Testo integrale con note e bibliografia

1. Il caso
La Cassazione, con sentenza 14 settembre 2021, n. 24694, ha riformato la sentenza della Corte di Appello di Milano che, con una innovativa pronuncia direttamente applicativa di principi costituzionali, aveva riconosciuto il diritto del superstite di una coppia omosessuale alla reversibilità della pensione di vecchiaia anticipata corrisposta da Inarcassa. La coppia non aveva contratto l’unione civile, essendo la legge 20 maggio 2016, n. 76 entrata in vigore successivamente al decesso di una delle parti.
L’iter motivazionale della Suprema Corte parte dal dato normativo e, quindi, dall’esame della l. 3 gennaio 1981, n. 6, Norme in materia di previdenza per gli ingegneri e gli architetti e dei regolamenti adottati in seguito alla privatizzazione di Inarcassa (d.lgs. 30 giugno 1994, n. 509), in particolare l’art. 24 del Regolamento interno dell’ente. La Suprema Corte afferma, sulla scorta della citata normativa, che non può conseguire la pensione di reversibilità chi non ha mai rivestito detto status [di coniuge], neppure nella sua forma successivamente equiparata ai sensi e per gli effetti della L. n. 76 del 2016.
La normativa in materia di unioni civili, l. n. 76 del 2016, viene richiamata esclusivamente per dichiararne l’inapplicabilità al caso concreto ratione temporis, in ossequio al disposto dell’art. 11 disp. prel. c.c.
La motivazione analizza, poi, criticamente la sentenza di secondo grado rispetto alla quale rileva principalmente due errori di diritto: il primo è la violazione dell’art. 11 delle preleggi; il secondo è l’essersi sostituita alla Corte costituzionale.
Infine, con una breve e poco convincente valutazione, la Corte di Cassazione reputa non manifestamente fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, l. n. 76 del 2016, «nella parte in cui non prevede la possibilità di una sua applicabilità retroattiva – e, anzi, senza alcun limite temporale – a tutte le coppie conviventi in modo stabile».

2. La funzione della pensione di reversibilità
La Suprema Corte, richiamando la motivazione della Corte di Appello, avvia l’iter argomentativo affermando il rilievo costituzionale della pensione di reversibilità, come tutela previdenziale coperta dal disposto degli artt. 36, primo comma e 38, secondo comma cost., che prescrivono l’adeguatezza della pensione quale retribuzione differita e l’idoneità della stessa a garantire un’esistenza libera e dignitosa. Nella pensione di reversibilità erogata al coniuge superstite, la finalità previdenziale si raccorda a un peculiare fondamento solidaristico . La Corte costituzionale ha a, più riprese, affermato che la prestazione mira a tutelare la continuità del sostentamento ed a prevenire lo stato di bisogno che può derivare dalla morte del coniuge .
I dati OCSE fotografano, tuttavia, una “anomalia” italiana in materia di pensione di reversibilità: Italia e Grecia sono gli unici paesi con spesa per superstiti superiore al 2,4% del PIL, contro una media dell’1%. Numerosi sono stati i tentativi di revisione “a ribasso” dell’istituto e le proposte di modifica fino ad ora mai approvate. Anche la citata sentenza della Corte Costituzionale, n. 174 del 2016, è intervenuta su una norma che mirava a ridurre gli importi spettati al coniuge ove avesse stipulato matrimonio con un ultrasettantenne o in caso di matrimonio di breve durata .
Uno stereotipo guida il legislatore e, probabilmente, anche l’estensore della sentenza della Corte di cassazione in commento. La pensione di reversibilità è destinata alle donne e si giustifica in ragione del noto squilibrio tra uomo e donna nei ruoli di cura . La reversibilità, insomma, non è che il rovescio dello squilibrio di ruoli e potere (economico, anzitutto) delle coppie etero-sessuali che normalmente sono unite in matrimonio. Di fatto, ancora oggi le pensioni di reversibilità riducono il divario pensionistico di genere .
