso la CDFUE.
Infatti, la Corte di giustizia Ue con il trittico di sentenze Egenberger , Bauer e Willmeroth e Max-Planck ha costituzionalizzato la Carta dei diritti fondamentali, utilizzandola per estendere l’applicazione del diritto dell’Unione in via diretta anche alle controversie tra privati, superando le problematicità create dalla giurisprudenza che era intervenuta ad applicare in orizzontale tra privati il divieto di discriminazione per motivi di età, fondando la disapplicazione della norma interna soltanto sulla direttiva 2000/78/CE, come nei casi Mangold , Palacios de la Villa , Bartsch e Kücükdeveci .
In realtà, l’avvertimento di un più intenso ed efficace utilizzo della CDFUE da parte della Corte di giustizia nelle controversie tra privati lo ritroviamo già nella sentenza Milkova , in cui si afferma:
• che «il principio di parità di trattamento costituisce un principio generale del diritto dell’Unione, ora sancito agli articoli 20 e 21 della Carta, che impone che situazioni analoghe non siano trattate in maniera diversa e che situazioni diverse non siano trattate in maniera uguale, a meno che un simile trattamento non sia obiettivamente giustificato» (punto 57);
• che «una differenza di trattamento è giustificata se si fonda su un criterio obiettivo e ragionevole, vale a dire qualora essa sia rapportata a un legittimo scopo perseguito dalla normativa in questione e tale differenza sia proporzionata allo scopo perseguito dal trattamento di cui trattasi» (punto 58);
• che, «per quanto riguarda il requisito relativo alla comparabilità delle situazioni ai fini dell’accertamento di una violazione del principio di parità di trattamento, esso deve essere valutato alla luce di tutti gli elementi che caratterizzano dette situazioni»;
• infine, «che non è necessario che le situazioni siano identiche, ma soltanto che siano comparabili, e, dall’altro lato, che l’esame di tale comparabilità deve essere condotto non in maniera globale e astratta, bensì in modo specifico e concreto tenuto conto dell’oggetto e dello scopo della normativa nazionale che istituisce la distinzione di cui trattasi» (punto 59).
Il passaggio del Rubicone da parte della Corte Ue e la valorizzazione della CDFUE fino al livello estremo della precettività diretta della Carta nelle sue norme fondamentali, in particolare con le sentenze Bauer e Max-Planck, ha così rotto il fragile equilibrio dei rapporti con le Corti costituzionali sul terreno più scivoloso, quello della primazia del diritto dell’Unione e della sua diretta applicazione anche nelle controversie tra privati, utilizzando come “parametro interposto” quello delle fattispecie già regolate dall’ordinamento interno in senso conforme alla normativa Ue, per estendere la disciplina nazionale ai casi e alle fattispecie discriminati, disapplicando le norme ostative all’estensione degli stessi livelli di tutela nazionale dei diritti assicurati alle categorie o ai soggetti “protetti”.
La nuova posizione della Corte di giustizia è stata oggetto di immediato e autorevolissimo dibattito al Convegno del 7 febbraio 2019 nell’Aula magna della Cassazione, in cui il sindacato accentrato di costituzionalità è stato messo in discussione sia dalla dottrina, sia dai giudici della Cassazione e della Corte di giustizia, a cui ha aderito anche l’Estensore della sentenza n.111/2017 della Corte costituzionale, segno di una forte opinione dissenziente anche all’interno della Consulta.
Non sembra un caso che il sindacato di costituzionalità sia stato recentemente sfumato dallo stesso Giudice delle leggi nella sentenza n.20/2019 , da strumento processuale da utilizzare secondo una scala di priorità e di delibazione accentrata, nella formula più sfumata del diritto alla “prima parola” su richiesta del giudice interno che preferisce la Corte costituzionale alla Corte di giustizia.
In detta pronuncia, che verte sull’obbligo generalizzato dei dirigenti pubblici di pubblicare on line i dati su reddito e patrimonio, la Corte costituzionale giustifica il proprio sindacato «allo scopo di contribuire, per la propria parte, a rendere effettiva la possibilità, di cui ragiona l’art. 6 del Trattato sull’Unione europea ….., che i corrispondenti diritti fondamentali garantiti dal diritto europeo, e in particolare dalla CDFUE, siano interpretati in armonia con le tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, richiamate anche dall’art. 52, paragrafo 4, della stessa CDFUE come fonti rilevanti.».
Sembra una parziale correzione di rotta verso un sindacato “decentrato” di costituzionalità nei casi, ormai prevalenti nella casistica giurisprudenziale, di doppia pregiudiziale Ue e costituzionale.
Bene ha fatto, allora, la Cassazione a riappropriarsi della sua centralità nella giurisdizione nazionale con la sentenza n.12108/2018 e con le ordinanze di rinvio pregiudiziale n.13678/2018 e n.419/2019, applicando il diritto dell’Unione europea e proseguendo il dialogo diretto con la Corte di giustizia.
L’ordinanza pregiudiziale del Tribunale di Napoli del 13 febbraio 2019 sul precariato pubblico degli insegnanti di religione potrebbe consentire alla stessa Corte costituzionale una rivisitazione della propria posizione e una ripresa del dialogo attivo con la Corte di giustizia, dopo la inaspettata pausa della pessima vicenda giurisdizionale Taricco e i suoi effetti nella sentenza n.248/2018 della Consulta.
2. Le questioni pregiudiziali sugli insegnanti di religione del Tribunale di Napoli: il conflitto tra Corte di giustizia e Corte costituzionale.
A distanza di quindici anni dalla prima ordinanza pregiudiziale del Tribunale di Genova del 21 gennaio 2004 di interpretazione della direttiva 1999/70/CE si ripropone sul precariato pubblico italiano la stessa problematica che la sentenza Marrosu-Sardino della Corte europea non aveva risolto con l’incerta risposta della compatibilità prima facie della normativa interna sulla sanzione (indeterminata e indeterminabile) del risarcimento dei danni.
Con la sentenza n.89/2003, infatti, la Consulta aveva affermato il divieto assoluto di conversione nel pubblico impiego e pareva aver invaso anche il campo interpretativo della Corte di giustizia, mettendo in discussione delicati equilibri istituzionali e costituzionali, in quanto era già intervenuta la modifica dell’art. 117 Cost., con la legge costituzionale 3/2001.
