TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA
1. Le sentenze gemelle (diverse) del 2021
Recentemente, la Suprema Corte di Cassazione è stata chiamata a pronunciarsi in due controversie aventi entrambe a oggetto il licenziamento del lavoratore per sopravvenuta inidoneità fisica alla mansione (art. 3, L. n. 604/1966). In particolare, le decisioni vertono sugli oneri – addizionali rispetto a quelli ordinariamente richiesti nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo – di cui è gravato il datore di lavoro e, altresì, sui limiti che tali obblighi incontrano nell’ambito delle (ragionevoli e proporzionate) modifiche degli assetti organizzativi d’impresa, con specifico riferimento agli accomodamenti per i lavoratori disabili. I due giudizi, benché speculari, sono giunti a esiti diametralmente opposti.
Nella vicenda decisa da Cass. civ., 23 febbraio 2021, n. 4896, la lavoratrice proponeva ricorso al fine di ottenere la declaratoria di illegittimità del recesso per sopravvenuta infermità permanente e per conseguente incompatibilità con lo svolgimento delle mansioni contrattualmente convenute. Vittoriosa in primo grado, soccombeva dinanzi al gravame della società, poiché il giudice dell’appello riteneva che nell’organizzazione non residuassero ulteriori posizioni conciliabili con la sua (ridotta) capacità lavorativa e che non vi fossero provvedimenti praticabili – a prescindere dal relativo onere finanziario – tali da consentire il suo reinserimento, anche nel rispetto dell’inviolabilità in peius (art. 2103 c.c.) dei ruoli assegnati al restante personale in servizio.
Avverso tale decisione, la lavoratrice aveva adito la Cassazione, invocando i principi – adottati in sede comunitaria (Direttiva 2000/78/CE) e recepiti nell’ordinamento interno (D. Lgs. 216/2003) – che impongono al datore di adattare l’ambiente di lavoro in funzione delle esigenze del disabile, con l’annessa previsione di specifiche misure (“accomodamenti ragionevoli”) funzionali alla prosecuzione del rapporto. Tuttavia, assunto che la società «ha soddisfatto l’onere imposto dall’art. 5», L. n. 604/1966, dimostrando sia «la concreta inesistenza di accorgimenti idonei a rendere utilizzabili le prestazioni lavorative dell’inabile» sia «l’assoluta impossibilità di affidare allo stesso mansioni equivalenti e mansioni inferiori», la Suprema Corte respingeva il ricorso, confermando il licenziamento come legittimo (e giustificato).
Al contrario, si è conclusa con l’accoglimento delle ragioni del lavoratore la causa decisa da Cass. civ., 9 marzo 2021, n. 6497, in cui il ricorrente assumeva il difetto di giustificazione dell’atto risolutivo motivato dall’asserita inidoneità fisica alla mansione, derivante da condizione di handicap. Accolta in primo grado, l’impugnazione del licenziamento trovava conferma anche nella pronuncia della Corte di Appello, stante l’inadempimento «dell’obbligo della previa verifica, a carico del datore di lavoro, della possibilità di adattamenti organizzativi». Veniva dunque censurata la condotta datoriale per non aver debitamente valutato (anche attraverso un consulto con il medico competente) l’eventuale adibizione ad altre mansioni compatibili con le minorazioni del disabile e per non aver adeguatamente dimostrato che gli accomodamenti, necessari a una sua potenziale ricollocazione, comportassero oneri economici sproporzionati e, quindi, “irragionevoli”.
Contro la decisione della Corte distrettuale, il datore – società soccombente sosteneva di trovarsi «in condizione di pieno organico», argomentando come non vi fossero «posizioni scoperte in organigramma» cui adibire il lavoratore. Ciononostante, confermando le pronunce di entrambi i gradi di merito, la Suprema Corte annullava il licenziamento e – oltre a ribadirne l’insussistenza degli estremi per il g.m.o. – condannava la società alla reintegrazione del disabile e al pagamento di un risarcimento commisurato alle retribuzioni maturate durante il periodo di estromissione (limitate ex lege a 12 mensilità).