È interessante considerare che la pensione di reversibilità spetta anche al coniuge separato con addebito . La Corte chiarisce, muovendo dalla pronuncia di illegittimità costituzionale della norma che escludeva il trattamento previdenziale in caso di separazione con colpa o addebito, che «la ratio della tutela previdenziale è rappresentata dall’intento di porre il coniuge superstite al riparo dall’eventualità dello stato di bisogno, senza che tale stato di bisogno divenga (anche per il coniuge separato per colpa o con addebito) concreto presupposto e condizione della tutela medesima».
È, pertanto, evidente che la Corte “adotti” non solo una lettura originalista dell’art. 29 cost. ma anche una visione stereotipata dei rapporti coniugali, eterosessuali e squilibrati, e non coniugali affermando – apoditticamente – che in mancanza di matrimonio non sussistano quei diritti e doveri reciproci, sia personali che patrimoniali. La Cassazione dimentica il principio solidaristico che, al contrario, avrebbe potuto e dovuto valorizzare. La giurisprudenza è, peraltro, intervenuta per estendere il novero dei soggetti beneficiari, pur ancorando il diritto al requisito della “vivenza a carico”, affermando, peraltro, che «l’ambito di famiglia presa in considerazione dal regime generale della previdenza sociale tende ad essere più ampio rispetto a quello che fa esclusivo riferimento al matrimonio ed alla filiazione».

3. L’errato giudizio di comparazione
I passaggi meno convincenti della pronuncia che si commenta sono quelli relativi alla manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale. A fronte di una denunciata discriminazione, è necessario individuare il tertium comparationis e dimostrare il nesso di causalità tra il trattamento deteriore e la ragione del discrimen. Nel caso di specie la Suprema Corte pone sullo stesso piano situazioni assolutamente non sovrapponibili: le coppie omosessuali che non hanno potuto (mancando la normativa) unirsi civilmente e le coppie eterosessuali conviventi more uxorio. Sfugge come sia possibile ritenere equiparabile la situazione di chi conviva perché ha liberamente scelto di non sposarsi e chi abbia come unica possibilità legale quella di convivere. Afferma la Corte che «la mancata inclusione del convivente fra i soggetti beneficiari del trattamento di reversibilità rinviene allora una sua non irragionevole giustificazione nella circostanza che tale pensione si ricollega geneticamente ad un preesistente rapporto giuridico che qui per definizione manca». È proprio il riferimento alla convivenza more uxorio “fondata esclusivamente sulla affectio quotidiana – liberamente e in ogni istante revocabile” a mostrare l’ingiustizia della situazione della coppia omosessuale e, in particolare, del superstite della coppia che ha azionato il giudizio. Il superstite, infatti, allegava al ricorso l’unica “formalizzazione” possibile della sua unione ossia l’iscrizione nelle liste istituite dal Comune di Milano.
Sul punto la Suprema Corte, anziché valorizzare come avrebbe dovuto tale elemento, si è limitata ad affermare che «in nessun caso un atto amministrativo potrebbe surrettiziamente imporre alla ricorrente Inarcassa trattamenti pensionistici coperti da riserva relativa di legge ex art. 23 Cost.».
La Corte qui omette di ricordare che nel caso Oliari c. Italia tra i numerosi argomenti di merito portati a propria difesa dal governo italiano vi fossero proprio i registri delle unioni civili, istituiti presso molti comuni, come esempio di forme specifiche e concrete di tutela giuridica delle coppie omosessuali (§ 130) .
La Corte di Cassazione, poi, non tiene conto di quanto correttamente affermato dal giudice dell’appello sulla inconferenza delle pronunce della Cassazione che hanno negato la reversibilità ai superstiti alle coppie eterosessuali conviventi .
Avrebbe al contrario dovuto interrogarsi su quale sia la “famiglia” e quale il rapporto di “coniugio” oggetto della specifica tutela previdenziale.