Su questo rilievo di incompatibilità con la direttiva 1999/70/CE della decisione della Corte costituzionale n.89/2003 si era mosso, per l’appunto, il Tribunale di Genova nell’ordinanza di rinvio pregiudiziale alla Corte di Lussemburgo nella causa C-54/04 Marrosu-Sardino, sollevando «un conflitto di tipo costituzionale», perché il giudice del rinvio aveva osservato che «tale sentenza è stata pronunciata senza riferimento alle disposizioni costituzionali che garantiscono il rispetto, all’interno dell’ordinamento giuridico italiano, degli impegni derivanti dall’ordinamento giuridico comunitario. A suo avviso, ammettere l’applicazione del decreto n. 165 ai fatti del caso di specie solleva il problema del rispetto della direttiva 1999/70» (v. conclusioni dell’Avvocato generale Poiares Maduro nelle cause C-54/04 e C-180/04, punto 8).
Il 13 febbraio 2019 il Tribunale di Napoli ha sollevato lo stesso «conflitto di tipo costituzionale» rispetto alla nuova sentenza n.248/2018 in subiecta materia, proponendo le seguenti istanze pregiudiziali:
«1) Se il diverso trattamento riservato ai soli insegnanti di religione cattolica, quali gli istanti, costituisca discriminazione per motivi religiosi, ai sensi dell’art 21 della Carta di Nizza e della direttiva 2000/78/ce ovvero se la circostanza che idoneità già in possesso del lavoratore possa essere revocata sia ragione giustificatrice idonea perché solo gli insegnanti di religione cattolica, quali gli istanti, siano trattati diversamente dagli altri docenti, non beneficiando di alcuna misura ostativa prevista dalla Clausola 5 dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato stipulato il 18 marzo 1999, figurante nell’allegato alla direttiva del Consiglio 28 giugno 1999, 1999/70/CE, relativa all’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato;
2) In ipotesi di ritenuta sussistenza di discriminazione diretta, ai sensi dell’art 2, paragrafo 2, lett a) della direttiva 2000/78/ce, per motivi religiosi (art 1), nonché ai sensi della Carta di Nizza, deve interrogarsi la Corte circa gli strumenti che questo giudice può adoperare per eliminarne le conseguenze, tenuto conto che tutti i docenti diversi dagli insegnanti di religione cattolica sono stati destinatari del piano straordinario di assunzioni di cui alla l. 107/15, ottenendo la immissione in ruolo con conseguente contratto di lavoro a tempo indeterminato, e, dunque, se questo giudice debba costituire un rapporto di lavoro a tempo indeterminato con la Amministrazione convenuta;
3) se la clausola 5 dell’accordo quadro di cui alla direttiva 1999/70/Ce debba essere interpretata nel senso che essa osta ad una normativa nazionale, come quella di cui trattasi, in forza della quale le norme di diritto comune disciplinanti i rapporti di lavoro, intese a sanzionare il ricorso abusivo a una successione di contratti a tempo determinato tramite la conversione automatica del contratto a tempo determinato in un contratto a tempo indeterminato qualora il rapporto di lavoro perduri oltre una data precisa, non sono applicabili al settore scuola, con specifico riferimento ai docenti di religione cattolica, in modo tale da consentire una successione di contratti di lavoro a tempo determinato per un periodo di tempo indefinito; in particolare se possa costituire ragione obiettiva ai sensi della clausola 5, punto 1, lettera a), dell’accordo quadro, la necessità d'intesa con l'ordinario diocesano, ovvero, di contro, debba ritenersi una discriminazione vietata ai sensi dell’art 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea;
4) in ipotesi di risposta positiva al quesito sub 3 se l’art.21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, la clausola 4 dell’accordo quadro di cui alla direttiva 1999/70/Ce e/o l’art.1 della direttiva 2000/78//Ce, consentano la disapplicazione le norme che impediscono la conversione automatica di un contratto a tempo determinato in un contratto a tempo indeterminato qualora il rapporto di lavoro perduri oltre una data precisa.».
In quindici anni tra le due ordinanze pregiudiziali dei Tribunali di Genova e di Napoli, l’unica posizione inossidabile, refrattaria ad ogni mutamento, è stata quella del granitico legislatore nazionale, che non ha mai modificato la norma – attuale art.36, comma 5, d.lgs. n.165/2001 – sottoposta al positivo scrutinio di legittimità costituzionale prima nella sentenza n.89/2003 e poi nella sentenza n.248/2018 della Consulta.
Anzi, la mancanza assoluta di misure effettive antiabusive e l’inadempimento integrale alla direttiva 1999/70/CE nei confronti di tutte le pubbliche amministrazioni, a prescindere dall’inesistenza di un criterio legale di determinazione del danno nel disposto dell’art.36, comma 5, del TUPI, è stata imposta dal legislatore del 2013 (art.4 d.l. n.101/2013, convertito con modificazioni dalla l. n.128/2013), dall’art.36, comma 5-quater, d.lgs. n.165/2001, che prevede appunto la nullità assoluta dei contratti flessibili stipulati in mancanza delle condizioni di legittima apposizione del termine, cioè privi di ragioni oggettive temporanee.
Vi è da evidenziare, però, che detta norma fu inserita dal Governo Letta in un complessivo contesto normativo (d.l. n.101/2013, cit.; d.l. n.104/2013) - determinato causalmente dal combinato disposto dell’ordinanza di rinvio pregiudiziale n.207/2013 della Corte costituzionale sui supplenti della scuola e dall’ordinanza pregiudiziale del Tribunale di Napoli sul precariato degli enti locali nella causa Russo C-63/13 -, in cui era anche previsto un importante piano di stabilizzazione del precariato pubblico anche scolastico e del Comparto Afam (d.l. n.104/2013, cit.), destinato ai precari “storici” che avessero maturato i 36 mesi di servizio anche non continuativi alle dipendenze della pubblica amministrazione dopo aver avuto accesso al lavoro pubblico attraverso procedure selettive pubbliche.
Il piano di stabilizzazione della decretazione d’urgenza del 2013 riproponeva quanto già previsto nel piano di stabilizzazione del Governo Prodi con l’art.1, commi 519 e 558, della legge finanziaria n.296/2006, imposto dalla sentenza Marrosu-Sardino della Corte di giustizia, e la stessa soluzione è stata adottata dall’art.20 del d.lgs. n.75/2017 (c.d. riforma Madia), dopo la mancata attuazione del piano di stabilizzazione del Governo Letta e i rilievi criteri sull’inadeguatezza della sanzione solo risarcitoria inventata dalla sentenza n.5072/2016 delle Sezioni unite per tutti i casi di abusivo ricorso ai contratti a tempo determinato successivi nel lavoro pubblico; rilievi mossi dapprima dal Tribunale di Trapani con la pregiudiziale “comunitaria” con l’ordinanza del settembre 2016 nella causa C-494/16 Santoro sul precariato degli enti locali siciliani, subito dopo dal Tribunale di Foggia con la pregiudiziale costituzionale dell’ottobre 2016 n.32/2017 sul precariato sanitario.
