Testo integrale con note e bibliografia
Il reddito dei lavoratori disabili tra subordinazione e autonomia
Nel promuovere un modello di giustizia sociale eretto sul divieto di discriminazioni – dirette ovvero indirette – fondate su (…) gli handicap, la Direttiva 2000/78/CE sulla «parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro» si rivolge indistintamente a qualsivoglia lavoratore (subordinato e non) affetto da disabilità. L’intervento del legislatore europeo ricerca la tutela dell’eguale dignità di tutti gli esseri umani , come fondamento per la realizzazione di «un mercato del lavoro aperto, che favorisca l’inclusione e l’accessibilità» alle persone con minorazioni , a prescindere dalla qualificazione giuridica del rapporto che lega contrattualmente queste ultime al proprio datore di lavoro o committente .
Pur aderendo alle finalità antidiscriminatorie delle disposizioni europee, la normativa settoriale presente nell’ordinamento interno – per il suo tenore terminologico – sembra concentrarsi prevalentemente sui lavoratori disabili ascritti all’alveo della subordinazione (ex art. 2094 c.c.). Ciò appare evidente nella L. n. 104/1992 (recante misure per «l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate»), nella L. n. 68/1999 (sul c.d. “collocamento mirato dei disabili”), nonché nel D. Lgs. n. 216/2003 (di attuazione della citata Dir. 2000/78/CE), la cui formulazione è palesemente costruita sulla disciplina tipica del diritto del lavoro , dimostrandosi poco sensibile rispetto alle differenze ontologiche sussistenti tra questa e il lavoro autonomo (ex art. 2222 e ss. c.c.).
Un’attenta disamina del dettato normativo mostra, invero, come il legislatore non escluda testualmente la possibilità che la persona con disabilità possa lavorare in autonomia; del pari, tale lettura ragionata porta anche a rinvenire specificamente la figura (e la protezione) del disabile – lavoratore non subordinato.
In primo luogo, l’art. 12 della L. n. 68/1999 individua – nell’ambito delle «convenzioni di inserimento lavorativo temporaneo con finalità formative» – i «disabili liberi professionisti» tra i potenziali «soggetti ospitanti» dei lavoratori con disabilità, da altri assunti e ivi collocati. In particolare, tale disposizione consente ai «datori di lavoro privati» la possibilità di stipulare apposite convenzioni a schema trilaterale , al fine di inserire – per un periodo massimo «di dodici mesi, prorogabili di ulteriori dodici mesi» [c. 2, lett. c)] – un lavoratore disabile da questi contestualmente assunto «a tempo indeterminato» [c. 2, lett. a)] presso cooperative sociali ovvero liberi professionisti, anch’essi disabili . Siffatto meccanismo di distacco richiede che lo stesso datore si impegni ad affidare al soggetto utilizzatore un flusso di commesse «per un importo non inferiore» agli oneri economici da quest’ultimo sostenuti .
Benché la previsione di cui all’art. 12, L. n. 68/1999 non abbia riscosso un particolare apprezzamento nella prassi operativa , il letterale riferimento ai «disabili liberi professionisti, anche (…) operanti con ditta individuale» testimonia come la disabilità non sia una caratteristica personale ostativa rispetto alla condizione di lavoratore autonomo.
Parimenti, giova rammentare come l’art. 3, D. Lgs. n. 216/2003 estenda il proprio ambito di applicazione («accesso all’occupazione e al lavoro» per i disabili) al lavoro «sia autonomo che dipendente» [c. 1, lett. a)], pur evocando nella sostanza – come meglio si dirà – paradigmi concettuali tipici della subordinazione, con conseguenti – ma solamente apparenti – margini di disparità nella tutela tra le due tipologie legali .
A tanto poi si aggiunga che l’art. 10, c. 1 e 3, L. n. 81/2017 – attribuendo ai centri per l’impiego un ruolo prioritario nelle politiche attive per i «lavoratori autonomi disabili» – dimostra, ancora una volta, come un’opera o un servizio possano essere eseguiti da una persona con disabilità, anche «senza vincolo di subordinazione nei confronti del committente».
Orbene, la compatibilità delle minorazioni con il lavoro autonomo (libero-professionale e non) e gli spazi di manovra comunque residuati nella summenzionata normativa (benché accennati o adombrati) richiamano l’esigenza di un’attenta esegesi delle fonti alla ricerca delle specifiche forme di protezione, da riservare ai lavoratori autonomi con disabilità.
