testo integrale con note e bibliografia
1. Premessa: l’ambito di indagine
Questo scritto aspira ad approfondire il sistema delle fonti di disciplina del lavoro pubblico contrattualizzato alla luce dei principi dettati dalla Costituzione e con specifica attenzione al riparto tra potestà legislativa statale e regionale sulla scorta dei pronunciamenti della giurisprudenza costituzionale. A tal fine il saggio sarà articolato in tre parti.
Una prima sarà dedicata alla ricostruzione dell’attuale “perimetro costituzionale”, espressione che, ad avviso di chi scrive, ben esprime quell’insieme di disposizioni della Carta costituzionale di diretta attinenza con l’impiego pubblico. In questa prima parte sarà riportato nei suoi snodi fondamentali anche l’iter che, sulla scorta di una rilettura dei principi costituzionali, ha portato al superamento dello statuto integralmente pubblicistico dei pubblici dipendenti.
Una seconda sarà focalizzata sull’analisi delle fonti di disciplina del rapporto di lavoro dei dipendenti contrattualizzati e, richiamate sinteticamente le motivazioni per cui il contratto individuale quale fonte costitutiva del rapporto di lavoro e il principio di distinzione funzionale tra politica ed amministrazione siano da considerare i pilastri della privatizzazione, si porranno in luce le ragioni della specialità della normativa del lavoro pubblico contrattualizzato, estesa anche alle regole concernenti la contrattazione collettiva.
Una terza parte avrà ad oggetto la ricostruzione della demarcazione tra potestà legislativa statale e regionale per la regolamentazione del rapporto di lavoro dei dipendenti delle amministrazioni non centrali, segnatamente regioni, enti territoriali e enti operanti in sanità, con una prospettiva di analisi non limitata al solo riparto per materia definito dal Titolo V della Costituzione, ma estesa a tutte le previsioni considerate dalla Corte costituzionale per l’enucleazione di principi volti a delimitare gli ambiti di competenza normativa.
2. L’impiego pubblico nel perimetro costituzionale: sguardo d’insieme e evoluzione dell’interpretazione dei principi costituzionali nella prospettiva della privatizzazione del rapporto di lavoro
L’impiego pubblico non è mai espressamente menzionato nell’ambito di una Costituzione che dedica al lavoro molteplici ed importanti disposizioni (in particolare artt. 1, 3, 4, 35-40, 46) . Nondimeno assumono rilievo alcune importanti, ma frammentarie, disposizioni, ricomprese anche in ambiti diversi da quello espressamente dedicato alla “Pubblica amministrazione” (Sezione II, titolo III) . Così la regola dettata dal secondo comma dell’art. 97 secondo cui l’agire amministrativo deve essere ispirato ai principi di “buon andamento” e di “imparzialità”, principio costituzionale di valenza generale volto al necessario perseguimento dell’interesse pubblico, con riguardo all’impiego pubblico è sempre stato letto congiuntamente con altre tre disposizioni della Carta costituzionale, gli articoli 28, 54 e 98, riferiti rispettivamente alla responsabilità diretta dei funzionari pubblici, al dovere dei cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche di adempierle con fedeltà ed onore, all’essere i pubblici impiegati al servizio esclusivo della Nazione. Parimenti il principio dettato dall’ultimo comma dell’art. 97 dell’accesso all’impiego pubblico per concorso, da considerare a propria volta congiuntamente con l’art. 51 che garantisce a tutti i cittadini “dell’uno o dell’altro sesso” la possibilità di “accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge” sono anch’essi strettamente connessi ai principi che regolano l’agire dell’amministrazione. L’impiegato pubblico, “dimenticato” nella sua qualità di lavoratore è stato “regolato solo dalle disposizioni costituzionali sui rapporti politici e sull’organizzazione amministrativa, in ragione delle funzioni pubbliche che esercita e per affermarne la relazione di immedesimazione con lo Stato” . Dal che, nella prima fase repubblicana, si è ritenuto di desumere l’accoglimento da parte della Costituzione di un regime di netta separazione fra impiego pubblico e lavoro privato, che avrebbe confermato la specialità del pubblico impiego rinveniente le proprie radici nello Statuto degli impiegati civili dello Stato del 1908 ed in seguito consolidata dalla giurisprudenza amministrativa pronta a ricavare dalla norma sulla giurisdizione la norma sostanziale, qualificando gli atti della amministrazione come provvedimenti amministrativi autoritativi facendo leva soprattutto sul principio di legalità . Si consolidò, dunque, un sistema che conosceva il primato indiscusso delle fonti unilaterali (legge e regolamento) nella regolamentazione del rapporto di impiego: un modello c.d. di supremazia speciale in cui il rapporto di lavoro dei pubblici dipendenti era considerato parte integrante dell’organizzazione della pubblica amministrazione in quanto strumentale alla realizzazione dei fini pubblici della stessa organizzazione e come tale assoggettato al diritto pubblico al pari di essa . In questo senso erano esplicite le previsioni del d.p.r. 10 gennaio 1957, n. 3, c.d. Statuto degli impiegati civili dello Stato; un testo che aveva rafforzato le garanzie dei pubblici dipendenti nell’ambito di uno statuto rigorosamente pubblicistico ancorato alla qualificazione del dipendente quale elemento dell’organizzazione e che, pur non essendo direttamente applicabile, secondo il costante orientamento del Consiglio di Stato, ai rapporti di impiego pubblico con enti diversi dallo Stato, di fatto costituiva la legislazione assunta a modello da tutti gli enti pubblici.
Nel contesto rigorosamente pubblicistico così delineato non mancava, tuttavia, chi sottolineava l’esigenza di una lettura e di una considerazione delle norme costituzionali “classicamente” riferite al pubblico impiego in connessione con i principi fondamentali affermati nei primi dodici articoli della Carta costituzionale, specialmente con quelli in tema di pluralismo e di decentramento . Si iniziava, così, timidamente a sostenere che la mancata specifica menzione del lavoratore pubblico dovesse essere interpretata quale conseguenza dell’essere il pubblico impiegato implicitamente ricompreso nella nozione di lavoratore accolto dalla Carta costituzionale, con conseguente applicazione di tutte le norme costituzionali sul lavoro.
L’effetto di tali aperture fu l’emanazione della legge quadro n. 93 del 1983, con cui si dava accesso nel settore pubblico al “metodo della contrattazione collettiva” ; una legge che faceva seguito al D.p.r. 30 giugno 1972, n. 748 di disciplina della dirigenza statale, ove si affermava il principio di distinzione tra compiti degli organi politici e vertice burocratico, e al Rapporto Giannini del novembre 1979 che nel paragrafo dedicato al “Personale” per la prima volta esplicitava la possibile estensione delle regole privatistiche al rapporto di lavoro dei pubblici dipendenti qualora la loro attività non fosse diretta espressione di pubbliche funzioni. A seguito della legge quadro rimaneva senza dubbio prevalente la configurazione dell’impiegato pubblico come un cittadino cui sono affidate funzioni pubbliche, connotato dall’elemento distintivo dell’esercizio di dette funzioni e non dallo svolgimento di una prestazione lavorativa. Un rapporto di lavoro che continuava a costituirsi con atto di nomina e che era regolato non più solo dalla legge, ma anche dalla contrattazione collettiva che non era, tuttavia, di per sé efficace, ma in quanto recepita in un Decreto del Presidente della Repubblica.
Molteplici fattori, tra cui l’interesse del sindacato confederale ad accreditarsi maggiormente nel settore pubblico, la crescente sfiducia nei confronti della classe politica acuita dalle vicende di “tangentopoli”, l’esigenza di una riduzione della spesa pubblica in vista dell’imminente costituzione dell’unione monetaria, l’influenza della corrente di pensiero internazionale del New Public Management, sono stati alla base di un vasto movimento il cui collante era dato dalla generale convinzione della necessità di un cambiamento delle modalità d’azione dell’amministrazione. Si riteneva che l’ossequio formale della legalità opprimesse l’amministrazione pubblica e la privasse di qualunque possibilità di operare con criteri di efficienza, ovvero con migliore qualità dei servizi e con minori costi. Ed in questa prospettiva la riforma in senso privatistico della disciplina del rapporto di lavoro dei pubblici dipendenti era considerata imprescindibile per il raggiungimento dell’obiettivo.