In tredici anni dalla sentenza Marrosu-Sardino, invece, tutto è cambiato nella giurisprudenza della Corte di giustizia sul precariato pubblico italiano.
Con l’ordinanza Affatato del 1° ottobre 2010 sul precariato sanitario, la Corte di giustizia ha risposto al Tribunale di Rossano , che aveva proposto sedici quesiti pregiudiziali per rappresentare plasticamente, da un lato, la totale mancanza di misure abusive in tutto il settore pubblico (scuola, sanità, enti locali, lavoratori socialmente utili, organismi di diritto pubblico come Poste italiane), dall’altro l’insufficienza della risposta interpretativa della sentenza Marrosu-Sardino, che aveva causato nell’ordinamento interno molta confusione sull’entità del risarcimento dei danni per l’abusivo ricorso ai contratti a termine nel pubblico impiego. La risposta della Corte Ue è stata quella della stabilizzazione come misura adeguata, individuata, guarda caso, al punto 48 dell’ordinanza, nell’applicazione integrale della sanzione della riqualificazione a tempo indeterminato dei contratti successivi che aveva maturato (e superato anche di un giorno) i 36 mesi di servizio anche non continuativi alle dipendenze della pubblica amministrazione, ai sensi dell’art.5, comma 4-bis, d.lgs. n.368/2001.
Con la sentenza Valenza la Corte di giustizia ha smentito l’interpretazione, proposta dal Consiglio di Stato nelle quattro ordinanze di rinvio pregiudiziale, secondo cui la normativa nazionale in questione nei procedimenti principali (art.75, comma 2, d.l. n.112/2008, disposizione non convertita in legge), che aveva consentito l’assunzione diretta di lavoratori precari in deroga alla regola del pubblico concorso per l’accesso al pubblico impiego (dipendenti delle Autorità indipendenti che avevano maturato 36 mesi di servizio), fosse compatibile con la clausola 4 dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, consentendo l’inquadramento in ruolo nel livello iniziale della categoria retributiva senza conservazione dell’anzianità maturata durante il rapporto a termine (punto 23 della sentenza).
La Corte Ue ha evidenziato che l’art.97, comma 4, Cost. consente l’immissione in ruolo nel lavoro pubblico non solo in base a procedure concorsuali, ma anche con disposizione di legge, come era avvenuto nella fattispecie di causa, seppure con decretazione d’urgenza “privilegiata” non convertita in legge.
Con l’ordinanza Papalia la Corte di giustizia, sulla pregiudiziale del Tribunale di Aosta che riguardava un caso clamoroso di abusivo ricorso ai contratti a tempo determinato successivi del capo della banda musicale del Comune di Aosta, che aveva maturato quasi 30 anni di ininterrotto servizio, ha dichiarato finalmente incompatibile con la direttiva 1999/70/CE quella stessa norma – l’art.36, comma 5, d.lgs. n.165/2001 - che era uscita da un giudizio di compatibilità “condizionata” con la sentenza Marrosu-Sardino.
Con la sentenza Mascolo la Corte di giustizia ha dichiarato incompatibilità con la direttiva 1999/70/CE del sistema di reclutamento del personale docente e a.t.a. della scuola pubblica, accogliendo sul punto i quesiti pregiudiziali sollevati dal Tribunale di Napoli e dalla Corte costituzionale con l’ordinanza n.207/2013.
Nel dichiarare assorbite tutte le altre domande pregiudiziali del giudice partenopeo, in particolare quelle sull’applicazione della clausola 4, n.1, dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato e sull’art.47 della Carta dei diritti fondamentali Ue per quanto riguarda la normativa interna che impediva la trasformazione a tempo indeterminato con efficacia retroattiva in caso di già avvenuto superamento dei 36 mesi di servizio anche non continuativi, la Corte Ue, tuttavia, si è preoccupata ancora una volta, in risposta all’ordinanza Russo C-63/13 sui supplenti degli asili del Comune di Napoli, di sottolineare che l’art.5, comma 4-bis, d.lgs. n.368/2001 era una misura adeguata ed efficace a sanzionare l’abusivo ricorso ai contratti a tempo determinato, invitando il Tribunale di Napoli, al punto 55, a continuare ad applicarla, come comportamento giudiziario di leale cooperazione con le Istituzioni Ue.
Con la sentenza Santoro la Corte di giustizia, rispondendo ai quesiti pregiudiziali sollevati dal Tribunale di Trapani sul precariato siciliano degli enti locali di lunga durata per quanto riguarda (soltanto) l’entità del risarcimento dei danni di rapporti di lavoro instaurati con le pubbliche amministrazioni senza alcuna procedura concorsuale (cioè nulli per violazione delle norme imperative in materia di assunzione nel pubblico impiego, ha depotenziato la sentenza n.5072/2016 delle Sezioni unite, ponendo a carico della pubblica amministrazione gli oneri probatori (negativi) sulla perdita di chance, ai fini della determinazione del risarcimento del danno integrale spettante al lavoratore precario per la perdita di un’opportunità stabile di lavoro.
Sul punto del risarcimento dei danni in caso di abusivo utilizzo dei contratti a tempo determinato la Risoluzione del Parlamento Ue del 31 maggio 2018 contro la precarietà dei rapporti di lavoro è chiarissima ai punti 19 e 20 nel recepire sia la sentenza Mascolo (punto 55) sia la sentenza Santoro (conclusioni): «19. sottolinea che la conversione di un contratto a tempo determinato in un contratto a tempo indeterminato per un lavoratore che abbia subito un abuso in materia di contratti a tempo determinato, in violazione della direttiva 1999/70/CE, non esime uno Stato membro dall’obbligo di punire tale abuso, compresa, in aggiunta, la possibilità per il lavoratore interessato di ottenere il risarcimento per qualsiasi danno subito in passato; 20. sottolinea che se uno Stato membro decide di punire la discriminazione o l’abuso nei confronti di un lavoratore temporaneo in violazione del diritto dell’UE mediante la concessione di un indennizzo a favore del lavoratore interessato, l’indennizzo deve essere in ogni caso adeguato ed efficace e deve costituire un risarcimento integrale per tutti i danni subiti».
