TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA
1. Introduzione
“Maschi e femmine si nasce, donne si diventa”. Con questa frase Simone De Beauvoir, scrittrice e filosofa francese, considerata la madre del movimento femminista, inquadrava la questione di genere: “una femmina diventa donna sotto le influenze del contesto sociale e per essere accettata dal maschio, considerato l’altro” .
Ebbene anche oggi, nonostante le politiche relative alle pari opportunità, intendendo con tale espressione un insieme di iniziative e di norme tendenti al superamento di condizioni sfavorevoli alla realizzazione di un’effettiva parità uomo-donna, siano riconosciute da diverse fonti normative nazionali ed eurounitarie, esse sembrano non trovare compiuta applicazione in ambito lavorativo e sono oggetto di crescenti e fervidi dibattiti . Così, se si rileva un unanime consenso sulla necessità di attivare un insieme, complesso e articolato, di strategie e politiche che incentivino l’occupazione femminile, che forniscano un supporto adeguato alla soluzione dei problemi connessi alla conciliazione dei tempi di vita-lavoro, che eliminino il gender pay gap , lo stesso non si riscontra sul metodo da seguire e sulle singole azioni da intraprendere.
In questo contributo si vuole offrire qualche spunto di riflessione sulla disparità retributiva di genere con specifico riferimento alla sfera del lavoro autonomo e della libera professione, nelle quali sopravvivono stereotipi culturali e processi di categorizzazione, che hanno dato origine ad una profonda asimmetria di potere e di vantaggio tra lavoratori di sesso maschile e lavoratori di sesso femminile. Al pari di fenomeni, altrettanto “odiosi”, la problematica della differenziazione salariale influenza negativamente sulla crescita di un determinato contesto, territorio, categoria o professione, limitando, per esempio, le opportunità di lavoro, i servizi per la famiglia, o indirettamente, la possibilità di scelta delle giovani donne . Allo stesso tempo, precludendo di guadagnare nella stessa misura degli uomini lungo l’intero arco della vita, la disparità produce anche effetti negativi sul piano pensionistico.
Secondo recenti studi condotti dall’Associazione degli Enti Previdenziali Privati (d’ora in avanti AdEPP) e da Confprofessioni, è proprio nell’area dell’autonomia e delle libere professioni che il gender pay gap si presenta più radicato e diffuso rispetto a quello della subordinazione. Precisamente, se esso si attesta per le lavoratrici dipendenti intorno al quattro per cento, per le libere professioniste il dato si presenta più che allarmante, aggirandosi intorno al quarantacinque per cento . Un fenomeno che presenta dinamiche assai ambigue e che aumenta con il progredire dell’età anagrafica: fino ai trent’anni il gap retributivo, rispetto ai colleghi maschi, è di circa 1.900 euro annui, tra i quaranta e cinquant’anni di 17 mila euro, tra i cinquanta e i sessanta anni di oltre 22 mila euro. Siamo dunque ben lontani dalla raffigurazione del lavoratore autonomo “(…) appartenente ad un’élite professionale, come tale caratterizzata da una posizione di privilegio già sul piano dell’apprezzamento sociale” .
Vi sono, inoltre, ulteriori “differenze nelle differenze” in quanto alcune professioni presentano picchi di discrimine retributivo (è il caso dei notai, dei commercialisti e dei biologi), mentre altre sembrano favorire maggiormente l’inclusione delle donne ed una maggior parità salariale (è il caso delle professioni infermieristiche). Ma v’è di più. Perché indagando più approfonditamente si scopre che le libere professioniste dichiarano un compenso inferiore del quarantacinque per cento rispetto ai lavoratori di sesso maschile, con un reddito medio pari a 24 mila euro contro i 43 mila euro dei colleghi maschi. Un divario significativo che si riscontra anche a livello territoriale, dove la differenza reddituale uomo/donna è pari al quarantasei per cento nelle regioni del Nord, al quarantasette per cento nelle regioni del Centro, e al quarantatré per cento nel Sud Italia.
Non vi è dubbio che il silenzio (e l’ambiguità) del legislatore domestico sul tema delle discriminazioni nell’area dell’autonomia e delle libere professioni abbia contribuito non poco alla diffusione e al radicamento del fenomeno. D’altra parte, l’estensione del diritto antidiscriminatorio si rinviene dall’elaborazione dei giudici della Corte di Lussemburgo in ordine all’applicazione del principio della “parità di trattamento tra uomini e donne” (ai sensi dell’art. 3 Direttiva 86/813/CE), anziché da fonti normative specifiche, con qualche limitata eccezione riguardante il solo aspetto dell’indennità di maternità delle lavoratrici autonome (si veda la legge n. 546/1987). Nondimeno è accaduto sul piano del riconoscimento di un compenso minimo, sebbene sul punto, come si verificherà nel prosieguo, si registrano alcune significative novità solo in tempi relativamente recenti.
Certamente, a (parziale) giustificazione dell’inerzia a identificare uno specifico nucleo normativo riferibile al lavoratore autonomo in quanto tale, si può rammentare che l’area si presenta non poco frastagliata e plurale, e che non sempre sollecita le stesse esigenze di disciplina e le medesime istanze di tutela. Se operassimo un raffronto con l’area della subordinazione , finiremmo per rilevare in quest’ultima non solo puntuali tutele giurisdizionali e semplificazioni processuali, al fine di rilevare ed eliminare la discriminazione retributiva , bensì anche norme ad hoc sulla parità di trattamento economico contrattuale, sia pure limitatamente al settore pubblico (è il caso dell’art. 45, co. 2, D.lgs. 30 marzo 2001 n. 165 per i dipendenti individuati nell’art. 2 commi 2 e 3 del medesimo decreto) ovvero specifiche previsioni sul diritto di informazione delle retribuzioni effettivamente corrisposte ai propri dipendenti nelle aziende con oltre cento dipendenti (ex art. 46 del Codice delle Pari Opportunità) . Senza trascurare che nel settore privato vige un principio, che la giurisprudenza qualifica di “parità dei minimi”, sulla base del quale ogni trattamento differenziato, al di sopra dei limiti previsti nei contratti collettivi, è pienamente legittimo .