Sul piano tecnico-giuridico la questione era quella di comprendere come far convivere in capo allo stesso soggetto, la pubblica amministrazione, l’esercizio di funzioni pubbliche con un rapporto di impiego privato dei dipendenti che vi operano, disciplinato non solo dalla legge, ma anche dalla contrattazione collettiva. Lo “scoglio” è stato superato grazie ad una preliminare rilettura dei principi costituzionali operata dalla dottrina, non solo gius-lavoristica , e che ha convinto il legislatore ad intraprendere il percorso di riforma nonostante una posizione fortemente contraria della magistratura amministrativa . In particolare vi è stata una diversa interpretazione della riserva di legge per l’organizzazione degli uffici contenuta nell’art. 97 Cost. nel senso di ritenere che essa non è tale da imporre una riserva di regime pubblicistico estesa al piano dei rapporti di lavoro, potendosi scindere l’ambito dell’organizzazione amministrativa (diritto amministrativo) da quello del rapporto di lavoro (diritto del lavoro). A ciò si univa la considerazione secondo cui fonte della normazione e regime giuridico dell’attività alla quale la stessa normazione si riferisce costituiscono due ambiti distinti.
Si è così giunti all’approvazione della legge delega n. 421/1992 che ha dato avvio al processo di c.d. privatizzazione del pubblico impiego definendo i due pilastri su cui si regge e che non saranno più posti in discussione, ovvero il ruolo costitutivo del rapporto di lavoro assegnato al contratto individuale per la maggior parte dei pubblici dipendenti (fatte salve alcune esclusioni soggettive oggi elencate nell’art. 3 del D.Lgs. n. 165/2001) ed il principio di distinzione funzionale tra politica ed amministrazione. Gli interventi normativi che si sono succeduti nell’ultimo trentennio, consolidatisi nel più volte novellato D.Lgs. n. 165/2001, oltre a modificare, con azioni a geometria varabile, il perimetro privatistico e contrattabile si sono, invece, caratterizzati per l’introduzione di una disciplina del rapporto di lavoro sempre più connotata da profili di specialità, sì da creare un diritto del lavoro dei dipendenti pubblici in ampia parte autosufficiente.
Un percorso che ha trovato la costante condivisione della Corte costituzionale nel legittimare sia la privatizzazione, sia la specialità di disciplina del rapporto di lavoro pubblico. In particolare, con la sentenza n. 313/1996 ha affermato che il valore dell’imparzialità può essere in astratto non irrazionalmente integrato con quello dell’efficienza, essendo da ritenere che l’imparzialità stessa non debba essere garantita necessariamente nelle forme dello statuto pubblicistico del dipendente, con rimessione al giudizio discrezionale del legislatore l’equilibrato dosaggio delle fonti, pubblicistiche o privatistiche . Ad essa ha fatto seguito la sentenza n. 309/1997 secondo cui attraverso un equilibrato dosaggio di fonti regolatrici si è potuto abbandonare il tradizionale statuto integralmente pubblicistico del pubblico impiego, non imposto dall’art. 97 Cost., a favore di un diverso modello che ha inteso garantire, senza pregiudizio dell’imparzialità, anche il valore dell’efficienza, “grazie a strumenti gestionali che consentono, meglio che in passato, di assicurare il contenuto della prestazione in termini di produttività ovvero una sua ben più flessibile utilizzazione”. Una sentenza di rilievo centrale per due ragioni: per l’aver esplicitato sul piano dell’organizzazione che solo quella nel suo nucleo essenziale resta necessariamente affidata alla massima sintesi politica espressa dalla legge, nonché alla potestà amministrativa nell’ambito di regole che la stessa pubblica amministrazione previamente definisce; e per l’aver coniugato, sul piano della regolamentazione del rapporto di lavoro, l’efficacia generalizzata della contrattazione collettiva, espressione di un’esigenza di uniformità nell’ambito pubblico, con i principi dettati dall’art. 39 affermando che la contrattazione collettiva acquisisce efficacia generalizzata per forza non sua, ma della legge, la quale vincola l’amministrazione ad osservarla nei confronti dell’intero personale.
3. La privatizzazione del pubblico impiego come modificazione del sistema delle fonti di costituzione e di regolazione del rapporto di lavoro
La riforma è stata anzitutto una modifica delle “fonti” con cui si è realizzata una contrattualizzazione del rapporto di lavoro ed una privatizzazione degli atti gestionali. Per gli aspetti attinenti alla costituzione e alla regolamentazione del rapporto di lavoro vi è stato il passaggio dal diritto amministrativo al diritto del lavoro e per quanto concerne la regolazione dei profili organizzativi un’estensione del diritto privato oltre l’organizzazione del lavoro fino a comprendere l’organizzazione degli uffici, nell’ambito degli atti generali organizzativi rimasti sotto l’egida pubblicistica unitamente alla definizione delle dotazioni organiche e alla connessa programmazione del fabbisogno di personale . In ambito pubblicistico è restata anche la successiva fase di reclutamento intercorrente tra l’emanazione del bando e l’approvazione della graduatoria. Il confine sul piano sostanziale tra diritto pubblico e diritto privato ha segnato anche quello relativo al piano giurisdizionale, con una competenza del giudice amministrativo che è stata limitata alle controversie concernenti l’accesso e l’impugnazione “diretta” degli atti di c.d. macro-organizzazione ed una del giudice del lavoro estesa a tutti i contenziosi concernenti il rapporto di lavoro e con possibilità di disapplicare l’atto organizzativo pubblicistico qualora si configuri quale mero atto amministrativo presupposto lesivo di una posizione di diritto soggettivo del pubblico dipendente.
Sul piano dell’assetto delle fonti di disciplina sostanziale il legislatore ha delineato una quadripartizione, desumibile dall’analisi coordinata e sistematica delle previsioni di cui agli articoli 2, 5, comma 2 e 40, comma 1, del D.Lgs. n. 165/2001, tra macro-organizzazione, micro-organizzazione, organizzazione del lavoro e rapporto di lavoro; con una macro-organizzazione assoggettata al diritto pubblico e gli altri tre ambiti ricondotti sotto l’egida del diritto privato, con una sfera contrattabile circoscritta ai soli profili attinenti al rapporto di lavoro e solo per gli istituti non disciplinati dalle “diverse” disposizioni del D.Lgs. n. 165/2001 (ed in questi ambiti, eventualmente, nei limiti in cui il ruolo di regolamentazione della contrattazione collettiva sia richiamato dalla stessa fonte legislativa). In estrema sintesi si può osservare quanto segue. La già vista riserva al diritto pubblico dell’organizzazione nel suo nucleo essenziale deriva dall’essere l’azione della pubblica amministrazione funzionalizzata al soddisfacimento dell’interesse pubblico nel rispetto dei principi di imparzialità e di buon andamento. L’esclusione della coincidenza tra area privatizzata ed area negoziabile, volta ad impedire la negoziabilità dei poteri dirigenziali, ha, invece, inteso valorizzare il ruolo manageriale della dirigenza. Infine la specialità della disciplina del rapporto di lavoro, comprendente anche quella volta a regolamentare la contrattazione collettiva, è conseguenza della peculiare natura del datore di lavoro pubblico e, in particolare, dell’esigenza di coniugare la contrattualizzazione del rapporto con il rispetto dei vincoli costituzionali, tra cui quelli di spesa, che governano l’azione delle amministrazioni funzionalizzata al perseguimento degli interessi della collettività .