Le sentenze che si annotano appaiono meritevoli di commento, in quanto – sia pur in presenza di comuni presupposti – pervengono a conclusioni discordanti, alla stregua del differente peso attribuito alle verifiche (nonché alle eventuali modifiche organizzative) che il datore di lavoro avrebbe dovuto effettuare prima di (o anziché) intimare il licenziamento. Ciò testimonia l’incertezza interpretativa che si rinviene nella giurisprudenza in tema di accomodamenti ragionevoli per i lavoratori disabili. Si tenterà qui di fornire una proposta operativa del comportamento organizzativo dovuto dal datore, al fine di orientarne la condotta e, eventualmente, misurarne l’esatto adempimento nel caso concreto.
2. Potere organizzativo del datore e clausole generali: l’accomodamento “ragionevole”
Le sentenze in commento, congiuntamente esaminabili, offrono l’occasione per riflettere sui confini dell’insindacabilità delle scelte imprenditoriali (art. 30, L. n. 183/2010 ) e, in particolare, su come questi debbano essere riletti alla luce degli oneri richiesti nell’ipotesi di licenziamento dovuto alla sopravvenuta invalidità permanente del lavoratore . Il profilo più controverso delle vicende in esame, infatti, pare risiedere nella configurazione del dovere datoriale di vagliare la possibilità di adattamenti organizzativi che, in concreto, consentano la prosecuzione del rapporto in un quadro di sostenibilità economica e di utilità sociale.
Sul punto, giova rammentare come la politica antidiscriminatoria dell’Unione Europea ponga al centro dell’azione la «tutela dell’eguale dignità di tutti gli esseri umani» che si traduce operativamente nel dogma della «parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro» sancito dalla Dir. 2000/78/CE. L’intervento del legislatore comunitario mira espressamente a promuovere un modello di giustizia sociale, eretto sul divieto di discriminazioni – dirette ovvero indirette – fondate su (…) gli handicap e finalizzato alla rimozione delle barriere che ostacolano la piena inclusione (e realizzazione) dei disabili nel contesto di impiego .
La previsione di «soluzioni ragionevoli», individuata dall’art. 5 della medesima Direttiva allo scopo di rendere effettivo il rispetto della parità di trattamento, impone al datore di lavoro l’adozione di una serie di comportamenti attivi quali «misure efficaci e pratiche destinate a sistemare il luogo di lavoro in funzione dell’handicap» , al fine di modificare lo status quo in ordine alle «esigenze delle situazioni concrete» che caratterizzano la persona con minorazioni funzionali e l’ambiente in cui questa è inserita .
In linea con la sensibilità delineata a livello europeo, la Convenzione delle Nazioni Unite «sui diritti delle persone con disabilità» – adottata a New York il 13 dicembre 2006 , ratificata e resa esecutiva in Italia con la L. n. 18/2009 – ha esteso la portata dell’obbligo introdotto dalla Dir. 2000/78/CE, statuendo «accomodamenti ragionevoli» nelle organizzazioni aziendali (art. 5, c. 3), ossia «modifiche e adattamenti necessari ed appropriati» per garantire il «diritto al lavoro delle persone con disabilità, su base di uguaglianza con gli altri» (art. 27) .
Inoltre, coerentemente con tale previsione, l’ONU ha espressamente ricompreso nella nozione di discriminazione fondata sulla disabilità il «rifiuto di accomodamenti ragionevoli» da parte del datore , integrando così una prassi inclusiva a tutela di una categoria vulnerabile di prestatori che versa in una situazione di oggettiva e incolpevole difficoltà . Se l’obiettivo cardine del sistema risulta essere, dunque, l’effettiva promozione delle pari opportunità nei contesti di lavoro, le soluzioni rappresentate, nel linguaggio delle Nazioni Unite, dagli accomodamenti ragionevoli in favore dei disabili sono apparse il mezzo idoneo a perseguire tale finalità .