Nel lavoro autonomo e nelle libere professioni non è dato riscontrare, al di là delle già evidenziate enunciazioni di principio, fonti che intervengono sulla discriminazione retributiva, e gli interventi normativi, che si sono succeduti negli ultimi anni, focalizzati più sul riconoscimento di un compenso commisurato al “minimo”, hanno all’opposto contribuito ad abbassare i redditi dei giovani professionisti e delle donne, a parità di professione e di attività svolta. Peraltro, va segnalato come l’aggregato dei liberi professionisti sia, tra tutti i gruppi professionali, quello che si sta evolvendo più rapidamente: negli ultimi dieci anni, secondo Confprofessioni, la libera professione non ha avuto eguali negli altri settori del lavoro indipendente, ancorché abbia evidenziato una significativa differenza “di genere” a favore della componente maschile (nel 2019 le donne rappresentavano solo il 36 per cento) .
Ad uno scenario, che si presentava (e che si presenta) di per sé già molto stratificato e complesso, l’attuale emergenza epidemiologica ha contribuito non poco ad acuirne la crisi: nel settore delle libere professioni e, nei primi sei mesi del 2020, oltre trentamila liberi professionisti (in prevalenza donne) si sono visti costretti ad abbandonare la propria attività. Significativo, infatti, è il dato in base al quale, nel solo mese di aprile 2020, oltre 400 mila iscritti alle Casse di Previdenza Private avrebbero beneficiato dell’indennità introdotta dal decreto legge 17 marzo 2020 n. 18, convertito con modificazioni nella legge 24 aprile 2020 n. 27(c.d. Decreto Cura Italia). Ed è proprio per far fronte alla profonda crisi economica causata dal permanere dello stato di pandemia da Covid-19, che lo Stato, con il recente “decreto sostegni” ha varato un fondo di 1,5 miliardi di euro per l’esonero dei lavoratori autonomi e dei professionisti dai contributi previdenziali per l’anno 2021, potenziando il fondo a tal fine già previsto dalla Legge di Bilancio 2021 .
Riferendoci segnatamente all’ambito forense, i numeri forniti dalla Cassa professionale ci offrono un’immagine di “un’avvocatura donna” sempre più in crescita, ma meno retribuita di quella degli avvocati uomini . Dati che ricevono conferma anche dal recente Rapporto Censis , 2021, nel quale si rileva che il reddito professionale medio dichiarato nell’anno 2019 dagli iscritti alla Cassa Forense è di circa 40.180 euro e che, a parità di età, una avvocata ha un reddito dichiarato che si riduce a meno di due terzi rispetto al suo collega uomo. Lo studio rivela evidenze poco confortanti: il reddito professionale medio dichiarato ai fini IRPEF di un uomo avvocato, riferibile all’anno 2019, è pari ad euro 54.496, mentre quello dichiarato da una donna avvocato risulta essere al di sotto della metà (precisamente pari a euro 25.073). Se poi colleghiamo il dato all’età e all’area geografica, le donne avvocate risultano senza dubbio penalizzate con un reddito medio che non supera il 62,5 per cento di quello complessivo.
Del pari le donne residenti nelle regioni del Sud Italia subiscono uno scarto rispetto al dato medio nazionale di oltre 16 mila euro (ossia di 40 punti percentuali) e di oltre 33 mila euro rispetto al dato medio del Nord Italia. Confrontando i risultati della Lombardia con quelli della Calabria, il gap è ancora più significativo, giungendo ad oltre 50 mila euro.
A fine 2020, su un campione di 14 mila avvocati, il 66,7 per cento dei soggetti che raggiunge un livello di reddito netto annuo compreso tra i 50 mila ed i 100 mila euro sono uomini. Il gap diventa ancora più significativo aumentando la soglia di reddito ad oltre i 100 mila euro in cui la componente maschile prevale per l’84,6 per cento.
Comprendere le ragioni di questo differenziale retributivo non è operazione semplice perché le cause paiono molteplici, interconnesse tra loro, e attengono agli aspetti individuali, familiari, collettivi e sociali, e (non) per ultimi, giuridici . All’evidenza, dunque, traspare la consapevolezza che il gap retributivo debba essere affrontato, da un lato, con la previsione di misure volte a rimuovere gli ostacoli che di fatto impediscono la piena realizzazione della parità di trattamento retributivo e, dall’altro, con l’introduzione di interventi normativi, ispirati ai principi generali contenuti nelle convenzioni, negli atti internazionali e nelle norme comunitarie, che tutelino la dignità sociale della persona e superino gli stereotipi dell’irrilevanza e dell’insufficienza dell’apporto delle donne nel lavoro professionale ed autonomo. Scopo di questo contributo è dunque di indagare, sul piano giuridico, su come il fenomeno del gender pay gap sia stato preso in considerazione dalle norme sul lavoro autonomo e sulle libere professioni e su quanto ancora si potrebbe fare in una prospettiva de iure condendo.