Com’è noto, esiste una nozione costituzionale di famiglia intesa come «società naturale fondata sul matrimonio» (art. 29 cost.). Tuttavia, essa deve ritenersi insoddisfacente, se non adeguatamente coordinata alla nozione sociale di famiglia, che deve ricomprendere anche altre ipotesi di relazioni fondate sul legame tra coppie . Il matrimonio, infatti, altro non è che la manifestazione esteriore del vincolo affettivo, tendenzialmente stabile ed esclusivo, tra due soggetti, rilevante giuridicamente dal punto di vista degli obblighi materiali e morali che da esso sorgono.
L’esigenza sottesa al diritto di famiglia è quella di dare tutela ai soggetti che, alla luce di legami affettivi, costruiscono relazioni economiche e sociali stabili , nonché di garantire la pubblicità di tali legami, che rendono i singoli uniti in relazioni “familiari” una societas.
Letture pubblicistiche/istituzionali o patrimoniali della famiglia dovrebbero reputarsi superate a seguito della «depatrimonializzazione» del diritto civile e, in particolare, del diritto di famiglia. L’art. 29 cost. va, infatti, interpretato in combinato disposto con l’art. 2, dando alla locuzione «società naturale» il senso di «formazione sociale», strumento per lo sviluppo delle persone che compongono la stessa .
La Corte costituzionale ha, peraltro, riconosciuto la possibilità del legislatore ordinario di disciplinare le unioni omosessuali senza modificare l’art. 29 cost. , dato che, sebbene il concetto di matrimonio sia stato costituzionalizzato dall’art. 29 nel significato codicistico, i concetti di “famiglia” e di “matrimonio” non possono ritenersi «cristallizzati con riferimento all’epoca in cui la Costituzione entrò in vigore, perché sono dotati della duttilità propria dei princípi costituzionali e, quindi, vanno interpretati tenendo conto non soltanto delle trasformazioni dell’ordinamento, ma anche dell’evoluzione della società e dei costumi», purché non si incida «sul nucleo della norma, modificandola in modo tale da includere in essa fenomeni e problematiche non considerati in alcun modo quando fu emanata» .
La quaestio iuris diventa, quindi, quale sia il nucleo della norma, che sembra consistere nella stabilità e tendenziale durata del vincolo, che i coniugi scelgono di instaurare tra di loro, pubblicamente, accettando le conseguenze stabilite dalla legge, ossia il sorgere di diritti e obblighi sottratti alla propria libera determinazione e improntati alla uguaglianza morale e giuridica . Cosí individuato, tale nucleo non è, in alcun modo, inciso dall’estensione dell’istituto alle coppie omosessuali .

4. Quali tutele?
La Suprema Corte avrebbe potuto (e dovuto) applicare una interpretazione costituzionalmente orientata delle norme sulla pensione ai superstiti oppure avrebbe dovuto rimettere la questione alla Corte costituzionale per violazione degli artt. 2, 3, 36 e 38 cost. Nessuna delle due opzioni è considerata percorribile ma la motivazione è sul punto talmente minima da potersi considerare omessa.
Oltre quanto già esposto, si consideri un particolare profilo di lesione dell’art. 36 cost: il trattamento di reversibilità, infatti, è legato allo svolgimento di un’attività lavorativa, per la quale il lavoratore versa specifici contributi a copertura del trattamento . Tuttavia, fino al maggio 2016, rectius fino ai tardivi decreti transitori di attuazione, solo il lavoratore eterosessuale avrebbe lavorato per garantire a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa, sia con la retribuzione percepita in vita che con il trattamento pensionistico, mentre il lavoratore omosessuale avrebbe lavorato esclusivamente per sé, venendo meno al diritto-dovere di sostenere i propri familiari e di destinare le proprie energie lavorative anche alla loro tutela.
L’esclusione del partner omosessuale si palesa ancor più odiosa se si considera che non vi è alcuna forma di tutela, neppure nelle ipotesi di “vivenza a carico” che è requisito proprio degli altri familiari, anche piuttosto “lontani” dal lavoratore. Viene così negata, in nuce, ogni rilevanza al rapporto di reciproca assistenza insito in una relazione d’amore, etero o omosessuale che sia.