Con la sentenza Sciotto la Corte di giustizia, rispondendo alla pregiudiziale sollevata dalla Corte di appello di Roma che riguardava l’applicabilità ai precari delle Fondazioni lirico-sinfoniche della tutela prevista dall’art.5, comma 4-bis, d.lgs. n.368/2001, prendendo atto della natura pubblica del datore di lavoro secondo la prospettazione del Governo italiano nelle sue osservazioni scritte (del resto la Corte costituzionale con la sentenza n.153/2011 considera gli enti lirici come organismi nazionali di diritto pubblico, cioè come enti pubblici non economici; in termini, la Cassazione con la sentenza n.12108/2018, cit.), ha così concluso: «La clausola 5 dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato….deve essere interpretata nel senso che essa osta ad una normativa nazionale, come quella di cui trattasi nel procedimento principale, in forza della quale le norme di diritto comune disciplinanti i rapporti di lavoro, e intese a sanzionare il ricorso abusivo a una successione di contratti a tempo determinato tramite la conversione automatica del contratto a tempo determinato in un contratto a tempo indeterminato se il rapporto di lavoro perdura oltre una data precisa, non sono applicabili al settore di attività delle fondazioni lirico-sinfoniche, qualora non esista nessun’altra misura effettiva nell’ordinamento giuridico interno che sanzioni gli abusi constatati in tale settore.».
Per rafforzare l’interpretazione di incompatibilità della normativa interna che esclude le tutele preventive della direttiva 1999/70/CE per i lavoratori a tempo determinato delle Fondazioni lirico-sinfoniche, la Corte Ue nella sentenza Sciotto ha sostanzialmente imposto l’applicazione diretta e verticale dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato all’inadempiente Stato italiano e a tutte le pubbliche amministrazioni attraverso il principio di non discriminazione sulle condizioni di lavoro di cui alla clausola 4 dello stesso accordo, così precisando al punto 71: «In ogni caso, come sostenuto dalla Commissione, poiché la normativa nazionale di cui trattasi nel procedimento principale non consente in nessuna ipotesi, nel settore di attività delle fondazioni lirico-sinfoniche, la trasformazione dei contratti di lavoro a tempo determinato in un contratto a tempo indeterminato, essa può instaurare una discriminazione tra lavoratori a tempo determinato di detto settore e lavoratori a tempo determinato degli altri settori, poiché questi ultimi, dopo la conversione del loro contratto di lavoro in caso di violazione delle norme relative alla conclusione di contratti a tempo determinato, possono diventare lavoratori a tempo indeterminato comparabili ai sensi della clausola 4, punto 1, dell’accordo quadro.»
Infine, l’Avvocato generale Szpunar nelle sue conclusioni scritte della causa Rossato C-494/17 (EU:C:2018:994), depositate il 6 dicembre 2018, sulla pregiudiziale sollevata dalla Corte di appello di Trento sul diritto del lavoratore pubblico al risarcimento dei danni per abusivo ricorso ai contratti a tempo determinato anche in caso di successiva immissione in ruolo presso la stessa pubblica amministrazione abusante, ha precisato al punto 60 che il danno che dà diritto al risarcimento, al quale si riferisce l’accordo quadro e la giurisprudenza della Corte di giustizia, riguarda (non il danno comunitario come inteso dalle Sezioni unite nella sentenza n.5072/2016, ma) il danno specifico connesso all’utilizzo abusivo di una successione di contratti a tempo determinato per una parte sostanziale della carriera professionale di un lavoratore, che lo esclude dal beneficio della stabilità dell’occupazione, il quale costituisce, come emerge dal secondo comma del preambolo dell’accordo quadro nonché dai punti da 6 a 8 delle considerazioni generali dello stesso, un elemento portante della tutela dei lavoratori.
Rispetto a questo quadro della giurisprudenza della Corte di giustizia in materia di abusivo ricorso ai contratti a tempo determinato nel pubblico impiego italiano, ci si attendeva una risposta della Cassazione e, soprattutto, della Corte costituzionale che superasse le criticità della soluzione del danno “comunitario” delle Sezioni unite e andasse nella direzione della riqualificazione a tempo indeterminato almeno nei casi in cui i contratti a tempo determinato successivi avessero raggiunto i 36 mesi di servizio anche non continuativi con assunzioni precedute da legittime procedure concorsuali pubbliche.
Non è sembrato un caso che la Suprema Corte, attenta all’evoluzione della giurisprudenza della Corte di giustizia, con l’ordinanza n.25728 del 15 ottobre 2018 (confermata dall’ordinanza n.4952/2019 dello stesso Collegio) valorizzasse, per escludere il divieto di conversione, la fattispecie di legittimo accesso al lavoro nella pubblica amministrazione attraverso procedure selettive pubbliche, esattamente nei termini enunciati dal Tribunale di Foggia nell’ordinanza di legittimità costituzionale, che avrebbe dovuto essere discussa il 23 ottobre 2018.
Viceversa, la Corte costituzionale con la sentenza n.248/2018 ha deciso per l’infondatezza (così nel dispositivo, ma nella motivazione si parla anche di inammissibilità) della questione di legittimità costituzionale sollevata dal giudice del lavoro sull’art.36, commi 5, 5-ter, 5-quater, d.lgs. n.165/2001 e sull’art.10, comma 4-ter, d.lgs. n.368/2001.
In un quadro normativo interno del precariato pubblico sanitario del tutto privo di tutele, anche di quella risarcitoria (art.36, comma 5-quater, d.lgs. n.165/2001), e che esclude, come per il settore scolastico, la stessa applicazione della direttiva 1999/70/CE (art.10, comma 4-ter, d.lgs. n.368/2001; ora art.29, comma 2, lett.c, d.lgs. n.81/2015), con una decisione che appare priva di adeguata motivazione, il giudice delle leggi si limita a dichiarare compatibili con la Costituzione nazionale le disposizioni ostative alla riqualificazione a tempo indeterminato e al risarcimento dei danni, affermando che anche nella fattispecie di causa siano applicabili i principi enunciati dalle Sezioni unite della Cassazione nella sentenza n.5072/2016 (che sarebbe stata dichiarata compatibile con la direttiva 1999/70/CE dalla sentenza Santoro della Corte di giustizia).
La sentenza n.248/2018 della Corte costituzionale si conclude nel modo peggiore, non solo ignorando la sentenza Sciotto della Corte di giustizia, ma alterando l’interpretazione della Corte Ue in subiecta materia: «Difatti, se da una parte, non può che confermarsi l’impossibilità per tutto il settore pubblico di conversione del rapporto da tempo determinato a tempo indeterminato − secondo la pacifica giurisprudenza eurounitaria e nazionale −, dall’altra sussiste una misura sanzionatoria adeguata, costituita dal risarcimento del danno nei termini precisati dalla Corte di cassazione.».
Il nucleo “causale” dell’ordinanza di rinvio pregiudiziale del 13 febbraio 2019 del Tribunale di Napoli sugli insegnanti precari di religione parte proprio da questo conflitto interpretativo tra la sentenza Sciotto della Corte di giustizia e la sentenza n.248/2018 della Corte costituzionale, come precisato dal giudice del rinvio al punto 15: «Ne deriva un contrasto tra dette Alte corti in relazione ai poteri del giudice interno, che dovrebbe sempre passare per il tramite della Corte costituzionale, nonché non potrebbe mai costituire rapporti di lavoro a tempo indeterminato, nei vari settori della P.A., anche in ipotesi di assoluta assenza delle misure ostative di cui alla Clausola 5. Da qui la necessità di interrogare nuovamente la C.g.u.e.».