2. Alla ricerca della parità retributiva di genere nel lavoro autonomo e nelle professioni intellettuali
Come è noto, il principio della parità retributiva, nel lavoro subordinato, ha trovato esplicito riconoscimento nel Trattato di Roma, firmato il 25 marzo 1957, che segna la nascita della Comunità Economica Europea. Nell’art. 119 – inserito nel capitolo sulle disposizioni sociali – era contenuto l’obbligo per gli Stati membri di rispettare il principio della parità di retribuzione tra lavoratori e lavoratrici “per uno stesso lavoro”. Verso la metà degli anni ’70, vennero poi emanate le prime due direttive volte ad eliminare le discriminazioni di genere nel mondo del lavoro , rispettivamente in tema di parità salariale e di parità di trattamento normativo tra lavoratori di sesso maschile e di sesso femminile. Un principio che è andato, nel corso degli anni, ad assumere sempre più rilievo nella elaborazione del diritto eurounitario, rappresentando il fondamento su cui ogni Stato membro è chiamato ad uniformare la propria legislazione domestica nell’ambito del lavoro subordinato. L’art. 119 fu poi modificato dal Trattato di Amsterdam del 2 ottobre 1997, il cui art. 141 così recitava: “ciascuno Stato membro assicura l'applicazione del principio della parità di retribuzione tra lavoratori di sesso maschile e quelli di sesso femminile per uno stesso lavoro o per un lavoro di pari valore” .
Tale norma è confluita nel vigente art. 157 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE) secondo cui “ciascuno Stato membro assicura l’applicazione del principio della parità di retribuzione tra lavoratori di sesso maschile e quelli di sesso femminile per uno stesso lavoro o per un lavoro di pari valore. Tale principio si applica anche ai sistemi di classificazione professionale utilizzati per determinare le remunerazioni”.
Il riferimento ad “un lavoro di pari valore” (e non più solo ad una pari retribuzione per uno stesso lavoro) con livelli e tipologie di retribuzione da determinarsi non più in base al sesso del prestatore d’opera, ma sulla base di una valutazione obiettiva della prestazione lavorativa svolta, rappresenta il punto di approdo più alto per il legislatore eurounitario. Perché la circostanza che il lavoratore di sesso femminile – che sostiene di essere vittima di una discriminazione retributiva basata sul sesso – e il lavoratore di sesso maschile siano inquadrati nella stessa categoria professionale, non è da solo sufficiente per concludere che i due lavoratori interessati svolgono “lo stesso lavoro”, costituendo tale circostanza solo un indizio tra gli altri del soddisfacimento del criterio più ampio di “lavoro di pari valore” .
Con la successiva Direttiva 2006/54/CE, rubricata “Sull’attuazione del principio delle pari opportunità e della parità di trattamento fra uomini e donne in materia di occupazione ed impiego”, destinata ai lavoratori subordinati e in parte agli autonomi , si consolida (e si semplifica) la legislazione sull’uguaglianza di genere , nella quale convivono sia le pari opportunità sia la parità di trattamento (anche retributivo) . La realizzazione della parità, secondo la legislazione eurounitaria, deve quindi estendersi oltre al semplice divieto di discriminazione, garantendo non solo pari opportunità fra lavoratori e lavoratrici, ma anche medesime condizioni di lavoro .
Per i fini che qui interessano, assume rilevanza la previsione contenuta nell’art. 10 secondo cui “gli Stati membri adottano le misure necessarie affinché le disposizioni dei regimi professionali di sicurezza sociale dei lavoratori autonomi, contrarie al principio della parità di trattamento siano rivedute al più tardi con effetto dal 1 gennaio 1993, o per gli Stati membri la cui adesione ha avuto luogo dopo tale data, dalla data in cui la Direttiva 86/378/CEE è divenuta applicabile nel loro territorio (…)”. Viene dunque affermato un “principio di pari protezione sociale”, per cui i lavoratori autonomi godono di pari trattamento nel quadro dei regimi professionali di sicurezza sociale, in particolare per quanto riguarda: a) il campo di applicazione e le condizioni di accesso ai predetti regimi; b) i contributi; c) il calcolo delle prestazioni, comprese le maggiorazioni; d) le condizioni relative alla durata e al mantenimento dei diritti pensionistici. Il differimento dell’attuazione “obbligatoria” del principio era consentito solo nei casi espressamente individuati dall’art. 11 (vale a dire per la fissazione del limite d'età, ai fini della concessione della pensione di vecchiaia e di collocamento a riposo e per le conseguenze che potevano derivare per le altre prestazioni; per le pensioni di reversibilità; e, infine, per i casi di fissazione di livelli differenti per i contributi a carico dei lavoratori). In effetti alla stregua di queste norme, inserite isolatamente nell’ambito di quelle dedicate al lavoro subordinato, è apprezzabile la ratio di garantire ai cittadini dell'UE, che prestano la loro attività come autonomi (e risiedono in uno Stato membro che non sia il loro Stato di origine), la valorizzazione della totalità o di una parte dei loro diritti previdenziali. Una parità di trattamento che dunque si applica incondizionatamente a qualsiasi lavoratore autonomo di un altro Stato membro che abbia soggiornato nello Stato di accoglienza per un certo periodo di tempo.
A questo, pur timido, interesse del legislatore eurounitario per la tutela dei diritti previdenziali dei lavoratori autonomi tout court, fa da contraltare il silenzio normativo nei confronti dei lavoratori professionisti intellettuali, ai quali non era riconducibile alcuna specifica disciplina sull’obbligo della parità di trattamento. Nemmeno quando verrà emanata la direttiva 2010/41/UE sull’“applicazione del principio di parità di trattamento fra uomini e donne che esercitano un’attività autonoma” – che abroga la precedente direttiva 86/613/CEE – i professionisti verranno attratti nell’ambito di applicazione soggettivo della fonte comunitaria. Il che aprirà (ed apre tuttora) lo spazio al possibile ricorso all’interpretazione analogica per fattispecie simili.