Nonostante i plurimi impulsi di matrice sovranazionale, solo a seguito della condanna inflitta all’Italia dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea (sentenza 4 luglio 2013, causa C-312/11 ) per insufficiente trasposizione dell’art. 5 della Dir. 2000/78/CE, è stato aggiunto all’art. 3, D. Lgs. 216/2003 il comma 3-bis , ove viene imposto ai datori pubblici e privati di «adottare accomodamenti ragionevoli (…) nei luoghi di lavoro» . Siffatta previsione pare collimare con il più generale dovere di sicurezza di cui all’art. 2087 c.c. – nonché, in senso lato, con l’art 28 D. Lgs. 81/2008 in materia di valutazione (e prevenzione) dei rischi sul lavoro – ampliando il novero delle misure, preventive e rimediali, atte a tutelare «l’integrità fisica e la personalità morale» di tutti i prestatori (disabili inclusi) e a garantire loro la conciliazione e la permanenza in un ambiente lavorativo confacente alle esigenze di ciascuno .
In tal guisa, si può constatare come il sistema italiano di integrazione lavorativa dei disabili, inizialmente fondato su mere agevolazioni e incentivi pubblici, si sia evoluto con l’imposizione di specifici obblighi cui adempiere in ogni fase del rapporto (da quella genetica e funzionale a quella estintiva, non essendo destinati solamente a prevenirne la risoluzione).
Ai fini della legittimità del recesso per g.m.o., nell’ipotesi di sopravvenuta infermità permanente, già le SS. UU. n. 7755/1998 avevano ritenuto sussistere in capo al datore l’onere della preventiva verifica della possibilità di reimpiego del lavoratore tramite l’adibizione a mansioni «equivalenti o, se ciò è impossibile, a mansioni inferiori» (c.d. obbligo di repêchage) , fermo tuttavia l’«assetto organizzativo insindacabilmente stabilito dall’imprenditore» . Sicché, secondo la Suprema Corte, prima di procedere al licenziamento, il datore doveva valutare tutte le opzioni percorribili per ricollocare il prestatore divenuto inidoneo, senza comunque potersi pretendere modifiche di scelte organizzative rientranti nella sua piena discrezionalità, nel rispetto di quanto previsto dall’art. 41 Cost. . Siffatta vincolatività diveniva tanto più incisiva, quanto più l’ineseguibilità della mansione derivava dalla citata interazione tra la menomazione psico-fisica duratura e le barriere presenti nell’ambiente di lavoro .
Allorché, però, la disabilità viene annoverata tra le caratteristiche personali protette dal D. Lgs. 216/2003, occorre riflettere su come gli accomodamenti ragionevoli ridimensionino il perimetro dei poteri datoriali e, più specificamente, su come questi limitino l’ampiezza del diritto a recedere dal contratto per ragioni legate alla disabilità del prestatore .
Nella stessa direzione delle SS. UU. si è mossa la (quasi) coeva L. n. 68/1999 sul «diritto al lavoro dei disabili», ove si stabilisce che l’infortunio e la malattia – quali cause di inabilità rispetto allo svolgimento dei compiti originariamente assegnati – «non costituiscono giustificato motivo di licenziamento», nel caso in cui il lavoratore possa essere adibito «a mansioni equivalenti ovvero, in mancanza, a mansioni inferiori» (art. 4, c. 4) . Si tratta di tutele settoriali che persistono anche nell’ipotesi di aggravamento delle condizioni di salute del prestatore, ovvero nei casi di sopravvenienza dell’inabilità durante il rapporto di lavoro .
In tal senso, la dequalificazione concordata (id est il patto di demansionamento) – quale unico mezzo per garantire al disabile la conservazione del posto di lavoro e la piena uguaglianza con gli altri lavoratori – appare coerente con la formulazione dell’art. 2103 c.c. novellata dal D. Lgs. n. 81/2015 ed è sorretta, oltre che dal consenso del prestatore, anche dall’interesse che questi possiede nell’essere ricollocato in una posizione lavorativa consona alle sue minorazioni . La più recente giurisprudenza di legittimità ha poi osservato come l’esistenza di una tale destinazione alternativa debba essere allegata e provata dal datore di lavoro .
Tuttavia, considerare l’assolvimento dell’obbligo di repêchage come il solo presupposto della legittimità del recesso appare non coerente con gli obiettivi delle disposizioni europee antidiscriminatorie già ricordate (Dir. 2000/78/CE) , dovendosi ritenere che l’assegnazione al lavoratore di mansioni compatibili con la sua residua capacità lavorativa non esaurisca gli obblighi del datore che intenda licenziarlo. Infatti, laddove il prestatore deduca e provi di trovarsi in condizione di disabilità come definita dal diritto dell’Unione Europea , il datore dovrà ricercare misure (ri)organizzative che consentano la prosecuzione del rapporto: solo qualora queste siano irragionevoli, potranno ritenersi non dovute, onerandosi il datore della prova della loro impraticabilità .