3. L’ordinanza del Tribunale di Napoli tra discriminazione per motivi di culto e violazione del principio di uguaglianza: i poteri del giudice nazionale nella primazia del diritto Ue
L’ordinanza di rinvio pregiudiziale del Tribunale di Napoli sceglie, dunque, non solo la strada del rifiuto del sindacato di costituzionalità anche nella forma “decentrata” della sentenza n.20/2019 della Consulta, come aveva già fatto - in relazione alla formula più rigida dell’obiter dictum della sentenza n.269/2017 del Giudice delle leggi - la Cassazione con la sentenza n.12108/2018 e con le ordinanze di rinvio pregiudiziale n.13678/2018 e n.419/2019, ma anche quella della negazione di un ruolo valoriale e giuridico-istituzionale della Corte costituzionale in subiecta materia.
Insomma, il giudice partenopeo ha “tolto la parola” al Giudice delle leggi, non concedendo né la prima né l’ultima.
Infatti, diversamente dalle precedenti ordinanze di rinvio pregiudiziale dello stesso giudice nelle cause Affatato e Mascolo, il Tribunale di Napoli chiede alla Corte di giustizia di riconoscere il potere di non applicazione, con riconoscimento del diritto all’immissione in ruolo (secondo quesito pregiudiziale) o disapplicazione (quarto quesito pregiudiziale) delle norme interne ostative all’applicazione della tutela equivalente ed adeguata della riqualificazione a tempo indeterminato dei contratti a termine successivi che abbiano superato i 36 mesi di servizio.
La situazione fattuale degli insegnanti di religione supplenti è quella tipica del reclutamento scolastico, mai modificato, nonostante la sentenza Mascolo: una sequenza, a volte impressionante per la durata, di supplenze annuali che coprono l’intero anno scolastico (dal 1° settembre al 31 agosto), in misura comunque di gran lunga superiore per tutti ai 36 mesi di servizio, sempre continuativi e sempre per lo stesso tipo di attività didattica.
La situazione di inadempimento alla direttiva 1999/70/CE è quella già registrata dall’ordinanza n.207/2013 della Corte costituzionale per il precariato della scuola pubblica, all’interno del cui settore gli insegnanti di religione si collocano, e non è cambiata con la legge n.107/2013, anzi è peggiorata in termini di discriminazione rispetto a tutte le categorie di docenti supplenti che sono stati inseriti nel piano straordinario di stabilizzazione, «essendo notorio che ….la immissione in ruolo ha riguardato migliaia di docenti, inseriti nelle graduatorie provinciali ad esaurimento della scuola pubblica, che sono stati immessi in ruolo con decorrenza giuridica dal 1° settembre 2015, ai sensi dell’art.1, commi 95 ss., della legge n.107/2015, senza il possesso di alcun titolo di servizio nella pubblica amministrazione scolastica, per la mera condizione di essere inseriti in una graduatoria selettiva permanente ad esaurimento, il cui accesso era consentito fino al 2007 anche senza il superamento come idoneità all’insegnamento di procedura concorsuale» (punto 17 dell’ordinanza).
All’uopo, il giudice del rinvio si riconosce nella posizione della Cassazione dalla sentenza n.10127/2012 fino alle sentenze del 7 novembre 2016 (dalla n.22552 alla n.22558) sul precariato scolastico, che considera “diritto vivente” nella parte in cui la Suprema Corte esclude l’applicazione del d.lgs. n.368/2001 sulla base della normativa speciale applicabile, con conseguente carenza assoluta delle misure preventive e sanzionatorie previste dalla clausola 5 dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato.
Per gli insegnanti di religione la situazione di precarietà è accentuata, oltre che dalla reiterazione indefinitiva dei contratti a termine successivi in mancanza di procedure concorsuali per l’immissione in ruolo (l’ultimo concorso per l’assunzione a tempo indeterminato è stato quello del 2003), anche dal fatto che il conferimento dell’incarico di supplenza annuale è subordinato al possesso dell’idoneità conferita dall’ordinario diocesano, idoneità che può essere revocata anche nel caso in cui il docente sia stato assunto a tempo indeterminato, oltre che a tempo determinato.
In definitiva, il Tribunale di Napoli poggia il primo e il terzo dei quesiti sul divieto di discriminazione fondata sulla religione ai sensi dell’art.21 della Carta dei diritti fondamentali Ue e della direttiva 2000/78/CE, aggiungendo, per il terzo quesito, il principio di uguaglianza e non discriminazione di cui alla clausola 4 dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato recepito dalla direttiva 1999/70/CE e, implicitamente, l’art.20 della Carta di Nizza.
In particolare, il giudice del rinvio distingue l’ipotesi della discriminazione diretta (primo quesito) ai sensi degli artt. 1 e 2, paragrafo 2, lett.a), della direttiva 2000/78/CE da quella della discriminazione indiretta (terzo quesito) di cui agli artt. 1 e 2, paragrafo 2, lett.b), della stessa direttiva antidiscriminatoria sulle condizioni di lavoro.
La direttiva 2000/78/CE opera una distinzione tra, da un lato, le discriminazioni direttamente fondate sulla religione (e sulle altre condizioni discriminanti, convinzioni personali, handicap, età o tendenze sessuali), e, dall’altro, quelle definite «indirette», nel senso che le prime non possono essere giustificate da una finalità legittima. Per contro, in forza dell’articolo 2, paragrafo 2, lettera b), della suddetta direttiva, le disposizioni, i criteri o le prassi tali da costituire discriminazioni indirette possono evitare la qualifica di discriminazione a condizione che siano «oggettivamente giustificati da una finalità legittima e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari» .
Infatti, al terzo quesito viene indicata come ipotesi di finalità legittima per giustificare la discriminazione indiretta la ragione obiettiva della “necessità d’intesa con l’ordinario diocesano”, di cui alla clausola 5, punto 1, lett.a), dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato.
Pare evidente che l’intesa con l’ordinario diocesano, nell’ottica del principio di uguaglianza e non discriminazione di cui alla clausola 4, punto 1, dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato e gli artt.20 e 21 della CDFUE, in combinato disposto con l’art.1 della direttiva 2000/78/CE, non costituisca finalità legittima o ragione oggettiva per giustificare la discriminazione indiretta nei confronti di tutti i lavoratori a tempo determinato a cui si applica la disciplina di diritto comune.