Sulla scorta delle precedenti normative comunitarie e dei principi trasfusi nello jus commune sull’uguaglianza tra uomo e donna, la direttiva 2010/41/UE del 7 luglio 2010 promuove in tutti i paesi unionali l’obbligo di adottare misure di azioni positive nella vita professionale per assicurare la completa parità di trattamento anche delle lavoratrici autonome (e per coloro che contribuiscono all’esercizio di un’attività autonoma) sia sul piano della parità di retribuzione e sia della tutela della funzione familiare e materna della donna nel mercato del lavoro nonché della migliore protezione in materia di sicurezza sociale. A tal proposito l’art. 4 sancisce che “il principio della parità di trattamento significa che non è fatta alcuna discriminazione fondata sul sesso nel settore pubblico o privato, né direttamente né indirettamente, ad esempio per quanto riguarda la creazione, la fornitura di attrezzature o l’ampliamento di un’impresa o l’avvio o l’ampliamento di ogni altra forma di attività autonoma (…)” .
Aggiungasi che la direttiva promuove iniziative per sviluppare idee imprenditoriali , ad esempio, nel settore agricolo valorizzando il ruolo della donna imprenditrice. Sono così introdotti appositi registri nonché è incoraggiata una rappresentanza femminile all’interno degli organismi agricoli (e viene a loro riconosciuta la comproprietà delle aziende agricole) al fine di combattere il fenomeno diffuso delle donne “lavoratrici invisibili” .
Circa le tutele della maternità per le lavoratrici autonome (o per le donne che partecipano all’attività lavorativa autonoma del coniuge o del convivente) è sancita un’indennità di maternità “sufficiente da consentire loro di interrompere l’attività lavorativa in ipotesi di gravidanza o di maternità per almeno quattordici settimane. Spetta in ogni caso ai singoli Stati decidere se l’indennità di maternità sia volontaria o obbligatoria (cfr. l’art. 8 ) .
Tuttavia, ad oggi, nonostante lo sforzo del legislatore eurounitario è assente una disciplina efficace in grado di colmare il divario di genere nella sfera del lavoro autonomo . A riprova, risiede la constatazione che anche il nostro ordinamento, nonostante la proroga concessa di due ulteriori anni dal Palamento europeo in caso di particolari difficoltà, non ha recepito né la direttiva 2010/41/UE (né quella precedente 86/613/CEE). Non trattandosi di una direttiva self – executing, non è comunque esclusa la responsabilità dello Stato membro per i danni da esso causati ai singoli a seguito della mancata o della non corretta attuazione della direttiva stessa .
3. La parità di trattamento retributivo e il diritto all’equo compenso del lavoro autonomo (e libero professionale): identità o diversità di ratio?
La messa a regime dei principi di parità di trattamento e di retribuzione, così come disciplinati dai pur scarni interventi eurounitari sul lavoro autonomo, non è in effetti agevole. Il tema del gender pay gap presenta profili di forte criticità, e rinvia ad una rete di plurime protezioni normative di complessa attuazione, specie nel settore della libera professione, dove spesso si tende giocoforza ad utilizzare per analogia la disciplina dettata per il lavoro autonomo ovvero, ove questa sia assente, i criteri assunti nell’ambito della subordinazione. La partecipazione dell’Italia all’Unione europea ha prodotto importanti effetti sull’ordinamento domestico, sui reciproci ruoli degli attori costituzionali, sul rapporto tra le fonti primarie di produzione del diritto. Ma il nostro Paese, più di altri e per troppo tempo, si è limitato a recepire le fonti comunitarie (e in alcuni casi, come si è rilevato, nemmeno si è adoperato a recepirle) senza promuovere una vera cultura antidiscriminatoria di genere. Le differenze resistono nel mondo del lavoro, a livello di retribuzione, di assistenza e di pensioni, nelle posizioni dirigenziali, nella partecipazione alla vita politica ed istituzionale, e per quanto attiene ai lavoratori autonomi e alle libere professioni le discriminazioni appaiono ancora più significative dato l’ampio spazio lasciato all’autonomia (contrattuale) individuale. Ad oggi, il superamento delle disparità di genere pare essere un obiettivo dell’attuale Esecutivo, ribadendolo nella bozza di Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) ai fini del rilancio dello sviluppo nazionale . In esso è però dato riscontrare l’assenza di una strategia di sviluppo per tale categoria di lavoratori autonomi e liberi professionisti: mancano politiche di sostegno alle aggregazioni per competere sul mercato, iniziative legislative volte ad incentivare l’equo compenso ed il welfare. Analogamente risultano assenti iniziative di sostegno alla dimensione imprenditoriale ed il coinvolgimento diretto sugli assi portanti del PNRR. Il punto centrale è come possa esservi una parità retributiva per i lavoratori autonomi e liberi professionisti se, da un lato, si rileva un interesse pressoché nullo sul tema e, dall’altro, mancano norme e specifici parametri (o fattori), che consentano di livellare le sperequazioni, compensare le disuguaglianze e dare attuazione al principio più generale di parità di trattamento. Tale considerazione converge sull’attuazione dei principi costituzionali e, in particolare, dell’osservanza dei precetti contenuti nell’art. 37 Cost.
Sebbene non si dubiti sull’uguaglianza dei sessi sul piano formale, è certo che sussistono ancora ostacoli per poter parlare di una effettiva uguaglianza sostanziale in ambito lavorativo. Le disuguaglianze economiche, sociali e politiche tra uomo e donna rendono l’attuazione del precetto contenuto nel comma 2 dell’art. 3 Cost. un obiettivo ancora distante dall’essere definitivamente raggiunto .