Del pari, a fronte di quanto stabilito dall’art. 3, c. 3-bis, D. Lgs. 216/2003, non potrà tantomeno dirsi (più) sostenibile la posizione assunta da SS. UU. n. 7755/1998 – e a lungo ribadita dai giudici di legittimità – circa l’insindacabilità delle scelte imprenditoriali. L’imposizione di variazioni all’assetto organizzativo unilateralmente stabilito dall’imprenditore, in funzione delle esigenze concrete della persona che lavora, determina il superamento del paradigma sancito dall’art. 30, L. n. 183/2010 , implicando una moltiplicazione dei comportamenti esigibili dal datore nella prospettiva della parità di trattamento a tutela dei lavoratori disabili .
Il riferimento agli accomodamenti ragionevoli delinea un obbligo di repêchage qualificato e rafforzato (affiancandosi e non sovrapponendosi all’onere di ricollocazione del prestatore in esubero ) che, invero, incide sul potere datoriale di recedere dal contratto in ragione del divieto di discriminazioni per handicap. Pertanto, al fine di scongiurare l’extrema ratio del licenziamento, il datore non dovrà solamente vagliare la disponibilità di mansioni equivalenti o inferiori rispetto a quelle originariamente attribuite al lavoratore, ma dovrà anche apportare una revisione agli assetti organizzativi d’impresa, di modo da rendere accessibile l’ambiente di lavoro alla persona con disabilità, realizzandone la piena inclusione , così da colmare il divario di tutela conseguente alla situazione di svantaggio in cui versa quest’ultima .
Se l’obbligo di adottare accomodamenti ragionevoli comprime, a monte, le scelte imprenditoriali e, in via mediata, il potere di recesso, occorre riflettere attorno ai parametri (e ai limiti) cui dovrà essere improntata la condotta del datore correttamente adempiente.
A tal proposito, si ravvisa come il dettato normativo – sia di origine sovranazionale (Dir. 2000/78/CE) che nazionale (D. Lgs. 216/2003) – subordini il diritto del disabile a pretendere siffatti adeguamenti strutturali alla sostenibilità economica del costo necessario per il loro apprestamento. La tensione è verso misure che non impongano al datore un «onere finanziario sproporzionato» rispetto alle dimensioni, alle risorse e allo “stato di salute” dell’impresa , stante le esigenze di continuità aziendale e del «mantenimento degli equilibri finanziari» .
Il fatto che la praticabilità della soluzione sia condizionata all’entità della spesa necessaria per introdurla si pone quale deroga al disposto di cui dell’art. 1467 c.c. in tema di eccessiva onerosità sopravvenuta , prefigurando altresì un’imprescindibile (e preventiva) valutazione di fattibilità della soluzione medesima . Dacché, se la sproporzionalità della misura rappresenta, per un verso, un’esimente per sottrarsi dall’obbligo di adottarla, per altro verso, ne individua anche l’area entro la quale questa si rende indispensabile.
Al limite espresso della “non sproporzione” si affianca poi quello – ulteriore, poiché dotato di autonoma valenza letterale – dell’aggettivo che qualifica l’accomodamento come “ragionevole”. Come sottolineato da Cass. civ. n. 6497/2021 in commento, non può escludersi che «anche in presenza di un costo sostenibile per l’impresa» vi possano essere «circostanze di fatto che rendano la soluzione priva di ragionevolezza» . Questo secondo parametro cui è vincolato l’agire datoriale si traduce nell’osservanza dei più ampi doveri di correttezza (art. 1175 c.c.) e buona fede (art. 1375 c.c.) che presidiano ogni rapporto sinallagmatico e che obbligano ciascun contraente a cooperare alla realizzazione dell'altrui interesse , in una prospettiva costituzionalmente orientata al dovere di solidarietà (art. 2 Cost.) .