Il paradosso proposto dal Tribunale di Napoli con due quesiti (il primo e il terzo) non subordinati è estremamente interessante per le conseguenze pratiche della futura decisione della Corte di giustizia.
Se la Corte Ue si limitasse, come nell’ordinanza Maturi, ad evidenziare la discriminazione diretta per ragioni di religione, rispondendo soltanto ai primi due quesiti, al giudice del rinvio, senza incidere sull’assetto normativo interno, sarebbe sufficiente riconoscere agli insegnanti di religione precari lo stesso diritto all’immissione in ruolo scelto dalla legge n.107/2015 a tutti gli altri docenti supplenti inseriti nelle graduatorie ad esaurimento attraverso il piano di reclutamento straordinario, così applicando in via diretta l’art.21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, di cui il Tribunale di Napoli riconosce l’avvenuta costituzionalizzazione con le sentenze Egenberger, Bauer e Willmeroth e Max-Planck della Corte di giustizia (punto 16).
Così facendo, il Tribunale di Napoli opererebbe nel solco tracciato dalla sentenza Mascolo e ribadito dalla sentenza Santoro: «Inoltre quando, come nel caso di specie, il diritto dell’Unione non prevede sanzioni specifiche nell’ipotesi in cui vengano nondimeno accertati abusi, spetta alle autorità nazionali adottare misure che devono rivestire un carattere non solo proporzionato, ma anche sufficientemente energico e dissuasivo per garantire la piena efficacia delle norme adottate in applicazione dell’accordo quadro…. Seppure, in mancanza di una disciplina dell’Unione in materia, le modalità di applicazione di tali norme spettino all’ordinamento giuridico interno degli Stati membri in forza del principio dell’autonomia procedurale di questi ultimi, esse non devono essere però meno favorevoli di quelle che riguardano situazioni analoghe di natura interna (principio di equivalenza) né rendere in pratica impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico dell’Unione (principio di effettività)….» (sentenza Mascolo, punti 77-78; sentenza Santoro, punti 29-30).
Si tratterebbe, peraltro, di una decisione giudiziale non invasiva del potere legislativo, ma che si limiterebbe, con la copertura costituzionale della CDFUE e dell’art.3 Cost. (sul cui disposto si fondano gli artt.20 e 21 della Carta di Nizza, cioè le due norme che più contribuiscono, con il principio fondamentale di uguaglianza e non discriminazione, alla formazione delle tradizioni costituzionali comuni su cui poggia il pilastro sociale europeo e l’intero sistema di tutela giurisdizionale Ue), ad estendere alle categorie svantaggiate gli stessi effetti di costituzione del diritto riconosciuti dalla norma interna alle categorie privilegiate, senza oneri per la finanza pubblica, trattandosi, per gli insegnanti di religione supplenti, di personale che viene impiegato per tutto l’anno scolastico su posti vacanti in organico e con la reiterazione indefinita dei rapporti di lavoro a termine.
Più complessi e preoccupanti (per le finanze erariali) appaiono gli effetti legati all’accoglimento (ovviamente eventuale, ma abbastanza prevedibile ove la Corte Ue voglia dare continuità alla sentenza Sciotto) del terzo quesito sulla discriminazione indiretta (o, meglio, sulla discriminazione tout court priva di ragioni oggettive).
In questo caso, il giudice del rinvio, disapplicando (in caso di accoglimento, scontato, del quarto quesito sui poteri del giudice nazionale) le norme interne ostative per applicare il diritto Ue (sempre con la copertura costituzionale degli artt.20 e 21 CDFUE e degli artt.3 e 117, comma 1, Cost., in combinato disposto con il diritto derivato Ue della clausola 4, punto 1, dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato e dell’art.1 della direttiva 2000/78/CE), dovrebbe applicare la tutela di diritto comune, cioè la trasformazione a tempo indeterminato dei contratti a termine successivi che hanno superato i 36 mesi di servizio anche non continuativi di cui all’art.5, comma 4-bis, d.lgs. n.368/2001, con l’aggiunta del risarcimento del danno per l’ingiustificata precarizzazione costituito dalle maggiorazioni previste dall’art.5, comma 1, d.lgs. n.368/2001 per ogni giorno di servizio successivo al raggiungimento dei 36 mesi di lavoro, oltre, nel caso di contratti a tempo determinato successivi con soluzione di continuità, al risarcimento dei danni previsto dall’art.32, comma 5, della legge n.183/2010 (oggi art.28, comma 2, d.lgs. n.81/2015).
Paradossalmente, quindi, l’accoglimento del primo quesito sulla discriminazione diretta, che è più grave di quella indiretta non ammettendo alcuna legittima finalità che la possa giustificare, provocherebbe meno danni alle pubbliche amministrazioni, anzi, come anticipato, nessun danno per quanto riguarda la “stabilizzazione” degli insegnanti di religione, trattandosi di quella situazione che ha inventato la fantasiosa giurisprudenza spagnola di contratti (sostanzialmente) “a tempo indeterminato non permanente”, cioè legati annualmente all’intesa con l’ordinario diocesano e al permanere dell’idoneità all’insegnamento concessa dalla stessa autorità ecclesiastica.
Con questa tecnica interpretativa ad incastro e per quesiti simili ma non sovrapponibili, in verità, il Tribunale di Napoli ha messo in evidenza anche le contraddizioni interne alla giurisprudenza “comunitaria” sul precariato pubblico italiano, legate a loro volta alla pretesa interna di individuare nella sentenza n.5072/2016 delle Sezioni unite della Cassazione una soluzione di sistema.
Viceversa, la sentenza n.5072/2016 delle Sezioni unite era legata ad una vicenda processuale collocata in un contesto normativo nazionale completamente diverso da quello successivo (l’ultimo contratto a termine dei cuochi Marrosu e Sardino era cessato nei primi mesi del 2002), in vigore dal settembre 2013 (art.36, comma 5-quater, d.lgs. n.165/2001), in cui la sentenza di 2° grado della Corte di appello di Genova, non impugnata dai lavoratori sul punto, limitava la sanzione dell’abusivo ricorso ai contratti a termine nel pubblico impiego al solo risarcimento del danni nella misura delle 20 mensilità di retribuzione, in applicazione analogica dell’art.18, commi 4 e 5, della legge n.300/1970.
E’ sufficiente leggere il punto 62 della sentenza Sciotto della Corte Ue: «Ne deriva che l’ordinamento giuridico italiano non comprende, nel settore delle fondazioni lirico-sinfoniche, nessuna misura effettiva, ai sensi della giurisprudenza citata al punto 60 della presente sentenza, che sanzioni l’utilizzo abusivo di contratti a tempo determinato, e ciò sebbene il personale di tale settore, contrariamente ai lavoratori di cui trattasi nella causa che ha condotto alla sentenza del 7 marzo 2018, Santoro (C 494/16, EU:C:2018:166, punti 35 e 36), non abbia diritto all’attribuzione di un’indennità ai fini del risarcimento del danno subito.».