Lo stesso principio di parità di trattamento enunciato nell’art. 37 Cost. è dedicato alla sola donna lavoratrice subordinata, alla quale riconosce “(…) Gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. Le condizioni di lavoro devono consentire l’adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale ed adeguata protezione” . Una asimmetria di disciplina (fra le donne lavoratrici autonome e quelle subordinate) che trova avallo anche nella giurisprudenza costituzionale e di legittimità. Difatti, a fronte di un orientamento giurisprudenziale monolitico che esclude l’applicazione dell’art. 37 al lavoro autonomo, sono diverse le pronunce che tuttavia operano un costante, sia pure indiretto, collegamento alla prima parte della disposizione con specifico riferimento alla parità di lavoro e alla protezione in favore della madre e del bambino. Lo stesso Giudice delle Leggi, chiamato a decidere sulla legittimità costituzionale dell'art. 4 della legge 29 dicembre 1987, n. 546, nella parte in cui non prevede a favore delle lavoratrici autonome in stato di gravidanza il diritto all'indennità per astensione anticipata dal lavoro, è giunto alla conclusione che spetta alla “(…) discrezionalità del legislatore, con l'eventuale coinvolgimento degli organismi previdenziali e sindacali (…) modulare le normative alla differente situazione delle lavoratrici autonome rispetto a quelle dipendenti” .
Esclusa, quindi, l’estensione dell’art. 37 Cost. alle lavoratrici autonome, le disposizioni legislative a tutela della “parità di trattamento” di tale categoria necessitano ancora, di un lungo cammino. E ciò nonostante l’emanazione da parte del legislatore nazionale, in attuazione della Direttiva 2006/54/CE, del “Codice delle Pari Opportunità fra uomo e donna” di cui al D.lgs. n. 198/2006, poi modificato dal D.lgs. n. 5/2010, con il quale si è cercato di fornire delle misure e delle azioni positive volte a eliminare ogni discriminazione basata sul sesso, nel tentativo di voler garantire a tutte le donne (non solo alle lavoratrici e/o alle madri), una parità di trattamento e di opportunità in tutti i settori, compresi quelli della occupazione, del lavoro e della retribuzione.
Ai sensi degli artt. 27 e 28, D.Lgs. n. 198/2006, cosi come modificati dal D.lgs. n. 5/2010, “(…) è vietata qualsiasi discriminazione per quanto riguarda l’accesso al lavoro, in forma subordinata, autonoma o in qualsiasi altra forma, compresi i criteri di selezione e le condizioni di assunzione e qualunque sia il settore o il ramo di attività, a tutti i livelli della gerarchia professionale, anche per quanto riguarda la creazione, la fornitura di attrezzature o l’ampliamento di un’impresa o l’avvio o l’ampliamento di ogni altra forma di attività autonoma” (art. 27, comma 1)”; ed ancora: “(...)è vietata qualsiasi discriminazione, diretta ed indiretta, concernente un qualunque aspetto o condizione delle retribuzioni, per quanto riguarda uno stesso lavoro o un lavoro al quale è attribuito un valore uguale” (art. 28, comma 1); ed infine: “(…) i sistemi di classificazione professionale ai fini della determinazione delle retribuzioni debbono adottare criteri comuni per uomini e donne ed essere elaborati in modo da eliminare le discriminazioni” (art. 28, comma 2). Il Codice, pur promuovendo le pari opportunità, e pur occupandosi del lavoro della donna nell’imprenditoria (cfr. artt. 52 e 54), nulla dispone in ordine all’esercizio della libera professione. E ciò, nonostante l’entrata in vigore della legge n. 81/2017, recante “misure per la tutela del lavoro autonomo non imprenditoriale e misure volte a favorire l’articolazione flessibile nei tempi e nei luoghi del lavoro subordinato”, che ha rivendicato specifiche tutele e diritti a favore di tali lavoratori . Se è dunque relativamente recente l’interesse al riconoscimento di specifiche tutele a favore del lavoro autonomo non imprenditoriale, ancora oggi ci si interroga su quali siano i soggetti legittimati a fruirne. Si pensi alla diffusione di forme di lavoro atipico, parasubordinato o pienamente autonomo o ai recentissimi contratti dei “riders autonomi ”, di cui al Capo V bis del d.lgs. n. 81/2015 (introdotto dal D.L. n. 101/2019, convertito con la legge n. 128/2019).
Negli accordi fra privati non sussiste un obbligo generalizzato di parità di trattamento economico tale da precludere possibili differenziazioni tra le posizioni retributive, e non vi è per tutti coloro che esercitano un’attività autonoma ovvero imprenditoriale una normativa tale da imporre l’attribuzione di un identico trattamento economico a parità di attività e di professione . Vero è che l’introduzione dell’istituto dell’equo compenso per le prestazioni professionali rappresenti una soluzione, che si dirà, parziale alla promozione della parità di trattamento economico, anche tra generi, dei lavoratori autonomi e dei liberi professionisti attraverso la previsione di una specifica disciplina per la liquidazione dei compensi professionali.
Vale la pena rammentare che a partire dalla seconda metà degli anni Novanta, a causa delle frequenti modifiche normative e procedurali operate per il tramite di direttive recepite dal legislatore nazionale, il settore delle libere professioni entrò gradualmente in crisi. Alla base della delicata situazione, vi era il convincimento che l’obbligo di imporre una tariffa predeterminata non garantiva un servizio qualitativamente distinguibile da un altro e che all’opposto una pluralità di offerte, che garantisse l'effettiva possibilità di scelta degli utenti, potesse meglio favorire lo sviluppo delle professioni regolamentate.
La stessa Autorità Garante della concorrenza e del mercato affermava che un servizio qualitativamente professionale avrebbe dovuto essere assicurato intervenendo segnatamente sull’accesso alle professioni e sulla responsabilità professionale, anziché con il mantenimento del regime delle tariffe introdotte dagli Ordini professionali.