La ragionevolezza, in questa ampia accezione, pone al centro dell’attività esegetica – cui è chiamato il giudice al fine di misurare il corretto adempimento dell’obbligo – un’equa e comparata valutazione delle esigenze delle parti coinvolte, al fine di un bilanciato contemperamento . In particolare, il giudizio sull’esistenza di un valido motivo oggettivo di licenziamento dovrà essere formulato soppesando, da un lato, l’interesse del prestatore (divenuto inidoneo allo svolgimento delle mansioni contrattuali) al mantenimento di un lavoro confacente al suo stato di salute e, dall’altro lato, l’interesse «apprezzabile» (art. 1464 c.c.) del datore a garantirsi di una prestazione lavorativa, anche parziale, che sia utile nell’economicità dell’impresa . Si tratta di posizioni soggettive difficilmente conciliabili fra loro, specie – come nei casi in commento – se la disabilità del prestatore è tale da impedirne il reinserimento nell’organizzazione, tenuto conto altresì che ogni modifica della stessa coinvolgerebbe gli altri lavoratori e che, pertanto, anche l’immutabilità in peius (art. 2103 c.c.) delle mansioni a questi ultimi assegnate dovrà essere ponderata all’interno della valutazione complessiva .
All’esito di questo apprezzamento sistematico, potrà dunque dirsi “ragionevole” qualsiasi provvedimento che consenta di preservare il posto di lavoro del disabile in un’attività che sia comunque proficua per l’impresa e che, al medesimo tempo, non imponga al datore – oltre che al personale eventualmente coinvolto – un sacrificio «eccedente i limiti della tollerabilità considerata accettabile secondo la comune valutazione sociale» .
L’interesse del datore appare, inoltre, adeguatamente tutelato dal richiamo alla “non sproporzione” dei costi, in quanto questi misurano la sostenibilità del sacrificio che una soluzione comporta all’interno di un’organizzazione legittimamente diretta alla realizzazione di profitti, quale è l’impresa. Sennonché tale nozione dinamica di accomodamento renda assai impegnativa l’opera dell’interprete chiamato a occuparsene , dal momento in cui non è dato rinvenire alcun riferimento operativo cui parametrare l’entità della misura che il datore è obbligato ad apportare alla propria organizzazione in favore del lavoratore disabile per evitare il licenziamento.
3. Una proposta per parametrare l’obbligo datoriale nel settore privato
La variabilità degli orientamenti giurisprudenziali in materia di accomodamenti ragionevoli (messa in evidenza anche dalle sentenze in commento) testimonia l’impossibilità di predeterminare in astratto l’esatto contenuto dell’obbligo di cui è gravato il datore di lavoro e di tipizzare il novero dei comportamenti prescrivibili per un suo corretto adempimento . L’accomodamento, infatti, non ammette generalizzazioni che esulino dalle circostanze del caso concreto, in quanto postula l’interazione (negativa) fra la persona con limitazioni funzionali e lo specifico contesto lavorativo nel quale questa è inserita.
In ragione di ciò, il Legislatore italiano ha consapevolmente recepito nell’art. 3, c. 3-bis, D. Lgs. 216/2003 una formula ampia, ma di difficile traduzione sul piano esecutivo, conferendo così al datore (ed eventualmente al giudice) l’arduo compito di individuare (e conformare al dettato normativo) la condotta da tenersi, bilanciando le posizioni soggettive di tutti gli attori coinvolti.
Sicché, l’indeterminatezza delle clausole generali di ragionevolezza e proporzionalità ha evocato la necessità di interventi legislativi esplicativi del significato da attribuirvi . Si ritiene però che una puntuale esegesi delle fonti possa essere sufficiente allo scopo, che consiste nell’adottare soluzioni realmente utili all’interessato e senza circoscrivere l’azione alla mera riparazione del danno in caso di discriminazione.
Acquisito che, in funzione delle esigenze del disabile, incomba sul datore l’obbligo di apportare accorgimenti “pratici” alla propria organizzazione, purché non comportanti un «onere finanziario sproporzionato», occorre interrogarsi sui criteri con cui valutare la sostenibilità economica – quale parametro della ragionevolezza – degli accomodamenti, nell’ottica di una loro (possibile) declinazione operativa.