2. L’evoluzione della nozione di disabilità e la rilevanza del contesto
Nell’ordinamento nazionale, l’accezione assegnata alla nozione di disabilità ha assunto sfumature diverse in funzione del contesto di riferimento in cui questa è stata utilizzata , pur sempre aderendo al c.d. “modello medico della disabilità” , che la interpretava quale sinonimo di menomazione . Per lungo tempo, infatti, le definizioni accolte dal corpus normativo hanno posto l’accento esclusivamente sugli elementi che condizionano in negativo la vita della persona (ossia le limitazioni psicofisiche e lo svantaggio sociale che ne deriva), senza prendere in considerazione il contesto nel quale questa è inserita .
Nel cercare di ovviare a tale criticità, la Convenzione delle Nazioni Unite «sui diritti delle persone con disabilità» – adottata a New York nel 2006, ratificata e resa esecutiva in Italia con la L. n. 18/2009 – ha determinato un radicale mutamento di paradigma nel diritto antidiscriminatorio europeo , con una traslazione del concetto di uguaglianza dal piano formale a quello sostanziale . Andando oltre le mere condizioni di salute della persona, l’ONU ha prodotto una definizione di disabilità in termini relativi, ossia rispetto all’«interazione» (negativa) tra le minorazioni di un individuo e le «barriere di diversa natura» che ne ostacolano «la piena ed effettiva partecipazione nella società su base di uguaglianza con gli altri» (art. 1, c. 2) .
Così facendo, le Nazioni Unite hanno abbracciato il dogma del c.d. “modello bio-psicosociale della disabilità” : abbandonata la prospettiva individuale, in cui la soluzione è la terapia medica (possibilmente) riabilitativa, si giunge a una lettura collettiva, secondo cui l’intervento a favore dei disabili risiede nell’azione e nell’integrazione sociale . Sicché, tale caratteristica personale non può più essere misurata a priori, ma solamente in funzione del rapporto che questa possiede con l’ambiente, all’interno del quale dovrà collocarsi, in modo armonico, la persona con minorazioni funzionali.
Dal momento che l’obiettivo è espressamente quello di «promuovere (…) la dignità» della persona (art. 1, c. 1, Conv. U. N. 2006), anche attraverso il lavoro, occorre riflettere in merito agli impedimenti (strutturali, funzionali e organizzativi) che ostano all’inclusione dei disabili nei contesti di impiego e che non consentono loro di onorare le pattuizioni contrattuali (di realizzazione della prestazione o dell’opera).
In tal senso, la Convenzione delle Nazioni Unite ha individuato nell’accessibilità – declinata prevalentemente in termini di edilizia e urbanistica – uno dei «principi generali» su cui fondare il processo di realizzazione delle pari opportunità [art. 3, lett. f)], «al fine di consentire alle persone con disabilità di vivere in maniera indipendente e di partecipare pienamente a tutti gli ambiti della vita» (art. 9). Di tal guisa, qualora l’accessibilità di un luogo fosse impedita o limitata al (lavoratore) disabile – anche a prescindere dalla specifica intenzione del soggetto agente di emarginarlo – si prefigura una condotta discriminatoria (indiretta) , che legittima altresì la vittima al ricorso alla «tutela giudiziaria» prevista dalla L. n. 67/2006 .
Dacché, l’esigenza di pianificare e realizzare beni, servizi e, più in generale, spazi – di modo da potervi accedere in autonomia e sicurezza – valorizza l’impatto del c.d. Universal Design , inteso quale sforzo sistematico e proattivo per prevenire (ed escludere) ogni forma di disparità di trattamento di segno deteriore che ponga la persona con handicap – all’interno di un determinato ambiente – in una situazione di svantaggio rispetto agli altri . A tal proposito, giova rammentare l’approvazione del recente European Accessibility Act (Dir. 2019/882/EU), emanato al fine di armonizzare le disposizioni dei Paesi membri dell’Unione sui «requisiti per l’accessibilità di prodotti e servizi» (con particolare riferimento al settore tecnologico, dei trasporti, dei servizi bancari, dell’editoria e del commercio elettronico).
L’attenzione riservata, a livello comunitario, ai temi dell’accessibilità e dell’Universal Design evidenzia, dunque, l’importanza cruciale che questi rivestono nelle politiche antidiscriminatorie a tutela dei disabili. In particolare, l’onere di assicurare a tutti i lavoratori (subordinati e non) la fruizione di luoghi di lavoro accessibili – sottolineato anche, sul fronte nazionale, da una fitta stratificazione di interventi normativi in materia – risponde al «dovere collettivo di rimuovere, preventivamente, ogni possibile ostacolo alla esplicazione dei diritti fondamentali delle persone affette da handicap fisici» .