Secondo la Corte di giustizia nella sentenza Sciotto la precaria siciliana degli enti locali della causa C-494/16 alle dipendenze “a tempo indeterminato non permanente” del Comune di Valderice (attualmente stabilizzata dopo la sentenza Santoro) godeva comunque, per l’abusivo ricorso al contratto a tempo determinato, dell’indennità forfetaria creata dalle Sezioni unite, mentre la tersicorea alle dipendenze a tempo determinato della Fondazione Teatro dell’Opera di Roma della causa Sciotto non beneficiava di alcuna tutela preventiva e sanzionatoria contro l’abusivo ricorso ai contratti a tempo determinato, per l’inapplicabilità dell’intero d.lgs. n.368/2001.
Ma la prospettiva della Corte Ue è errata, perché anche rispetto al precariato siciliano degli enti locali, i cui rapporti di lavoro - in un contesto regionale in cui da oltre 60 anni non si espletano concorsi pubblici per l’assunzione a tempo indeterminato, salvo quelli recentemente imposti dalla sentenza Santoro – nascono da esperienze di workfare (lavoratori socialmente utili o ASU o inseriti in cooperative per l’espletamento di lavori di pubblica utilità) che sono state poi trasformate in contratti a tempo determinato alle dirette dipendenze delle pubbliche amministrazioni territoriali, vi è una situazione normativa regionale che impedisce ogni tutela effettiva, anche quella del risarcimento dei danni.
Infatti, all’udienza pubblica del 19 febbraio 2019 è stata discussa davanti alla Consulta la questione di legittimità costituzionale sul descritto precariato siciliano, sollevata con ordinanza del 7 giugno 2017 n.156/17 del Tribunale di Termini Imerese , in relazione all'art. 77, comma 2, della legge regionale Sicilia n. 17 del 2004, che prevede espressamente: «Le disposizioni di cui al decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368, non si intendono applicabili ai contratti a termine volti alla stabilizzazione dei soggetti destinatari del regime transitorio dei lavori socialmente utili.».
In definitiva, è tutto il precariato pubblico (scuola, sanità, enti locali, enti lirico-sinfonici, università, conservatori di musica, ecc.) che rimane del tutto privo di tutele sanzionatorie, sulla base di una normativa interna che preclude ogni misura ostativa, negando la possibilità stessa che vi possa essere un abuso, per inapplicabilità generale della disciplina interna antiabusiva (art.36, comma 5-quater, d.lgs. n.165/2001), a cui, nei singoli settori del lavoro pubblico, il legislatore nazionale ha aggiunto ulteriori disposizioni (anche di contrattazione collettiva di comparto) di inadempimento integrale alla direttiva 1999/70/CE, come per la scuola, per la sanità, per le fondazioni lirico-sinfoniche, per i conservatori di musica, per gli enti locali (compresi quelli siciliani), per limitarci alle fattispecie già esaminate dalla Corte di giustizia nelle decisioni Marrosu-Sardino, Affatato, Papalia, Mascolo, Santoro, Sciotto o, in quelle ancora da definire, come la causa Rossato o come l’ordinanza pregiudiziale sugli insegnanti di religione.
Se è pur vero che il Tribunale di Napoli con l’ordinanza in commento ha optato per il rifiuto del sindacato accentrato di costituzionalità da estendere alla disciplina dell’Unione nei casi di doppia pregiudizialità, la Corte costituzionale, dopo la sentenza n.248/2018, ha la possibilità di rivedere la propria posizione sull’evanescente (alla luce della ora “pacifica giurisprudenza eurounitaria” in senso contrario) divieto assoluto di conversione a tempo indeterminato in tutto il settore pubblico, per rilanciare il dialogo diretto con la Corte di giustizia Ue, iniziato con l’ordinanza n.207/2013, e contribuire a risolvere definitivamente il problema ormai patologico del precariato pubblico.
Come è già avvenuto per il precariato scolastico con la sentenza Mascolo, giudice comune europeo e Corte costituzionale, in idem sentire, potrebbero costringere il legislatore nazionale ad un ravvedimento operoso definitivo e a trovare una soluzione erga omnes di stabilizzazione per tutte le categorie di lavoratori a tempo determinato che abbiano maturato 36 mesi di servizio alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni e che abbiano avuto accesso al lavoro pubblico flessibile attraverso legittime procedure di reclutamento.
Come era avvenuto con la fondamentale sentenza n.260/2015 della Corte costituzionale sui precari delle Fondazioni pubbliche liriche-sinfoniche, in cui la Consulta aveva recuperato la contralità del contratto a tempo indeterminato attraverso la giurisprudenza della Corte di giustizia in materia di ragioni oggettive temporanee nei contratti a termine, salvo l’inspiegabile retromarcia della sentenza n.248/2018.
4. Le sentenze della Cassazione in “adesione” alla sentenza Sciotto della Corte Ue: torna l’interpretazione conforme, costituzionalmente e comunitariamente rafforzata
Con le due recentissime sentenze nn.6679-6680/2019 la Cassazione ha la prima occasione di confrontarsi con i principi enunciati dalla Corte di giustizia nella sentenza Sciotto, prunciandosi sull’illegittimità per mancanza di ragioni oggettive temporanee dei singoli contratti di lavoro a tempo determinato nel lasso temporale complessivo dal 2003 al 2008 stipulati dalla Fondazione Teatro dell’Opera di Roma con una violinista di fila (n.6679/2019, con accoglimento del ricorso proposto dalla lavoratrice) e con tre maschere di sala (n.6680/2019, con rigetto del gravame del datore di lavoro pubblico).
In primo luogo, la Suprema Corte supera i divieti di assunzione a tempo indeterminato e di indire nuove procedure concorsuali previsti del settore delle Fondazioni liriche dalle leggi finanziarie n. 266/2005 (art. 1, comma 595) e n.244/2007 (art.1, comma 392), dall’art. 3, comma 5, del d.l. n.64/2010 (convertito, con modificazioni, dalla legge n.100/2010) e dall’art. 11, comma 19, del d.l. n.91/2013 (convertito, con modificazioni, dalla legge n.112/2013), considerati “limiti esterni” al rapporto di lavoro «siccome riguardanti il funzionamento e l'autorganizzazione del datore di lavoro che, pur potendo incidere indirettamente sulla esistenza del rapporto di lavoro invocata dal privato, non possono far degradare la sua posizione di diritto soggettivo sorta in conseguenza di atti di gestione del rapporto di tipo privatistico (cfr., Cass., sez. un, 14 dicembre 1999, n. 894)» (sentenza n.6680/2019, punto 1.1.4).