A tal riguardo, la stessa Dir. 2000/78/CE stabilisce che una soluzione non possa essere definita «sproporzionata» se il sacrificio economico «è compensato in modo sufficiente da misure esistenti nel quadro della politica dello Stato membro a favore dei disabili» (art. 5), tenuto conto della «possibilità di ottenere fondi pubblici o altre sovvenzioni» (Considerando 21). Dunque, la sopportabilità economica degli accomodamenti ragionevoli deve essere valutata in relazione alla sussistenza di misure compensative statali , che sono parte integrante del quadro normativo di riferimento, in quanto contribuiscono a delineare un sistema che corresponsabilizza sia il datore sia lo Stato nella predisposizione di azioni idonee a tutelare la parità di trattamento nei luoghi di lavoro .
Oltre alle convenzioni previste ex artt. 12 e 14, L. n. 68/1999 per l’inclusione lavorativa dei disabili , un ruolo proattivo è stato svolto in materia dall’INAIL, cui il D. M. 8 maggio 2015, n. 87 ha riservato il posto di componente effettivo all’interno dell’Osservatorio nazionale sulla condizione delle persone con disabilità. Già l’art. 2, c. 166, L. n. 190/2014 attribuiva all’Istituto una serie di competenze specifiche per il reinserimento lavorativo dei portatori di handicap , statuendo che la retribuzione erogata dal datore al lavoratore destinatario di un progetto personalizzato mirato alla conservazione del posto venga «rimborsata dall’INAIL nella misura del 60 per cento di quanto effettivamente corrisposto (…) per un periodo non superiore a un anno» .
Al fine di supplire alla mancanza di una reale valorizzazione delle soluzioni di accomodamento, è stato poi previsto che il datore di lavoro – per ottemperare ai propri obblighi – possa attingere a misure di sostegno pubblico, attivabili presso lo stesso Ente assicurativo, per il rimborso delle spese sostenute . In particolare, le linee di intervento muovono lungo tre assi: i) il superamento e l’abbattimento delle barriere architettoniche presenti nell’ambiente lavorativo; ii) l’adattamento e l’adeguamento delle postazioni di lavoro; iii) la formazione e la riqualificazione professionale. Tali azioni faranno capo a un “Progetto di reinserimento lavorativo personalizzato” per il disabile, elaborato dalla équipe multidisciplinare della struttura INAIL preposta, con la collaborazione del datore e del lavoratore interessato .
Deve però ricordarsi che all’Istituto è demandato il compito di mero facilitatore del mantenimento del posto del disabile , rimanendo in capo al datore la scelta relativa a se, quando e quanto fruire di forme di finanziamento, dirette a compensare la spesa necessaria per l’accomodamento, che va a costituire un elemento da prendere in considerazione per parametrare la sostenibilità economica dello stesso.
Sicché, in sede processuale, si ritiene che le clausole generali di “ragionevolezza” e “proporzionalità” dovranno essere valutate in ragione delle misure compensative INAIL, a cui il datore potrà accedere per la predisposizione dell’adattamento organizzativo necessario a garantire la prosecuzione del rapporto: esse potranno essere considerate la misura dell’accomodamento ragionevole, con onere a carico del datore – che non voglia avvalersi dell’intervento pubblico – di dimostrare di aver comunque fatto tutto il possibile per adattare il posto e l’organizzazione al lavoratore, altrimenti inidoneo.
Al fianco dell’Istituto nazionale, soccorre anche il Responsabile dell’inserimento lavorativo (c.d. RIL o disability manager), che – in quanto dipendente dell’azienda ovvero quale consulente esterno – ha il compito di risolvere i «problemi legati alle condizioni di lavoro (…), in raccordo con l’INAIL per le persone con disabilità» (art. 1, lett. e), D. Lgs. n. 151/2015), tanto da non potersi escludere che questi proceda anche a individuare gli accomodamenti praticabili . Questa figura – mutuata da esempi di buone pratiche di diversity management ritraibili nella contrattazione aziendale – giocherà una partita fondamentale per promuovere l’effettivo rispetto della parità di trattamento nei luoghi di lavoro, raccogliendo le istanze dei prestatori affetti da disabilità e predisponendo progetti personalizzati in funzione delle rispettive esigenze . Tuttavia, nelle imprese private, il RIL è previsto su base volontaria, benché l’art. 14, c. 4, lett. b), L. n. 68/1999 disponga (ancora una volta) specifici contributi per facilitarne l’introduzione.