3.1. Segue: ruolo costitutivo del contratto individuale e principio di distinzione funzionale tra politica e amministrazione
Quanto appena succintamente delineato deve essere considerato alla luce dei due pilastri della privatizzazione in precedenza evidenziati: il contratto individuale quale fonte genetica del rapporto di lavoro e il principio di distinzione funzionale tra politica ed amministrazione. Essi costituiscono i due cardini della riforma poiché è la loro combinazione sinergica a consentire la realizzazione del cambio di paradigma in senso privatistico, funzionale agli obiettivi di incremento di efficienza, efficacia ed economicità dell’azione della pubblica amministrazione a tutela dell’interesse collettivo e nella garanzia della posizione soggettiva del prestatore di lavoro.
Il ruolo costitutivo del contratto individuale ha determinato il passaggio da una “dote generica e aperta di doveri da status a carico del lavoratore ad una precisa e chiusa di obblighi da contratto” , sì da essere l’applicabilità del diritto privato (…) “l’effetto e non la causa del cambiamento di regime giuridico, il quale, nella sua essenza, consiste appunto nella riconduzione della pubblica amministrazione alla posizione contrattuale di parte del rapporto con i propri dipendenti” . Ciò ha comportato il superamento della concezione autoritaria nell’ambito del rapporto di lavoro con un mutamento della natura dei poteri della pubblica amministrazione nell’organizzazione e nella gestione del rapporto di lavoro, ricondotti ai principi dell’autonomia privata ed esercitati attraverso atti unilaterali privatistici e non più tramite provvedimenti amministrativi. Atti sottoposti ad una serie di limiti di tipo sostanziale e procedurale, di genesi legale e convenzionale , senza che vi debba essere la correlazione ad uno specifico scopo , con inapplicabilità dell'obbligo generalizzato di contestuale motivazione previsto per i provvedimenti amministrativi dall'art. 3 della legge 7 agosto 1990, n. 241, necessaria solo quando sia legislativamente o contrattualmente richiesta in via specifica e parimenti con inammissibilità dell’esercizio del potere di autotutela, che in quanto correlato all’esercizio delle funzioni autoritative è incompatibile in caso di esercizio dei poteri del privato datore di lavoro . Ne consegue, altresì, che gli atti privatistici non sono soggetti al termine decadenziale generale di impugnazione di sessanta giorni (fatti salvi i casi in cui sia previsto da una specifica disposizione ), con applicazione dei termini dettati dal codice civile per l’esercizio dell’azione volta a farne valere eventuali vizi da rilevare da parte del giudice del lavoro secondo le categorie proprie del diritto civile.
A sua volta il principio di distinzione funzionale tra politica ed amministrazione è calato in un rinnovato contesto in cui anche il rapporto di lavoro della dirigenza pubblica ha natura contrattuale. Il dirigente, al pari del personale del comparto, è debitore di una certa prestazione lavorativa rispondendo sul piano dell’adempimento contrattuale per l’attività svolta e per i risultati ottenuti anche nell’esercizio dell’attività discrezionale, valutata a consuntivo in ragione del raggiungimento o meno degli obiettivi assegnati. Un rapporto contrattuale che per la dirigenza di ruolo presenta quale elemento di specialità la scissione tra un contratto di assunzione a tempo indeterminato ed una serie di incarichi a termine che si succedono nel corso del rapporto. Una scissione che nelle intenzioni del legislatore, nel rappresentare il contrappeso del rafforzamento del principio di distinzione funzionale, avrebbe dovuto, nel contempo, costituire la garanzia dell’arretramento della politica dalla gestione concreta e della effettiva autonomia della dirigenza nello svolgimento dei propri compiti.
Nel contesto così delineato, la rispondenza all’interesse pubblico degli atti gestionali privatistici di organizzazione degli uffici e del lavoro viene garantita attraverso la valutazione complessiva dell’attività svolta. In sostanza mentre la “quota” riservata al regime pubblicistico resta “funzionalizzata” in ogni determinazione della pubblica amministrazione, nell’ambito “privatizzato” il punto di osservazione si sposta dai singoli momenti di esercizio al risultato complessivo dell’attività svolta nell’esercizio del potere privatistico, nel senso che “essi si rivelano vincoli di scopo dell’attività organizzativa colta nel suo insieme, e non dei singoli atti” , sì da rispettare ugualmente i vincoli di economicità, speditezza e rispondenza al pubblico interesse dell’azione amministrativa.
4. Le fonti di regolazione del rapporto di lavoro pubblico. Generalità
Il rapporto di lavoro dei pubblici dipendenti è disciplinato dalla legge e dalla contrattazione collettiva, mentre al contratto individuale è riconosciuto uno spazio regolativo alquanto limitato. I tre aspetti devono essere approfonditi in maniera distinta.
4.1. Segue: il ruolo regolativo della legge e le ragioni della specialità di disciplina
La disciplina legislativa del rapporto di lavoro dei pubblici dipendenti contrattualizzati è connotata da indubbi elementi di specialità. Dall’art. 2, comma 2, del D.Lgs. n. 165/2001 emerge una tripartizione di regole applicabili, in una combinazione i cui confini non sono sempre chiari: le disposizioni comuni al settore privato, le speciali disposizioni del D.Lgs. n. 165/2001, alle quali viene attribuita la natura di “norme imperative”, e le ulteriori speciali disposizioni riferite ai soli pubblici dipendenti o a loro specifiche categorie.
Le ragioni della specialità della disciplina – tra cui vanno annoverate anche le disposizioni che regolamentano la contrattazione collettiva e che formeranno oggetto di separata considerazione nel prossimo paragrafo – sono da rinvenire nella necessità di coniugare la funzione classica del diritto del lavoro di tutela del prestatore di lavoro quale contraente debole (con regole che pongono limiti ai poteri del datore di lavoro, sì da ridurre l’asimmetria di forza esistente tra le parti) con il rispetto dei vincoli costituzionali. Per alcune disposizioni speciali quest’ultima esigenza è di più immediata evidenza, mentre per altre lo è meno, apparendo prioritariamente il frutto di scelte di politica del diritto del legislatore, senza dubbio riferibili ad una possibile modalità di attuazione dei precetti costituzionali, ma non quale soluzione necessitata. Se si ha riguardo al D.Lgs. n. 165/2001 si può ritenere che siano riconducibili al rispetto dei vincoli costituzionali, segnatamente ai precetti di imparzialità e di buon andamento, nonché al principio dell’accesso per concorso, le speciali disposizioni, di diretta attinenza con l’ambito pubblicistico, in materia di assunzione e determinazione del fabbisogno di personale, salva l’ipotesi dell’avviamento degli iscritti nelle liste di collocamento per le qualifiche e profili per i quali è richiesto il solo requisito della scuola dell'obbligo. Analogamente riconducibili al rispetto dei vincoli costituzionali sono le previsioni che dettano una speciale disciplina per i contratti di lavoro autonomo, in materia di mobilità, volontaria e collettiva, di trasferimento di attività, di tipologie contrattuali flessibili, di mansioni e, segnatamente, con riferimento allo svolgimento di mansioni superiori, di incompatibilità, di obbligatorio svolgimento di un periodo di prova e di tutela nel caso di licenziamento ingiustificato, nonché quelle concernenti la valutazione (contenute in parte nel D.Lgs. n. 165/2001 e da leggersi congiuntamente con quanto previsto dal D.Lgs. n. 150/2009) e i trattamenti economici premiali. Diversamente si configurano quale conseguenza di scelte discrezionali del legislatore altre disposizioni, prime fra tutte quelle in materia disciplinare.
4.2. Segue: il ruolo regolativo della contrattazione collettiva tra aperture e vincoli
La portata della specialità della disciplina legislativa in materia di rapporto di lavoro deve essere analizzata alla luce del ruolo regolativo assegnato alla contrattazione collettiva che anche nel settore pubblico è espressione di autonomia privata e rientra nell’ambito di garanzia dell’art. 39 della Costituzione . Una contrattazione che, tuttavia, come già accennato, è anch’essa assoggettata ad una speciale disciplina legislativa derivante non solo dalla necessità di coniugare diritto pubblico e diritto privato del lavoro secondo quanto già evidenziato in ossequio ai principi di imparzialità e di buon andamento, ma anche dall’esigenza di controllo dei suoi costi, del tutto funzionale al controllo della spesa pubblica. Una contrattazione collettiva che incontra, dunque, limiti e/o specificazioni per quanto concerne la definizione delle parti negoziali, con il legame intercorrente tra la loro individuazione ed il tema della rappresentatività sindacale, per quanto riguarda la determinazione dell’ambito soggettivo di applicazione del contratto, con una efficacia generalizzata indiretta non in contrasto con la seconda parte dell’art. 39 della Costituzione, per quanto inerisce la regolamentazione della procedura per la stipulazione dei contratti.