Tuttavia, la Corte di legittimità si sforza anche di consolidare la propria costante giurisprudenza sul punto, richiamando le due sentenze della Corte di giustizia che consentirebbero al giudice nazionale i maggiori spazi di diretta applicazione del principio di uguaglianza e non discriminazione di cui all’art.3 Cost. anche nelle controversie tra privati, attraverso la clausola 4 dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato (sentenza Sciotto, punto 71) e l’art.20 della Carta dei diritti fondamentali Ue (sentenza Milkova): «Tale conclusione risulta oggi vieppiù imposta dalla interpretazione conforme della normativa considerata all'ultima parte della decisione di recente resa dalla Corte di giustizia nella causa Sciotto, (Corte di giust. 25 ottobre 2018, causa C-331/17) ed alla necessità di evitare gravi disparità di trattamento anche alla luce della sentenza Milkova (V. Corte Giust. 9 marzo 2017, Causa C- 406/15, Milkova) dovendo scongiurarsi il rischio che la distinzione operata da una normativa nazionale tra i lavoratori subordinati a tempo determinato alle dipendenze di un qualsiasi datore di lavoro privato e quelli che svolgano le medesime mansioni alle dipendenze di una Fondazione lirica, non risulti adeguata al fine perseguito da tale normativa.» (sentenza n.6680/2019, punto 1.2)
Abilmente, la Cassazione evita il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia, che sarebbe imposto dall’estensione a tutto il settore pubblico (comprese le Fondazioni liriche), da parte della Corte costituzionale nella sentenza n.248/2018, del divieto assoluto di conversione a tempo indeterminato dei rapporti flessibili illegittimi, per tornare all’interpretazione conforme o adeguatrice sulla necessità di giustificare la legittima apposizione del termine al rapporto di lavoro con ragioni oggettive temporanee, teorizzata dalla fondamentale sentenza n.12985/2008 della Suprema Corte.
All’uopo, la Suprema Corte richiama il precedente n.260/2015 della Consulta in subiecta materia, evidenziando l’idem sentire di tutte le Alte Corti (nell’ordine, Cassazione, Corte costituzionale e Corte di giustizia) sulla tutela effettiva delle ragioni oggettive, per ogni singolo contratto a tempo determinato, da riconoscere anche in un settore potenzialmente caratterizzato da alta flessibilità, come quello delle Fondazioni liriche.
La Cassazione usa una tecnica interpretativa di diritto comune o giurisprudenziale che autoqualifica come “interpretazione conforme”, che, in realtà, ricostruisce la garanzia della stabilità lavorativa praeter legem o, forse più correttamente, contra legem se si limita lo sguardo ermeneutico alla legislazione ordinaria interna, ma in un nuovo sistema delle fonti normative fondato sull’identità dei principi costituzionali ed europei e sulla loro diretta precettività attraverso il principio di non discriminazione delle situazioni che necessitano di identità di tutela, in mancanza di ragioni obiettive che giustifichino la differenza di trattamento regolativo.
E’ forse l’epilogo virtuoso, per molti aspetti inatteso, della fase ascendente della giurisprudenza nazionale di ultima istanza sulla tutela dei diritti fondamentali dei lavoratori precari, che ha tentato di imporre all’Unione europea il suo punto di vista sulla necessità di dare nuova centralità al contratto a tempo indeterminato, ridimensionando gli spazi della flessibilità deregolativa dei rapporti di lavoro voluta anche dalla Commissione Ue, riuscendoci, dopo molti contrasti all’interno sia della Corte comunitaria che della Cassazione, proprio quando sembrava che l’unica misura preventiva applicabile nell’ordinamento interno dovesse essere quella della clausola di durata massima complessiva dei contratti successivi, resa più restrittiva dal fatto che la sentenza Sciotto della Corte di giustizia non ne ammette un’interpretazione estensiva che differenzi mansioni e livelli di inquadramento dei rapporti a termine con lo stesso datore di lavoro, pubblico o privato, come invece l’art.5, comma 4-bis, d.lgs. n.368/2001 disponeva.
Stringente e essenziale, in tale direzione, è la conclusione della Cassazione sulle direttive interpretative al giudice di merito per individuare le ragioni oggettive che consentano la legittima apposizione del termine nel settore dello spettacolo: «Non rispettato deve ritenersi, ad avviso di questa Corte, il canone esegetico improntato al massimo rigore nella individuazione delle ragioni obiettive che presiedono alla possibilità di stipulare contratti a tempo determinato nell'ambito delle Fondazioni Liriche come dianzi descritti in relazione alle esigenze tecnico – artistiche connesse. Inidonea infatti, deve ritenersi la sussunzione nell'ambito della fattispecie legale con il mero riferimento ai singoli contratti intercorsi con la ricorrente, violinista di fila, in relazione alla messa in scena di un numero limitato di spettacoli nell'ambito del più vasto cartellone stagionale ed avendo il giudice di merito non correttamente applicato il disposto dell'art. 1, comma 1 del D.Lgs. n. 368 del 2001, nel ritenere ammissibile il contratto a termine qualora, anche a fronte di una occasione permanente di lavoro ed in presenza di una orchestra costituita da numerosi violini stabilmente assunti, sussista una non meglio precisata ragione, riconducendosi la stessa esclusivamente alla produzione di singoli spettacoli o di una serie limitata di spettacoli nominativamente e temporalmente individuati nell'ambito della programmazione permanente.» (sentenza n.6679/2019, punto 5).
Il ritorno della Cassazione al suo passato dell’interpretazione conforme, costituzionalmente e comunitariamente orientata e rafforzata dalla Carta di Nizza e dalla giurisprudenza della Corte Ue, rappresenta più di una speranza che, nel futuro, il sistema di tutele assicurato dall’ordinamento eurounitario possa ancora costituire le fondamenta della fragile costruzione dell’Unione europea.
In ogni caso, la Suprema Corte, con le due sentenze che aderiscono alle indicazioni interpretative della sentenza Sciotto, appare rafforzare la scelta del Tribunale di Napoli di interrogare nuovamente la Corte di giustizia sugli insegnanti di religione precari, evitando, con il crisma della nomofilachia autentica della normativa interna, di sollevare nuova questione pregiudiziale alla Corte Ue, evitando di scontrarsi con il sindacato accentrato di costituzionalità quando, come in subiecta materia, la Consulta con la sentenza n.260/2015 aveva condivisibilmente protetto la già consolidata giurisprudenza della Cassazione a favore dei lavoratori precari degli Enti lirici.