Benché le previsioni di cui al citato art. 2, c. 166, L. n. 190/2014 restino confinate al settore privato, la questione rimane aperta nel pubblico impiego, ove – nonostante la figura del disability manager sia normativamente prevista – risulta, da un lato, l’inapplicabilità delle misure compensative INAIL e, dall’altro, la necessità che l’accomodamento ragionevole si realizzi senza «nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica» (art. 3, c. 3-bis, D. Lgs. 216/2003). Questo, però, non vale a rendere la P. A. “speciale” nel senso di autorizzata a non adattarsi alle necessità del lavoratore con disabilità. Anzi, pare potersi affermare che per la P. A. l’onere sia ancor più impegnativo, essendo l’amministrazione obbligata alla concreta attuazione delle convenzioni internazionali, a cui lo Stato si è vincolato per garantire i diritti delle persone con disabilità anche in campo lavorativo . Pertanto, certamente anche nel lavoro pubblico si pone la questione dell’accomodamento ragionevole, da valutarsi nei rigorosi termini della accessibilità.
4. Considerazioni conclusive
Alla luce dei ragionamenti sin qui proposti, appare maggiormente aderente al sistema normativo che si è cercato di ricostruire il giudizio espresso da Cass. civ. n. 6497/2021, che ha censurato la condotta del datore – dichiarando illegittimo il licenziamento da questi intimato – per non aver evidenziato alcuna operazione strumentale che testimoniasse uno «sforzo diligente ed esigibile per trovare una soluzione organizzativa», capace di evitare la cessazione del rapporto. Inoltre, la Suprema Corte ha rilevato come nessuna dimostrazione sia stata fornita circa il fatto che l’accomodamento «avrebbe imposto un onere finanziario sproporzionato» per l’impresa, senza nemmeno prendere in considerazione le misure compensative istituite a tale fine.
Pare invece potersi reputare superato l’orientamento espresso da Cass. civ. n. 4896/2021, che – riportandosi a quanto statuito da SS. UU. n. 7755/1998 – ha giustificato il recesso esercitato dalla parte datoriale. È peraltro vero che il giudice di legittimità non ha potuto affrontare il tema dell’esistenza e ammontare di finanziamenti che potessero supportare l’impresa nell’apprestamento di misure organizzative appropriate alle esigenze delle situazioni concrete, trattandosi di un onere di allegazione (non soddisfatto) posto in capo al datore di lavoro.
Accanto alle riflessioni strettamente giuridiche ed economiche che la fattispecie analizzata solleva, va anche considerato che un effettivo cambiamento per l’inclusione delle persone disabili dipenderà dal (mutamento della) mentalità imprenditoriale rispetto alle frontiere del benessere della persona che lavora per una effettiva parità di trattamento.
Le analisi ISTAT sulle condizioni occupazionali dei disabili evidenziano chiaramente il forte svantaggio che subiscono nel mercato del lavoro: a oggi, è occupato solo il 31,3% delle persone con limitazioni gravi, a fronte del 57,8% di persone senza limitazioni .
A conferma di quanto lungo sia ancora il cammino per creare reali condizioni di accesso al lavoro per i disabili, la Commissione europea ha recentemente indicato «l’aumento dell’occupazione delle persone con disabilità anche attraverso soluzioni di accomodamento» tra le priorità delle politiche future per un tangibile riconoscimento dei diritti di uguaglianza, di dignità e (soprattutto) di inclusione socio-lavorativa .
Nella valutazione dei costi e dei benefici, sarà allora opportuno non sottovalutare come l’inserimento e, successivamente, la conservazione del posto del lavoratore disabile possano incidere su un miglioramento all’immagine dell’impresa, con un conseguente vantaggio reputazionale presso il personale, gli stakeholders e tutta la clientela . Questo perché l’integrazione socio-lavorativa dei disabili non è un “mondo a parte”, ma “parte del mondo”, e come tale necessita di essere garantita anche a costo di qualche (ragionevole e sopportabile) sacrificio per il miglioramento della qualità delle relazioni di lavoro e, più ampiamente, sociali.