Con specifico riguardo al ruolo regolativo della contrattazione collettiva due sono le questioni fondamentali che si pongono e che toccano trasversalmente il tema delle materie contrattabili: la prima attiene al rapporto tra legge e contrattazione collettiva; la seconda il rapporto tra contratti di diverso livello.
In merito al rapporto tra legge e contrattazione collettiva tre sono gli ambiti di analisi che fanno seguito alla tripartizione dell’art. 2, comma 2, del D.Lgs. n. 165/2001 in precedenza posta in luce: quello in cui vi è un rinvio all’applicazione delle norme del settore privato; quello caratterizzato dalle diverse disposizioni del D.Lgs. n. 165/2001; quello delle speciali disposizioni riferite ai soli dipendenti delle amministrazioni pubbliche, o a categorie di essi”, cui si affianca quello concernente le disposizioni di legge, regolamenti o atti amministrativi che attribuiscono incrementi retributivi non previsti dalla contrattazione collettiva.
Nel primo caso, di rinvio all’applicazione delle norme del lavoro privato, non si pongono questioni particolari. Valgono i principi del “patrimonio classico” del privato secondo cui il contratto collettivo in quanto espressione di autonomia privata deve ritenersi gerarchicamente subordinato alla legge, non potendo dettare disposizioni peggiorative, ma solo migliorative e nel settore pubblico con il già visto limite della non negoziabilità dei profili organizzativi. Nel settore pubblico non trova, invece, applicazione l’art. 8 del d.l. 13 agosto 2011, n. 138 che ha introdotto un modello di contratto collettivo “di prossimità”, di livello inferiore a quello nazionale, idoneo a derogare in senso peggiorativo la legge, con il generico limite del rispetto di “principi generali”, posto che il dato letterale e sistematico della norma ne comportano la riferibilità al solo settore privato.
Nel secondo caso, riferito alle diverse disposizioni del D.Lgs. n. 165/2001, la natura imperativa ad esse riconosciuta ha, in linea generale, efficacia impeditiva rispetto ad un possibile intervento della fonte collettiva, con nullità delle eventuali previsioni negoziali che dovessero intervenire e loro sostituzione automatica con le norme di legge. Tuttavia la previsione generale deve essere letta in maniera coordinata con quella del terzo periodo del primo comma dell’art. 40 ove si afferma che nelle “materie relative alle sanzioni disciplinari, alla valutazione delle prestazioni ai fini della corresponsione del trattamento accessorio, della mobilità” (ovvero in alcune materie oggetto di una speciale disciplina da parte del D.Lgs. n. 165/2001) “la contrattazione collettiva è consentita nei limiti previsti dalle norme di legge”. Dalla lettura coordinata delle due previsioni si evince che laddove vi sia una “diversa disposizione” del D.Lgs. n. 165/2001 la contrattazione collettiva può intervenire in presenza di un espresso rinvio ad essa da parte della norma di legge, ma nei soli limiti di detto rinvio. Peraltro, un vincolo all’intervento della contrattazione collettiva è ribadito in altre disposizioni, tra le quali, in particolare, il comma 12-bis dell’art. 19 del decreto 165 ove in materia di conferimento di incarichi dirigenziali si afferma che “Le disposizioni del presente articolo costituiscono norme non derogabili dai contratti o accordi collettivi”; ed ancora al successivo art. 55 in cui si prevede che “Le disposizioni del presente articolo e di quelli seguenti, fino all'articolo 55-octies, costituiscono norme imperative, ai sensi e per gli effetti degli articoli 1339 e 1419, secondo comma, del codice civile” .
Il terzo e ultimo caso, è quello delle speciali disposizioni di legge, regolamento o statuto che introducano o che abbiano introdotto discipline dei rapporti di lavoro la cui applicabilità sia limitata ai dipendenti delle amministrazioni pubbliche, o a categorie di essi. Il testo vigente, frutto della novella del 2017, contiene tre fondamentali indicazioni circa la possibilità ed i limiti di intervento della contrattazione collettiva. La prima è che le “speciali disposizioni” possono essere derogate e, dunque, non sono automaticamente derogate, con significativa differenza rispetto all’originaria formulazione della norma contenuta nel comma 2-bis dell’art. 2 del D.Lgs. n. 29/1993 ed a quanto si andrà ad evidenziare di seguito con riguardo alla apparentemente analoga disposizione del terzo comma riferita al trattamento economico. La seconda è data dalla possibilità di derogare anche a disposizioni già introdotte e, dunque, antecedenti alla riforma del 2017. La terza è che la deroga è esercitabile nei limiti della competenza della contrattazione collettiva (“possono essere derogate nelle materie affidate alla contrattazione collettiva ai sensi dell'articolo 40, comma 1, e nel rispetto dei principi stabiliti dal presente decreto”) in modo da escludere ogni eventuale intervento su profili organizzativi, ancorché di organizzazione del lavoro.
Ad un meccanismo derogatorio ad opera della contrattazione collettiva deve essere ricondotta anche la previsione del terzo comma dell’art. 2 del D.Lgs. n. 165/2001 secondo cui “Le disposizioni di legge, regolamenti o atti amministrativi che attribuiscono incrementi retributivi non previsti da contratti cessano di avere efficacia a far data dall'entrata in vigore dal relativo rinnovo contrattuale”. Come anticipato la differenza rispetto al meccanismo derogatorio del secondo periodo del secondo comma è evidente poiché mentre nel caso del secondo comma è necessario un intervento “in positivo” della fonte collettiva che disciplini la materia, nel caso del comma 3 è “sufficiente” l’entrata in vigore di un nuovo contratto collettivo (“dal relativo rinnovo contrattuale”), sì da rappresentare questo accadimento il fatto che fa perdere efficacia alle disposizioni normative.
Per quanto concerne i rapporti tra contratti collettivi di diverso livello, segnatamente con riguardo al rapporto tra contrattazione nazionale ed integrativa [che può essere di doppio livello (integrativo nazionale e di sede) oppure unico (di ente) sulla base di una scelta che è rimessa alla contrattazione collettiva nazionale], le differenze rispetto al settore privato sono marcate. La contrattazione collettiva integrativa è soggetta a precisi limiti per quanto concerne gli attori negoziali, le materie contrattabili ed il rispetto dei vincoli di spesa. Si prevede che “la contrattazione collettiva integrativa si svolge sulle materie, con i vincoli e nei limiti stabiliti dai contratti collettivi nazionali, tra i soggetti e con le procedure negoziali che questi ultimi prevedono” (art. 40, comma 3-bis, D.Lgs. n. 165/2001), non potendo le pubbliche amministrazioni “in ogni caso sottoscrivere in sede decentrata contratti collettivi integrativi in contrasto con i vincoli e con i limiti risultanti dai contratti collettivi nazionali o che disciplinano materie non espressamente delegate a tale livello negoziale ovvero che comportano oneri non previsti negli strumenti di programmazione annuale e pluriennale di ciascuna amministrazione”, con un vincolo reale in caso di violazione dei vincoli e dei limiti di competenza imposti dalla contrattazione nazionale o dalle norme di legge in forza del quale “le clausole sono nulle, non possono essere applicate e sono sostituite ai sensi degli articoli 1339 e 1419, secondo comma, del codice civile” (art. 40, comma 3-quinquies, D.Lgs. n. 165/2001) .