Il diritto antidiscriminatorio e la giurisprudenza europea potrebbero essere d’ausilio al giudice, anche costituzionale, al fine di reputare la attuale disciplina lesiva non solo delle norme sopra richiamate bensì anche del diritto europeo e, in particolare, della nozione di famiglia e vita familiare che da esso si ricava.
La pronuncia avrebbe dovuto, inoltre, valorizzare quanto disposto dalla dir. 2000/78/UE del 27 novembre 2000 (attuata dal d.lgs. 9 luglio 2003, n. 216) che, come chiarito dal considerando n. 13, disciplina i regimi di sicurezza sociale e di protezione sociale le cui prestazioni sono assimilate ad una retribuzione. Si tratta di una definizione applicabile alla pensione di reversibilità, sorgendo la stessa sulla scorta di un precedente rapporto di lavoro, dipendente od autonomo. L’obiettivo della direttiva è stabilire un quadro generale per la lotta alle discriminazioni fondate sulla religione o le convinzioni personali, gli handicap, l’età o le tendenze sessuali, riguardo all’occupazione e alle condizioni di lavoro. Va, pertanto, chiarito se la disciplina dettata dal legislatore nazionale, di cui il reg. Inarcassa è meramente attuativo, sia discriminatoria, considerando il fattore di discriminazione “orientamento sessuale”.
Come chiarito dalla Corte di Giustizia, se è vero che lo stato civile e le prestazioni che ne derivano costituiscono materie che rientrano nella competenza degli Stati membri (come previsto anche dall’art. 3, comma 2, lett. d) d.lgs. n. 216 del 2003), questi devono, comunque, rispettare il diritto comunitario, in particolare le disposizioni relative al principio di non discriminazione . È stata, pertanto, ritenuta in contrasto con il combinato disposto degli artt. 1 e 2 della dir. 2000/78/UE la normativa tedesca che escludeva la prestazione ai superstiti in favore del partner di una unione solidale, essendo questi in una posizione analoga a quella dei coniugi. Nella medesima pronuncia la Corte, nei §77-79, reputa provato il possibile pregiudizio per l’equilibrio finanziario e, pertanto, non limita nel tempo la possibilità degli interessati di avvalersi dell’interpretazione fornita dalla Corte in via pregiudiziale.
Potrebbe eccepirsi che i principi enunciati non siano applicabili tout court al caso in esame, mancando fino al 2016 una norma nazionale che preveda una qualsiasi formalizzazione del vincolo tra persone dello stesso sesso, sebbene la nozione di famiglia di cui al diritto previdenziale, pacificamente più ampia di quella civilistica , interpretata anche alla luce delle nozioni di famiglia e vita familiare di fonte europea , potrebbe indurre ad un’applicazione costituzionalmente orientata della normativa rispettosa anche del diritto europeo.
Ad essere discriminatoria, invero, è la stessa impossibilità di sposarsi o contrarre un’unione legalmente riconosciuta, essendo perfettamente analoghe le situazioni del partner omosessuale a quella del coniuge in presenza di idonee prove in ordine alla stabilità (intesa come volontà di costituire una unione stabile, essendo il matrimonio dissolubile anche dopo pochissimo tempo) e assunzione di obblighi e diritti reciproci.
È surreale, poi, che si chiede al ricorrente il possesso di un requisito che non ha potuto acquisire per un ritardo pacificamente addebitabile allo Stato stesso. Le stanze in cui questa sentenza è stata redatta potrebbero ben collocarsi nella contea del castello di Kafka .
Non si dubita che sia possibile ricorrere alla Corte Europea dei diritti dell’uomo per ottenere la condanna dello Stato italiano, analogamente a quanto già avvenuto, nel caso Oliari e Orlandi , avendo indubbiamente il governo italiano «ecceduto il suo margine di apprezzamento», mancando di «adempiere la sua obbligazione positiva di assicurare […] uno specifico quadro legale che prevedesse il riconoscimento e la tutela delle loro unioni omosessuali». Resta, ormai retoricamente, da chiedersi se, ancora, sia possibile affermare che la mancata estensione del matrimonio alle coppie omosessuali non leda la dignità umana e l’eguaglianza .

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