Tale fu la ragione per la quale il D.L. 4 luglio 2006, n. 223, convertito in legge del 4 agosto 2006, n. 248 (“il cd. decreto Bersani) ”, “liberalizzò i compensi professionali”, stabilì la contestuale abolizione del sistema delle tariffe minime , e scelse la strada, ai fini della determinazione del corrispettivo, dell’“accordo tra le parti” in un’ottica di liberalizzazione e valorizzazione della concorrenza. L’effetto del Decreto Bersani, sebbene ottenne il favor dei contraenti forti (primi fra tutti istituti di credito e assicurazioni), fu per prima cosa quello di favorire la disuguaglianza retributiva, specie a scapito delle donne che svolgevano la professione o l’attività in autonomia .
La legislazione successiva non fece che aumentare l’aleatorietà della determinazione del compenso professionale, istituzionalizzando la pattuizione per iscritto del conferimento del mandato e l’obbligo per gli avvocati di fornire a tutti i loro clienti un preventivo dettagliato per la prestazione richiesta, indipendentemente dalla richiesta del cliente . Al fine di porre rimedio a questa situazione di incertezza nella corresponsione degli onorari professionali, l’art. 19-quaterdecies della legge 4 dicembre 2017 n. 172 , introdusse l’art. 13 bis alla legge 31 dicembre 2012 n. 247 (c.d. Legge professionale), il quale istituì l’istituto “dell’equo compenso” per le prestazioni degli avvocati (poi esteso con la legge n. 172/2017 di conversione in legge, con modificazioni, del decreto legge n. 148/2017 a tutti i professionisti, lavoratori autonomi e a quelli iscritti ad ordini e collegi).
In particolare, il nuovo art. 13 bis, comma 1, recita che “(…) il compenso degli avvocati iscritti all’albo, nei rapporti professionali regolati da convenzioni aventi ad oggetto lo svolgimento, anche in forma associata o societaria, dell’attività di cui all’art. 2 commi 5 e 6 primo periodo, in favore di imprese bancarie e assicurative, nonché di imprese non rientranti nelle categorie delle microimprese o delle piccole o medie imprese, come definite nella Raccomandazione 2003/361CE della Commissione del 6 maggio 2003, è disciplinata dalle disposizioni del presente articolo, con riferimento ai casi in cui le convenzioni sono unilateralmente predisposte dalle predette imprese”. Al comma 2 si precisa che “(…) si considera equo il compenso determinato dalle convenzioni di cui al comma 1 quando risulta proporzionato alla quantità ed alla qualità del lavoro svolto, nonché al contenuto ed alle caratteristiche della prestazione legale, e conforme ai parametri previsti dal Regolamento di cui al decreto del ministro della giustizia, adottato ai sensi dell’art. 13, comma 6”.
Attualmente tale istituto – inizialmente previsto solo per l’avvocatura e poi esteso, come si è già riferito, oltre che a tutti i professionisti anche ad alcune specifiche categorie di lavoratori autonomi (con l’esclusione degli imprenditori e dei piccoli imprenditori di cui all’art. 2083 c.c.) – consente di individuare, sulla base di parametri prestabiliti, gli importi da applicare per la determinazione del compenso professionale garantito, considerando nullo qualsiasi patto che stabilisca un compenso “non equo” ossia inferiore ai minimi stabiliti dai suddetti parametri .
In particolare, per quanto attiene all’avvocatura, i parametri vigenti per individuare i criteri utili alla determinazione dei compensi sono contenuti nel D.M. n. 55/2014. Le novità principali, introdotte dal D.M. correttivo n. 37/2018, attengono al nodo della vincolatività o meno delle indicazioni contenute nei parametri stessi. Questi, infatti, non possono mai imporsi alla volontà delle parti, che resta la fonte principale del corretto equilibrio dei rapporti economici fra avvocato e cliente . Tuttavia, qualora ci si allontani da una volontà libera o effettiva si applicano i parametri ministeriali previsti dal D.M. 55/2014, in ossequio alla previsione contenuta nell’art. 13 bis della legge forense in materia di “equo compenso” e di essi il Giudice terrà conto nel rideterminare il corrispettivo. Ciò significa che l’avvocato (ovvero qualunque professionista o lavoratore autonomo di cui alla Legge n. 81/2017) potrà invocare il diritto all’equo compenso nei confronti dei contraenti c.d. forti, che abbiano abusato della loro posizione economicamente dominante, per imporre clausole vessatorie ovvero un compenso “non proporzionato alla quantità ed alla qualità del lavoro svolto, nonché al contenuto ed alle caratteristiche della prestazione”. L’indicazione di “una retribuzione proporzionata alla qualità ed alla quantità del suo lavoro” richiama la formula del testo dell’art. 36 Cost. e, in particolare, il principio di proporzionalità della retribuzione: al pari della subordinazione, il legislatore enuncia un criterio oggettivo di commisurazione del compenso. A bene guardare poi essa riecheggia quanto il d.lgs. n. 276/2003, di riforma del mercato del lavoro, aveva stabilito per i lavoratori a progetto (prima dell’abrogazione ad opera dell’art. 52, comma 1, d.lgs. n. 81/2015) nei cui confronti il compenso doveva essere “proporzionato alla quantità ed alla qualità del lavoro eseguito ed in ogni caso, non inferiore ai minimi salariali applicati nel settore medesimo alle mansioni equiparabili svolte dai lavoratori subordinati” .