Per completezza ricostruttiva appare di una qualche utilità ricordare la possibilità per l’amministrazione di procedere provvisoriamente in via unilaterale qualora in sede integrativa non si raggiunga l’accordo nelle materie demandate a tale livello di negoziazione. Il legislatore subordina tale azione alla circostanza che il “protrarsi delle trattative determini un pregiudizio alla funzionalità dell’azione amministrativa” e prevede l’obbligo per l’amministrazione di proseguire le trattative (e, dunque, di attivarsi in tal senso) al fine di pervenire in tempi celeri alla conclusione dell’accordo (art. 40, commi 3-ter e 3-quater, D.Lgs. n. 165/2001). Il legislatore ha, altresì, ricondotto alla contrattazione collettiva la facoltà di “individuare un termine minimo di durata delle sessioni negoziali in sede decentrata, decorso il quale l’amministrazione interessata può in ogni caso provvedere, in via provvisoria, sulle materie oggetto del mancato accordo”. Qui, a differenza dell’ipotesi in precedenza richiamata, non è il pregiudizio, ma il solo decorso del tempo a consentire l’azione unilaterale dell’amministrazione che, ancorché indicata come provvisoria, diviene nella sostanza definitiva, vista l’assenza di alcun obbligo di convocazione della controparte sindacale che, viceversa, ne ha diritto, qualora ne faccia richiesta. In merito la contrattazione collettiva ha dato seguito alla previsione legislativa, differenziando nell’ambito delle materie demandate alla regolazione del contratto integrativo tra gli istituti riferiti alla parte normativa in senso lato e quelli direttamente attinenti alla definizione del trattamento economico, richiedendo la sussistenza del pregiudizio per l’azione unilaterale solo per questi ultimi, limitandosi alla richiesta del decorso del tempo (trenta giorni dall’inizio delle trattative, eventualmente prorogabili fino ad un massimo di ulteriori trenta giorni) per la riassunzione delle rispettive prerogative e libertà di iniziativa e di decisione.
4.3. Segue: Il (non) ruolo regolativo del contratto individuale
Nel lavoro pubblico contrattualizzato il legislatore riconosce al contratto individuale uno spazio di intervento regolativo molto limitato, unicamente in materia di trattamento economico e solo in quanto sia previsto dalla contrattazione collettiva di comparto. Ciò si desume dal combinato disposto dell’art. 45, comma 2, e dell’art. 2, comma 3, del D.Lgs. n. 165/2001. La prima norma impone alle amministrazioni di garantire ai propri dipendenti “parità di trattamento contrattuale” e “comunque trattamenti non inferiori a quelli previsti dai rispettivi contratti collettivi”, la seconda, dopo aver stabilito al primo periodo che i rapporti individuali di lavoro “sono regolati contrattualmente” al terzo statuisce che l’attribuzione di trattamenti economici può avvenire esclusivamente mediante contratti collettivi, salvo i casi di azione unilaterale dell’amministrazione (art. 40, commi 3-ter e 3-quater del D.Lgs. n. 165/2001) e di tutela retributiva per i dipendenti pubblici (art. 47-bis, D.Lgs. n. 165/2001), “o, alle condizioni previste, mediante contratti individuali”.
Il limitato ruolo regolativo assegnato dal legislatore al contratto individuale è condiviso dalla Corte costituzionale che ritiene la soluzione funzionale a garantire l’efficacia generalizzata del contratto collettivo e l’attuazione del principio di parità di trattamento. La Corte nell’escludere che il meccanismo delineato nell’art. 45, comma 2, porti al riconoscimento di un’efficacia diretta erga omnes del contratto collettivo, sì da non configurarsi alcuna violazione del quarto comma dell’art. 39 della Costituzione, sottolinea, altresì, il “legame che avvince il contratto individuale al contratto collettivo” e, con specifico riferimento al ruolo regolativo del contratto individuale, afferma che il dipendente con la sua sottoscrizione ha accettato, in forza del rinvio alla disciplina collettiva in esso contenuto, “che il rapporto di lavoro si instauri (o prosegua) secondo regole definite, almeno in parte, nella sede della contrattazione collettiva” .
Nel sistema così delineato la giurisprudenza di legittimità ritiene che la fonte collettiva possa disciplinare in maniera diversa alcuni profili del rapporto di lavoro di particolari categorie di prestatori di lavoro del comparto. Si è così affermato che “il principio di parità di trattamento contrattuale gravante sul datore di lavoro pubblico (….) opera nell’ambito del sistema di inquadramento previsto dalla contrattazione collettiva, vietando trattamenti individuali migliorativi o peggiorativi rispetto a quelli ivi previsti, ma non costituisce parametro per valutare le eventuali differenziazioni operate in quella sede, non vietando ogni trattamento differenziato nei confronti di singole categorie di lavoratori ma solo quelli contrastanti con specifiche previsioni normative” .
La possibilità di una negoziabilità a livello individuale è sostanzialmente esclusa anche per la dirigenza nonostante il secondo comma dell’art. 19 del D.Lgs. n. 165/2001 affermi espressamente che all’atto di conferimento dell’incarico “accede un contratto individuale con cui è definito il corrispondente trattamento economico”, nel rispetto dei principi dettati dal successivo articolo 24, primo fra tutti quello di onnicomprensività della retribuzione. Il punto è che se si ha mente la struttura retributiva della dirigenza (articolata in un trattamento fondamentale ed in uno accessorio, a propria volta distinto tra retribuzione di posizione e di risultato) emerge ictu oculi come l’unica voce in astratto negoziabile sia la determinazione della retribuzione di risultato. La quantificazione del trattamento fondamentale è definita dal contratto collettivo, la retribuzione di posizione, peraltro scissa in una parte fissa ed in una varabile, è predeterminata in via unilaterale dalla singola amministrazione nel rispetto di criteri fissati dalla contrattazione nazionale e previa graduazione degli incarichi. Ciò che risulta in ipotesi oggetto di possibile negoziazione individuale è la quantificazione percentuale del trattamento accessorio collegato ai risultati che, secondo quanto disposto dal comma 1-bis dell’art. 24 “deve costituire almeno il 30 per cento della retribuzione complessiva del dirigente considerata al netto della retribuzione individuale di anzianità e degli incarichi aggiuntivi soggetti al regime dell’onnicomprensività”. Senonché è a tutti noto la pressoché generale attestazione della percentuale in quella minima indicata dalla legge quale effetto di politiche retributive che risentono non solo della scarsità di risorse contenute nel fondo, ma soprattutto dell’onda lunga dei modelli di misurazione e di valutazione delle prestazioni, nonché di una politica gestionale il più possibile volta all’omogeneizzazione delle varie situazioni anche per espressa richiesta della stessa dirigenza.
5. Il riparto di competenza legislativa statale e regionale nella regolamentazione del lavoro pubblico contrattualizzato: profili generali
La tematica relativa al riparto tra competenza legislativa statale e regionale nella regolamentazione del lavoro pubblico contrattualizzato si pone per i dipendenti che operano in amministrazioni diverse da quelle centrali, in particolare delle regioni, degli enti territoriali e degli enti operanti in sanità. Si tratta di una questione complessa e molteplici ne sono le ragioni.
Il Titolo V della Costituzione, come noto, è stata riscritto nel 2001 ridefinendo la ripartizione delle competenze tra Stato e Regioni a statuto ordinario in ragione di una forma di “federalismo”, tradotta nell’art. 117 e ampliabile ai sensi dell’art. 116, comma 3, della Costituzione (c.d. regionalismo differenziato). Le regioni a statuto speciale e le province autonome di Trento e Bolzano, secondo quanto riaffermato dal primo comma dell’art. 116 della Costituzione “dispongono di forme e condizioni particolari di autonomia, secondo i rispettivi statuti speciali adottati con legge costituzionale”.