Sul punto, duole però osservare come i «piani di azione per la promozione dei diritti e l'integrazione delle persone con disabilità», successivi all’entrata in vigore della L. n. 18/2009 , non abbiano (ancora) tenuto conto dei cambiamenti culturali prodottisi nel modo di concepire la vivibilità degli ambienti , integrando una cornice normative di idee e intenzioni inespresse . La scarsa realizzazione, sul piano fattuale, di queste tutele rende così inefficace, allo stato, il tentativo di includere i disabili nel mondo del lavoro e di garantire loro parità e pari opportunità.
3. Le tutele per il lavoratore disabile non subordinato
L’obbligo di attuare soluzioni ad personam, valutando «le esigenze delle situazioni concrete» (art. 5, Dir. 2000/78/CE) che caratterizzano il lavoratore con minorazioni funzionali e l’ambiente in cui questo è inserito, rappresenta la miglior forma di tutela riservata alle persone con disabilità. Si tratta di rendere effettivo il dovere – gravante sul datore – di assicurare il rispetto della parità di trattamento nei contesti di lavoro.
Tuttavia, siffatti adeguamenti strutturali e organizzativi non appaiono espressamente fruibili da parte dei lavoratori autonomi, evidenziando così (apparenti) margini di differenziazione nella tutela antidiscriminatoria tra i due tipi legali.
In particolare, l’art. 3, c. 3-bis, D. Lgs. n. 216/2003 dà attuazione all’art. 5 della Dir. 2000/78/CE ,affiancando (senza sovrapposizioni ) l’obbligo di repêchage «in mansioni equivalenti ovvero (…) inferiori» sancito dall’art. 4, c. 4, L. n. 68/1999 . Vi si prevede infatti che «i datori di lavoro pubblici e privati sono tenuti ad adottare accomodamenti ragionevoli (…) nei luoghi di lavoro».
In raccordo con l’art. 2 della Convenzione delle Nazioni Unite, il riferimento è alle «modifiche e gli adattamenti necessari ed appropriati (…), per garantire alle persone con disabilità il godimento e l’esercizio, su base di uguaglianza con gli altri, di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali». In concreto, dunque, l’accomodamento consiste nell’adozione di una serie di comportamenti che rappresentano «misure efficaci e pratiche destinate a sistemare il luogo di lavoro in funzione dell’handicap» . Questi devono essere idonei a modificare lo status quo in ordine alle necessità del disabile, anche qualora incidano sull’organizzazione dell’impresa .
Pertanto, nel caso di aggravamento delle condizioni di salute del lavoratore, il datore non dovrà solamente vagliare la disponibilità di mansioni equivalenti o inferiori compatibili con la sua residua capacità lavorativa, ma dovrà anche ricercare (e introdurre) soluzioni organizzative che rendano accessibile il luogo di lavoro alla persona con disabilità , così da colmare il divario di tutela conseguente alla situazione di oggettiva e incolpevole difficoltà in cui versa quest’ultima . Coerentemente con tale previsione, la Convenzione delle Nazioni Unite del 2006 ha altresì ricompreso nella nozione di «discriminazione fondata sulla disabilità» il «rifiuto di accomodamenti ragionevoli» da parte del datore (art. 2) , integrando una prassi inclusiva a tutela di una categoria vulnerabile di prestatori .
Inoltre, l’art. 3, c. 3-bis, D. Lgs. n. 216/2003 pare collimare con il più generale dovere di sicurezza di cui all’art. 2087 c.c. – nonché, in senso lato, con l’art. 28, D. Lgs. n. 81/2008 in materia di valutazione dei rischi sul lavoro – ampliando il novero delle misure, preventive e rimediali, atte a tutelare «l’integrità fisica e la personalità morale» di tutti i prestatori (disabili inclusi) e a garantire loro la permanenza in un ambiente lavorativo confacente alle esigenze di ciascuno .
Si ravvisa, però, come il dettato normativo – sia nella matrice sovranazionale (Dir. 2000/78/CE) che nella trasposizione nazionale (D. Lgs. n. 216/2003) – condizioni alla sostenibilità economica il diritto della persona con disabilità a pretendere tali adeguamenti, di cui si deve valutare il costo necessario per il loro apprestamento . La tensione è verso misure che non impongano al datore un «onere finanziario sproporzionato» rispetto alle dimensioni, alle risorse e allo “stato di salute” dell’impresa , stante le esigenze di continuità aziendale e del «mantenimento degli equilibri finanziari» .
In ragione di ciò, la ragionevolezza (e, quindi, la praticabilità) delle soluzioni attivabili sarà valutata in rapporto alle misure compensative predisposte a tal riguardo , fermi tuttavia: i) l’interesse «apprezzabile» (art. 1464 c.c.) del datore a garantirsi di una prestazione lavorativa, anche parziale, che sia utile nell’economicità dell’impresa e ii) il diritto del restante personale in servizio a non subire una modifica peggiorativa (art. 2103 c.c. ) delle proprie condizioni lavorative .