In conclusione, quindi, i parametri ministeriali, unitamente al criterio di proporzionalità di cui sopra sia pure non nella sua tipica “accezione costituzionale” , costituiscono i criteri di riferimento per la determinazione della soglia equa del compenso al di sotto della quale non è possibile scendere nelle relazioni tra avvocato e cliente “forte” . Non vi è dubbio allora che le norme in materia di equo compenso segnino una svolta nell’approccio del legislatore ai temi del trattamento giuridico delle attività di lavoro autonomo e delle attività professionali, ponendosi in piena sintonia con il dettato costituzionale, ed in particolare con l’art. 35 Cost, che tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni, sia esso autonomo, dipendente o professionale .
Per quanto attiene alla professione forense, oltre alla posizione di garanzia del corrispettivo per l’attività svolta, non vi è dubbio che la previsione di tali minimi sia di non poco rilievo anche sul piano giudiziale, in quanto, come già segnalato, in ipotesi di liquidazione dei compensi ad opera del Giudice, quest’ultimo sarà tenuto ad effettuare la quantificazione delle spese di causa secondo i criteri propri fissati dal legislatore nel D.M. n. 55/2014, non potendo calcolarle al di sotto dei minimi legali .
Tuttavia, nonostante tale istituto sia stato visto come un passo significativo verso una parità anche di genere, ad oggi, non ha determinato gli effetti auspicati ed ha condotto spesso la giurisprudenza a pronunciarsi più volte a difesa del decoro professionale e contro lo svilimento economico delle prestazioni rese dai liberi professionisti .
A guardare oltre, l’equo compenso risolve solo in parte il problema della disuguaglianza di trattamento dei professionisti e dei lavoratori autonomi. Non solo, infatti, emerge che vige pur sempre l’autonomia contrattuale e la libertà negoziale delle parti (si pensi ad esempio tra avvocati e clienti “non convenzionali”), ma anche che tale istituto interviene solo su un aspetto del trattamento economico, ossia su quello che nella subordinazione si definisce “parità dei minimi”, che come è noto, è devoluto alla contrattazione collettiva . Indagando più approfonditamente si scorge che tale sistema non interviene sulla discriminazione dei compensi corrisposti ai lavoratori autonomi di sesso femminile e maschile “a parità di attività svolta”. In un eventuale giudizio, infatti, il giudice potrebbe operare solamente una valutazione giudiziale fondata sull’equità del compenso “in base alla qualità ed alla quantità della prestazione svolta”, ma non sarebbe in grado di esprimere valutazioni sul “discrimen” del differente corrispettivo.
4. Qualche suggerimento in una prospettiva de jure condendo
Alla luce delle considerazioni svolte, sarebbe quanto mai opportuno, richiamando così le recenti misure proposte di cui si è in precedenza riferito dalla Commissione Europea sulla trasparenza retributiva e sull’accesso alla giustizia in materia discriminatoria, porre in essere delle disposizioni normative a livello nazionale volte ad assicurare una parità retributiva ed allo stesso tempo garantire una trasparenza dei corrispettivi anche nel campo delle libere professioni e dei lavoratori autonomi. Come è emerso, infatti, il fenomeno del gender pay gap non è una questione principalmente circoscritta al lavoro subordinato, in quanto il divario retributivo delle lavoratrici e dei lavoratori autonomi non è affatto un dato trascurabile.
In primo luogo, trasporre in tempi non più differibili la direttiva 2010/41/UE sull’“applicazione del principio di parità di trattamento fra uomini e donne che esercitano un’attività autonoma”, che ha abrogato la precedente direttiva 86/613/CEE, peraltro anch’essa mai recepita nell’ordinamento nazionale.
Su questo atto comunitario, le Camere sono apparse estranee, o meglio disinteressate, al processo decisionale comunitario su un tema così rilevante.
In secondo luogo, un ulteriore contributo potrebbe derivare dalla modifica della norma in materia di trasparenza retributiva, prevista per il lavoro subordinato, e segnatamente dalla novella all’art. 46 del Codice delle Pari opportunità, che obbliga le aziende pubbliche e private (imprenditori e non imprenditori) con più di cento dipendenti di trasmettere con cadenza biennale un rapporto informativo sulla situazione del personale dipendente.
La ratio di tale norma è di fornire un set di informazioni rilevanti con specifico riferimento “(…) allo stato delle assunzioni, alla formazione, alla promozione professionale, ai livelli, ai passaggi di qualifica, di altri fenomeni di mobilità, all’intervento della Cassa Integrazione Guadagni, dei licenziamenti, dei prepensionamenti e pensionamenti, alla retribuzione effettivamente predisposta” . Ebbene, ben si potrebbe richiedere a siffatte aziende di rendere note anche le informazioni sui compensi corrisposti a lavoratori con i quali intrattengono rapporti di lavoro autonomo, parasubordinato o di consulenza professionale. Peraltro, trattandosi di imprese di medie e grandi dimensioni, esse si presentano anche come “contraenti forti”, alla stregua della disciplina dell’equo compenso: ragion per cui, la previsione dell’obbligo di fornire anche i dati degli “equi” compensi, eventualmente corrisposti, si presenterebbe più che opportuna contro le discriminazioni retributive, così da gettare luce su disuguaglianze e stereotipi di genere. Senza trascurare che i dati raccolti nel rapporto in oggetto potrebbero essere impiegati come argomenti di prova nel giudizio individuale. In specie, la conoscenza dei dati contenuti nel rapporto informativo, in un eventuale giudizio, avrebbe una significativa valenza probatoria per il lavoratore ed aprirebbe la strada a possibili pronunce giudiziali anche sull’eventuale “discrimen” del trattamento retributivo differenziato tra professionisti e tra lavoratori autonomi di sesso maschile e di sesso femminile.