Il vigente articolo 117, come noto, distingue fra legislazione esclusiva dello Stato e concorrente fra Stato e Regioni a statuto ordinario, elencandone le relative materie al secondo comma [fra cui, alle lett. e), l) e m), l’“l’armonizzazione dei bilanci pubblici”; l’“ordinamento civile” e la “determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali”] e, rispettivamente, al terzo comma (fra cui la “tutela e sicurezza del lavoro”, l’“istruzione e …formazione professionale”, il “coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario” e la “tutela della salute”). Al quarto comma attribuisce le materie residuali (in tal senso si parla, come noto, di competenza generale “residuale”) alla legislazione esclusiva delle Regioni, come tali deducibili a contrario dalle elencazioni di cui al secondo e al terzo comma: per quanto più rileva in questa sede l’ordinamento e organizzazione amministrativa della Regione, peraltro in forma implicita, per essere la stessa materia riservata alla competenza esclusiva dello Stato solo in quanto attinente allo stesso Stato o agli enti pubblici nazionali [comma 2, lett. g)].
Nell’assetto così definito a seguito della riforma sono sorte alcune rilevanti questioni interpretative.
In primo luogo le novellate previsioni del Titolo V hanno dovuto (e devono) confrontarsi in materia di lavoro pubblico con le disposizioni di legge ordinaria ad esse antecedenti e che non sono state modificate a seguito della riforma costituzionale del 2001, prime fra tutte quelle del D.Lgs. n. 165/2001, del D.Lgs. n. 267/2000 (c.d. Testo Unico degli enti locali), nonché del D.Lgs. n. 502/1992 relativo al servizio sanitario nazionale.
Nel corpo del D.Lgs. n. 165/2001 due sono le disposizioni di rilievo: gli articoli 1, nei suoi commi 1 e 3, e 27.
Il primo nel definire le finalità e l’ambito di applicazione del decreto al primo comma afferma che esso riguarda “l’organizzazione degli uffici e i rapporti di impiego alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche”, “tenuto conto delle autonomie locali e di quelle delle regioni e delle province autonome, nel rispetto dell’art. 97, comma primo, della Costituzione”. Per poi ritornare al comma 3 sulle autonomie regionali per statuire il principio secondo cui le “disposizioni” del decreto “costituiscono principi fondamentali ai sensi dell’art. 117 della Costituzione”, peraltro con una successiva distinzione fra le Regioni a statuto ordinario e a statuto speciale, cui sono aggiunte le Province autonome di Trento e Bolzano: per le prime con la previsione di un obbligo di adeguamento, se pur temperato dal poter tener conto “delle peculiarità dei rispettivi ordinamenti”; per le seconde con il solo obbligo di osservare i principi desumibili dagli artt. 2, della legge n. 421/1992 (tutti i principi direttivi della prima delega) e dall’art. 11, comma 4, della legge n. 59/1997 (oltre a tutti i principi della prima delega, anche quelli a integrazione, sostituzione e modifica introdotti dalla seconda) come “norme fondamentali di riforma economico sociale della Repubblica”.
Il secondo nel dettare i criteri di adeguamento per le pubbliche amministrazioni delle disposizioni relative alla dirigenza ha previsto che “le regioni a statuto ordinario” (non contemplando quelle a statuto speciale e le province autonome di Trento e Bolzano) “nell’esercizio della propria potestà statutaria, legislativa e regolamentare” e “le altre pubbliche amministrazioni, nell'esercizio della propria potestà statutaria e regolamentare”, adeguano i propri ordinamenti ai principi di distinzione tra politica ed amministrazione ed a quelli contenuti nel “presente capo” “tenendo conto delle relative peculiarità”. Per gli enti pubblici non economici nazionali si prevede l’adeguamento, anche in deroga alle speciali disposizioni di legge che li disciplinano, con l’adozione di appositi regolamenti di organizzazione.
Al D.Lgs. n. 165/2001 fanno riferimento, per gli aspetti in essi non diversamente regolati, sia il D.Lgs. n. 267/2000, sia il D.Lgs. n. 502/1992, e questo sia per il comparto che per la dirigenza, rispettivamente agli articoli 88 e 111 e agli articoli 3-bis, comma 14, e 15, comma 2.
In secondo luogo talune delle materie elencate nell’art. 117 Cost., sia quelle di competenza esclusiva dello Stato, sia quelle di competenza concorrente, hanno una valenza di carattere trasversale, sì da far riferimento non ad oggetti precisi, ma a finalità da perseguire e che conseguentemente si intrecciano con una pluralità di altri interessi, incidendo in tal modo su ambiti di competenza concorrente o residuale delle regioni .
Infine il riparto di competenze in materia di lavoro pubblico deve essere definito anche alla luce di altri principi costituzionali contenuti in norme diverse da quelle del Titolo V impositive di vincoli alla legislazione regionale.
6. Il ruolo di alta supplenza svolto dalla Corte costituzionale: il rapporto tra normativa di principio e di dettaglio e i principi di prevalenza e di leale collaborazione
Un ruolo decisivo di alta supplenza per risolvere le problematiche via via manifestatesi è stato svolto dalla Corte costituzionale, con una giurisprudenza talvolta ondivaga, ma caratterizzata da una costante preoccupazione per l’unità dell’ordinamento e che si è tradotta in pronunce connotate da una indubbia visione centralista. Le problematiche interpretative hanno riguardato non solo le materie per le quali sussiste una competenza concorrente, nelle quali allo Stato è demandata la determinazione dei principi fondamentali, ma anche quelle attribuite alla competenza esclusiva statale.
In merito rilevano innanzitutto alcuni principi fondamentali espressi in sede di conflitto di attribuzione con riguardo a materie rientranti nell’ambito della c.d. legislazione concorrente, di diretta rilevanza anche per il lavoro pubblico.
Innanzitutto la Corte ha affermato che il rispetto del rapporto tra normativa di principio e normativa di dettaglio, “va inteso nel senso che l’una è volta a prescrivere criteri e obiettivi, mentre all'altra spetta l'individuazione degli strumenti concreti da utilizzare per raggiungere quegli obiettivi” . Si è, altresì, precisato che il carattere di principio di una norma non è escluso, di per sé, dalla specificità delle prescrizioni, qualora la norma “risulti legata al principio stesso da un evidente rapporto di coessenzialità e di necessaria integrazione” .
Se sul piano dell’affermazione del principio astratto la soluzione è in apparenza chiara è, viceversa, sul piano concreto che emergono le maggiori difficoltà interpretative. Ciò in quanto, secondo la stessa giurisprudenza della Corte, la nozione di principio fondamentale “non ha e non può avere caratteri di rigidità e di universalità, perché le ‘materie’ hanno diversi livelli di definizione che possono mutare nel tempo. È il legislatore che opera le scelte che ritiene opportune, regolando ciascuna materia sulla base di criteri normativi essenziali che l'interprete deve valutare nella loro obiettività.” . Sicché, afferma sempre la Corte, “l’ampiezza e l’area di operatività dei principî fondamentali […] non possono essere individuate in modo aprioristico e valido per ogni possibile tipologia di disciplina normativa. Esse, infatti, devono necessariamente essere calate nelle specifiche realtà normative cui afferiscono e devono tenere conto, in modo particolare, degli aspetti peculiari con cui tali realtà si presentano” .
Ma ancor più complessa è la questione che si pone con riguardo alla possibile vis espansiva della legislazione statale sulle competenze regionali concorrenti o residuali . In merito la Corte costituzionale ha individuato due principi, quello di prevalenza e quello di leale collaborazione, stabilendo altresì una sorta di “gerarchia” tra di loro posto che il principio di leale collaborazione secondo la Consulta deve trovare applicazione allorquando il principio di prevalenza non sia in grado di dipanare la questione . Si è così ritenuto che il principio di prevalenza si possa applicare “qualora appaia evidente l’appartenenza del nucleo essenziale di un complesso normativo ad una materia piuttosto che ad altre” , mentre il principio di leale collaborazione, “che per la sua elasticità consente di aver riguardo alle peculiarità delle singole situazioni” ed impone alla legge statale di predisporre adeguati strumenti di coinvolgimento delle regioni, a salvaguardia delle loro competenze, deve essere invocato nei vasi più complessi ed intricati .