Tuttavia, data la collocazione sistematica del provvedimento in questione e vista la sua formulazione letterale, si nutrono seri dubbi circa l’applicabilità degli accomodamenti ragionevoli come oggi normativamente previsti al lavoro autonomo. Si tratta infatti di obblighi individuati per il datore di lavoro in senso stretto, che non sembrano ampliabili ai committenti. A conferma di ciò si può, ad esempio, rilevare come il c.d patto di agilità (l. n. 81/2017) – che la più attenta dottrina ha identificato quale misura atipica di accomodamento per le persone in condizione di fragilità durante l’emergenza pandemica in corso – definisca una «modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato» (art. 18, c. 1, L. n. 81/2017) di cui, pertanto, non possono beneficiare i lavoratori autonomi, in ragione della qualificazione del rapporto.
Altresì, si deve evidenziare come il meccanismo dell’accomodamento ragionevole richiami l’esigenza di adottare soluzioni ex post per l’abbattimento delle barriere (sociali, professionali, ma anche prosaicamente architettoniche ) che impediscono ai disabili la piena partecipazione alla vita sociale nonostante la rilevanza assegnata dall’ONU al tema dell’accessibilità (art. 9, Conv. U. N. 2006) evochi l’idea di una progettazione ex ante, allo scopo diper garantire alla persona che lavora la fruizione di un ambiente idoneo alle sue caratteristiche personali.
L’accessibilità è ritenuta una qualità essenziale degli edifici , che riguarda quindi tutti i luoghi di lavoro in cui «indipendentemente dalla tipologia contrattuale, (si) svolge un’attività lavorativa nell’ambito dell’organizzazione di un datore di lavoro pubblico e privato». [art. 2, c. 1, lett. a), D. Lgs. n. 81/2008]. In questi termini, allorquando un soggetto – a prescindere se datore di lavoro (art. 2094 c.c.) o committente (art. 2222 c.c.) – pretenda che un’attività lavorativa – prestazione o opera – sia resa in un determinato luogo, questi dovrà assicurarne il pieno accesso alle persone con disabilità, che siano state riconosciute idonee alla realizzazione della prestazione o dell’opera.
L’idoneità alla mansione è, dunque, relativa alla capacità della persona di compiere un lavoro (autonomo o subordinato), mentre sarà obbligo del datore, ovvero del committente, farsi carico dell’accessibilità del luogo di lavoro. Si ritiene, altresì, che il tema sia unificante delle categorie del lavoro pubblico e privato, non potendo alcun soggetto ritenersi esente dal principio generale, descritto dall’art. 9 della Convenzione poc’anzi cennata.
4. Considerazioni conclusive
Alla luce delle riflessioni sviluppate in tema di accessibilità dei luoghi per le persone con disabilità, si ritiene che l’eliminazione degli impedimenti architettonici rappresenti la pre-condizione per il godimento di diritti fondamentali, sicché omettere la rimozione degli ostacoli fisici costituisce il presupposto per una discriminazione indiretta.
In particolare, dalla lettura della Dir. 78/2000/CE e del D. Lgs. n. 216/2003 si può ricavare come sussista un obbligo di accomodamento ragionevole, inteso quale superamento delle barriere, in tutti i casi in cui il luogo di lavoro sia determinato da un soggetto che pretenda che la prestazione (in senso lato anche quale opera, servizio, professione) sia resa in un luogo determinato.
La questione pare travalicare i confini dell’autonomia e della subordinazione, richiamando l’esigenza di rendere accessibile – davvero erga omnes – l’ambiente di lavoro, per agevolare l’espletamento dell’attività produttiva. Chi voglia ricevere la prestazione, organizzandone le modalità di esecuzione, anche con riferimento alla dimensione spaziale, non potrà opporre l’impraticabilità dei luoghi alla persona con disabilità ma, anzi, sarà gravato del (ragionevole) adattamento.
La questione, come spesso accade, si sposta sul piano degli oneri e della loro sostenibilità, secondo due linee di sviluppo: per le attività rese nel settore privato, se ne valuterà l’impatto in termini di sopportabilità del sacrificio, ex art. 41 Cost.; nella P. A., invece, si ritiene che il vincolo a non introdurre «nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica» (art. 3, c. 3-bis, D. Lgs. n. 216/2003) soccomba rispetto al preminente diritto (e dovere) del disabile al lavoro. In virtù dell’avvenuta ratifica delle convenzioni internazionali a cui lo Stato si è assoggettato , i diritti delle persone con disabilità possono finalmente trovare attuazione anche nel pubblico impiego, con conseguenti vantaggi per l’intera collettività.