In terzo luogo, è necessario incrementare tutte quelle misure volte a favorire la trasparenza nelle retribuzioni dei compensi e l’equilibrio di genere nelle libere professioni, sostenendo iniziative volte a favorire l’occupazione femminile, promuovendo gli organismi per la parità, introducendo misure di welfare per le lavoratrici autonome e le professioniste, incentivando la stipulazione di protocolli di intesa con l’Associazione Bancaria Italiana per consentire l’accesso al credito agevolato, offrire un sostegno speciale alle forme aggregative tra professionisti, ed altro ancora. Ad esempio, per quanto attiene al mondo dell’Avvocatura, è quanto mai necessario accompagnare e promuovere il raggiungimento della parità effettiva e rappresentativa tra gli organi istituzionali della Cassa Forense. A seguito della legge n. 247/2012, inoltre, sono stati istituiti i Comitati di Pari Opportunità presso gli Ordini Circondariali, ed è stato prescritto che i Consigli degli Ordini (ed il Consiglio Nazionale Forense) debbano essere costituiti nel rispetto dell’equilibrio di genere , ma ciononostante non è ancora possibile parlare di parità di genere nell’avvocatura, né tantomeno negli studi legali, salvo rare eccezioni. A tal proposito, rappresentano ancora un’apprezzabile eccezione quegli studi legali che hanno fatto del principio di parità di genere un punto di forza e che prevedono tutele specifiche per le loro avvocate professioniste attraverso la fissazione di orari flessibili, di erogazione delle indennità nei mesi di assenza per maternità, ecc.
Sicuramente un significativo passo per ridurre il discrimine di genere e tutelare i diritti della avvocata professionista è stato fatto attraverso la Legge di Bilancio 2018, su proposta del Consiglio Nazionale Forense e la promozione dei Comitati per le Pari Opportunità dei vari ordini forensi. A seguito di tale nuova disposizione, infatti, le avvocate in gravidanza o in maternità, o che si trovano in fase di adozione nazionale o internazionale, o che stanno intraprendendo il lungo percorso dell’affidamento, hanno finalmente il diritto di avvalersi del legittimo impedimento a presenziare alle udienze. Ne consegue che ogniqualvolta il difensore documenta il proprio stato di gravidanza, il Giudice, ai fini della fissazione del calendario del processo, ovvero della proroga dei termini in esso previsti, deve tener conto del periodo compreso fra i due mesi precedenti la data presunta del parto e i tre mesi successivi. Ciò vale sia in ambito civile che penale , purché “da esso non derivi grave pregiudizio alle parti nelle cause per le quali è richiesta un’urgente trattazione”.
Prima della normativa sopra esposta, infatti, le tutele erano limitate al congedo di maternità (tale indennità, erogata dalla Cassa Forense, è pari all’80% dei 5/12 del reddito professionale Irpef netto prodotto nel secondo anno anteriore al verificarsi del parto), all’esonero dagli obblighi formativi di cui all’art. 15 del Regolamento del CNF, ed erano stati siglati alcuni protocolli di intesa a tutela delle pari opportunità e della genitorialità nell’esercizio della professione forense. Tali protocolli, del resto, adottati da alcuni Ordini professionali con i rispettivi organi giudiziari territoriali, non avevano una portata vincolante e non costituivano una disciplina omogenea .
Un tale intervento normativo, di per sé finalizzato alla sola tutela della maternità, potrebbe avere una portata di gran lunga più ampia, andando ad incidere sull’applicabilità di una pluralità di diritti inviolabili, costituzionalmente garantiti. Viene in rilevanza, in primo luogo, il diritto alla difesa della parte coinvolta nel processo, tutelato dall’art. 24 Cost, la quale potrà continuare ad avvalersi dell’assistenza di un difensore che ha scelto liberamente e di cui ha fiducia. Tale garanzia, infatti, verrebbe meno qualora il processo dovesse comunque svolgersi o proseguire con un altro difensore. In secondo luogo, centrale è il ruolo del diritto alle pari opportunità, di cui l’art. 3 Cost ne è espressione più generale, in quanto la donna che esercita la professione forense potrà proporsi nei confronti dei suoi potenziali clienti sullo stesso piano di parità del suo collega uomo, senza aver timore di non poter seguire personalmente la difesa del suo cliente in ipotesi di gravidanza. Infine, ma non da ultimo, il diritto all’accesso al lavoro, sancito dall’art. 4 Cost., che la donna avvocata ha il diritto di tutelare e di non vedere compromesso. Come è stato evidenziato in un recente contributo , esiste una ulteriore disparità nell’ambito dei redditi prodotti dalle stesse avvocate, ove si procede ad operare una comparazione tra quelle con prole e quelle senza. Lo studio ha mostrato che la gravidanza, durante i primi anni di professione, determina un peggioramento nella capacità di acquisire ed aumentare il reddito, che si ripercuote sull’intera vita lavorativa .
Conclusivamente, a noi sembra, che il cammino verso una parità di genere e di trattamento sia senz’altro ancora molto lungo . Numerosi sono stati gli sforzi eurounitari che, mai come ora, spingono verso una uguaglianza di trattamento fra uomo e donna, ma molti ancora se ne devono fare per raggiungere una parità effettiva e per superare gli stereotipi che troppo spesso discriminano il lavoro femminile, specie sul piano retributivo. L’obiettivo non deve essere certo quello di avere generi uguali, quanto piuttosto di promuovere uguali opportunità, uguali valori ed uguali diritti. La scommessa delle pari opportunità e della parità di trattamento deve essere quella di conservare e rispettare le differenze, ridefinendo e bilanciando tutti quegli ambiti in cui ancora si registra una tanto forte, quanto ingiustificata, predominanza di genere a partire dal lavoro autonomo e professionale.