La stessa Corte costituzionale ha poi affermato che il principio di leale collaborazione è “suscettibile di essere organizzato in modi diversi, per forme e intensità” , a seconda del quantum di incidenza sulle competenze regionali. Si è così differenziato tra una leale collaborazione che si concretizza nel raggiungimento di una previa intesa in sede di Conferenza unificata o di Conferenza Stato-regioni al fine di garantire un contemperamento tra potestà statali e prerogative regionali nel caso in cui si tratti di adottare una disciplina regolamentare o legislativa in ambiti normativi di pertinenza regionale e l’acquisizione di un parere della Conferenza nel caso di minor impatto sulle competenze regionali . Più precisamente alla luce della più recente giurisprudenza della Corte si può ritenere che la previsione dell'intesa sia considerata la forma più idonea di coinvolgimento regionale in presenza di una materia di legislazione concorrente “prevalente” o di residuale competenza regionale , ovvero in presenza di un "nodo inestricabile" di competenze esclusive, concorrenti e residuali nel quale non sia possibile stabilire una competenza prevalente .
7. La specifica problematicità del lavoro pubblico tra ordinamento civile e organizzazione amministrativa regionale “passando” per il principio di leale collaborazione
La questione, di per sé complessa a livello generale, ha assunto una propria specificità per quanto concerne il rapporto di lavoro del personale delle amministrazioni regionali e locali, in ragione dell’intreccio tra disciplina del rapporto di lavoro e profili organizzativi e di una legislazione ordinaria antecedente e non aggiornata . In dottrina tra le soluzioni interpretative proposte quella che a posteriori si dimostrerà essere la più prossima alle soluzioni che saranno adottate dalla Corte costituzionale si basava su un criterio oggettivo-contenutistico, già utilizzato dalla Corte costituzionale per individuare le materie di cui al “vecchio” art. 117, secondo cui il contenuto oggettivo delle materie si sarebbe potuto definire sulla base delle soluzioni concrete espresse dal diritto vigente. Si affermava così che nella voce ordinamento ed organizzazione rientrasse solo la c.d. macro-organizzazione, mentre i profili di micro-organizzazione e di disciplina del rapporto di lavoro fossero da ricondurre nella materia ordinamento civile. E si giungeva così a ritenere di poter “fermare, almeno pro tempore, le lancette dell’orologio ermeneutico al momento del varo del nuovo art. 117 Cost., sì da ritenere che l’“ordinamento civile” attribuito alla competenza esclusiva (dello Stato) sconti ed incorpori lo spazio di “adattamento” già concesso alla legislazione regionale dal D.Lgs. n. 165/2001” . Chi esprimeva tale tesi ne era anche consapevole del limite, ovvero che in questo modo sarebbe restata affidata al solo legislatore nazionale la competenza a tracciare la linea di confine tra l’area privatizzata e quella rimasta in regime pubblicistico, potendo così la legislazione statale decidere la possibile area di influenza della legislazione regionale , con una prospettiva ribaltata rispetto a quella che sarebbe dovuta essere una rigorosa interpretazione delle fonti data l’evidente impossibilità di subordinare i precetti costituzionali alle scelte del legislatore ordinario .
La Corte Costituzionale ha seguito nella sostanza questa impostazione riconducendo l’impiego pubblico regionale in parte all’“ordinamento civile”, e dunque alla competenza esclusiva dello Stato per i profili privatizzati del rapporto, dato che “la intervenuta privatizzazione e contrattualizzazione del rapporto di lavoro pubblico vincola anche le Regioni” ; in parte, per i profili “pubblicistico-organizzativi” c.d. macro alla competenza legislativa residuale delle Regioni a statuto ordinario, con il riconoscimento, dunque, della competenza sui concorsi per l’accesso all’impiego, sulla fissazione dei criteri e dei parametri per la definizione delle dotazioni organiche, sulle incompatibilità e sulle misure organizzative di gestione del personale . È, dunque, principio costantemente affermato dalla Corte quello secondo cui, se “gli interventi legislativi che incidono sui rapporti lavorativi in essere sono ascrivibili alla materia ordinamento civile” si devono “per converso ricondurre alla materia residuale dell’organizzazione amministrativa regionale quelli che intervengono “a monte”, in una fase antecedente all’instaurazione del rapporto, e riguardano profili pubblicistico-organizzativi dell’impiego pubblico regionale” .
Nel contempo la giurisprudenza della Corte costituzionale, a dimostrazione della difficoltà di tracciare una linea netta tra competenza legislativa statale e competenza regionale, ha utilizzato in maniera crescente la regola della “leale collaborazione” nella forma forte della “previa intesa”, affermando addirittura proprio con riguardo al lavoro pubblico che la previa intesa si possa imporre anche al procedimento legislativo. Nello specifico assume rilievo la sentenza della Corte Costituzionale n. 251/2016 con cui è stata dichiarata l’illegittimità della legge delega n. 124/2015 in materia di dirigenza per assenza della previa intesa, ritenuta dalla Corte necessaria in ragione del sovrapporsi delle competenze legislative esclusive dello Stato e residuali delle Regioni. La sovrapposizione è stata rinvenuta nel fatto che le disposizioni della legge delega in materia di dirigenza ricadevano sia sotto la competenza esclusiva statale in materia di “ordinamento civile”, sia sotto la competenza regionale residuale in materia di “ordinamento ed organizzazione amministrativa”, “entro cui si collocano le procedure concorsuali pubblicistiche per l’accesso al ruolo (…), il conferimento degli incarichi (…) e la durata degli stessi”, sì da richiedere non solo un parere, ma una intesa preventiva con la conferenza Stato/Regioni, nell’ambito del principio di “leale collaborazione”.
La Corte ha, in definitiva, accolto un criterio contenutistico di delimitazione che ha portato nei fatti anche ad un “allineamento” tra regioni a Statuto ordinario e regioni a statuto speciale, che prima della riscrittura del Titolo V godevano di un ambito di potestà legislativa in materia di impiego pubblico più ampio rispetto alle prime . Ciò è l’effetto del riconoscimento al legislatore nazionale da parte del novellato art. 117 della legittimazione ad effettuare la ripartizione tra profili privatizzati e non del rapporto di lavoro pubblico con riguardo a tutte le pubbliche amministrazioni, comprese le regioni a statuto speciale .
8. Altri limiti alla legislazione regionale evincibili da diverse disposizioni costituzionali: generalità
Se il criterio contenutistico, unito al principio della leale collaborazione, hanno assunto un rilievo preminente nella definizione del riparto di competenze tra Stato e Regioni, tuttavia la potestà legislativa delle Regioni, anche quella “generale e residuale”, è assoggettata ad una serie di ulteriori limiti da rinvenirsi nel necessario rispetto di altre norme della Costituzione (primo fra tutti l’art. 97) e nell’intreccio con materie di competenza esclusiva statale (in particolare “ordinamento civile” e “determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali”) o concorrente Stato e Regioni (prima fra tutte il “coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario” in connessione anche con la competenza statale in materia di “armonizzazione dei bilanci pubblici”), nonché nei principi generali di organizzazione pubblica che costituiscono le linee fondamentali comuni dell’organizzazione amministrativa (tra i quali in particolare il principio di distinzione tra politica ed amministrazione) e quelli che comportano il rispetto del diritto al lavoro.
8.1. Segue: la regola dell’accesso per concorso agli impieghi pubblici
Dall’art. 97 si evince innanzitutto il limite dettato dal rispetto della regola del pubblico concorso per l’accesso agli impieghi, espressione dei principi di imparzialità e di buon andamento.
La Corte ha affermato che la disciplina dei concorsi per l’accesso al pubblico impiego, in ragione dei suoi contenuti marcatamente pubblicistici e della sua intima correlazione con l’attuazione dei principi sanciti dagli artt. 51 e 97 Cost., sottratta all’incidenza della privatizzazione del lavoro presso le pubbliche amministrazioni, che si riferisce alla disciplina del rapporto già instaurato, è estranea alla materia dell’“ordinamento civile” . Ha, tuttavia, ulteriormente precisato che vincolante per le amministrazioni regionali è la regola dell’accesso per concorso, non la regolamentazione delle modalità di espletamento delle procedure concorsuali che risulta, invece, da ricondurre alla materia “innominata” (cioè residuale) dell’organizzazione amministrativa delle Regioni e degli enti pubblici regionali, ovviamente nel rispetto dei limiti costituzionali, primi fra tutti quelli di imparzialità “enunciato dall’art. 97 e sviluppato dall’art. 98 Cost.” e di buon andamento .
In particolare la giurisprudenza costituzionale con riguardo all’area delle eccezioni al principio dell’accesso per concorso, segnatamente per quanto concerne le procedure di stabilizzazione, ne ha evidenziato la necessità di una delimitazione in modo rigoroso , con deroghe legittime solo in presenza di “peculiari e straordinarie esigenze di interesse pubblico” idonee a giustificarle, non essendo sufficiente la “personale aspettativa degli aspiranti” ad una misura di stabilizzazione , essendo necessario che ricorrano particolari ragioni giustificatrici, ricollegabili alla peculiarità delle funzioni che il personale da reclutare è chiamato a svolgere, in particolare relativamente all’esigenza di consolidare specifiche esperienze professionali maturate all’interno dell’amministrazione e non acquisibili all’esterno, le quali facciano ritenere che la deroga al principio del concorso pubblico sia essa stessa funzionale alle esigenze di buon andamento dell’amministrazione . In definitiva la Corte ha ritenuto che si possa derogare alla regola del pubblico concorso solo in presenza di peculiari ragioni giustificatrici, nell’esercizio di una discrezionalità che trova il suo limite nella necessità di garantire il buon andamento della pubblica amministrazione ed il cui vaglio di costituzionalità non può che passare attraverso una valutazione di ragionevolezza della scelta operata dal legislatore .
8.2. Segue: il canone di buona organizzazione
Ulteriori limiti sono stati ravvisati dalla Corte Costituzionale nei canoni di buona amministrazione, ovvero in quelle regole organizzative, individuabili in base ad un criterio contenutistico, che in ragione dell’intima razionalità che le ispirano (in armonia con la nozione di principio generale dell’ordinamento giuridico) concorrono a formare il tessuto essenziale dell’organizzazione delle pubbliche amministrazioni.
Così è stata censurata la disposizione regionale che consentiva di poter riservare nella programmazione triennale del personale posti nel limite del quaranta per cento di quelli oggetto di reclutamento dall’esterno a favore di soggetti che avessero già avuto rapporti di lavoro con le predette amministrazioni e che fossero in possesso di certi requisiti (quelli richiesti per l’accesso dall’esterno ed in particolare dei titoli di studio e l’aver avuto rapporti di lavoro subordinato e/o parasubordinato a tempo determinato, per una durata complessiva di almeno 24 mesi in un certo arco temporale) in quanto l’aver prestato attività a tempo determinato alle dipendenze dell’amministrazione regionale non può essere considerato ex se sufficiente in mancanza di altre particolari e straordinarie ragioni giustificatrici della deroga al principio dell’accesso per concorso .
Del pari è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale di una norma regionale che prevedeva diversi requisiti tra interni ed esterni per poter ricoprire un certo incarico (la responsabilità delle segreterie dei gruppi consiliari) per la sua irragionevolezza (ancor più marcata dal fatto che per gli esterni e non per gli interni si sarebbe potuto prescindere da certi requisiti) e per la lesione del principio di buon andamento potendosi determinare l’inserimento nell’organizzazione pubblica di soggetti che non offrono le necessarie garanzie di professionalità e competenza . Analogamente è stata dichiarata costituzionalmente illegittima per violazione del principio di ragionevolezza e di buona amministrazione la disposizione regionale che consentiva il conferimento di incarichi di collaborazione coordinata e continuativa indipendentemente dal possesso dei requisiti richiesti dal comma 6 dell’art. 7 del D.Lgs. n. 165/2001 . Ancora sono state ritenute in contrasto con la Costituzione le disposizioni regionali che avevano introdotto per il conferimento di incarichi, segnatamente di direzione di strutture sanitarie pubbliche, requisiti meno rigorosi di quelli previsti dalla legislazione statale .
8.3. Segue: il criterio del rispetto del diritto al lavoro
Limiti alla legislazione regionale sono stati rinvenuti anche nel necessario rispetto del diritto al lavoro di cui all’art. 4 della Costituzione, da tutelare qualora la disposizione di una regione dovesse pregiudicare le aspettative al lavoro.
Nello specifico – con una pronuncia di respiro senza dubbio più ampio rispetto alla singola questione considerata – sono state rigettate le questioni di legittimità costituzionale avanzate nei confronti di una norma statale volta a dettare condizioni uniformi su tutto il territorio nazionale proprio per garantire effettività al diritto al lavoro. Così è stata ritenuta legittima la disposizione dell’art. 34-bis del D.Lgs. n. 165/2001 volta a privilegiare procedure di mobilità disponendo l’obbligo per tutte le amministrazioni (dunque, anche per quelle regionali) di verificare la possibile ricollocazione del personale in esubero prima di procedere a nuove assunzioni . La Corte ha affermato che non costituisce una normativa di dettaglio di spettanza della legge regionale, bensì una disciplina necessariamente di competenza dello Stato, in quanto solo lo Stato può emanarne una con efficacia vincolante per tutte le amministrazioni pubbliche, centrali ovvero locali, e far sì in tal modo che gli elenchi del personale in mobilità (delle amministrazioni centrali e locali) non restino tra loro incomunicabili. Ed ha aggiunto che la legge statale non si ingerisce nelle scelte delle amministrazioni regionali e locali circa le loro esigenze di munirsi di nuovo personale, né quanto al numero, né quanto alla qualità di tale personale, essendo le amministrazioni locali libere di specificare in modo dettagliato il tipo di personale del quale intendono valersi (non solo l’area e il livello, ma anche le funzioni e le specifiche idoneità richieste) nonché la sede di destinazione.
8.4. Segue: la materia del coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario
L’ambito di esplicazione della legislazione regionale trova limiti peculiari con riferimento alla materia di legislazione concorrente “coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario” che per sua natura può intersecare tutti gli ambiti legislativi concorrenti e residuali delle regioni .
In linea generale occorre evidenziare l’evoluzione recente della giurisprudenza della Corte costituzionale caratterizzatasi per un ampliamento degli ambiti di legittimo intervento del legislatore statale.
L’orientamento più risalente (o meglio quello maturato negli anni immediatamente successivi alla riscrittura dell’art. 117) era chiaro nel prevedere che il legislatore statale potesse stabilire solo un limite complessivo, sì da lasciare alle regione e agli enti territoriali ampia libertà di allocazione delle risorse tra i diversi ambiti e obiettivi di spesa , non potendo fissare limiti puntuali relativi a singole voci di spesa tali da vincolare all’adozione di misure analitiche e di dettaglio in quanto si sarebbe così venuta a comprimere illegittimamente la loro autonomia finanziaria, in contrasto con il compito di formulare i soli principi fondamentali della materia .
Tuttavia, la Corte più recentemente, anche in considerazione della situazione di eccezionale gravità del contesto economico e finanziario, nonché in ragione della riforma costituzionale del 2012 , ha fornito una lettura estensiva delle norme di principio nella materia del coordinamento della finanza pubblica. Più precisamente, pur ribadendo, in via generale, che possono essere ritenuti principi fondamentali di coordinamento della finanza pubblica le norme che si limitino a porre obiettivi di riequilibrio della finanza pubblica – intesi nel senso di un transitorio contenimento complessivo, anche se non generale, della spesa corrente, e non invece di interventi che prevedano in modo esaustivo strumenti o modalità per il perseguimento di tali obiettivi – ha, nei fatti, avallato le scelte del legislatore statale di introdurre vincoli specifici per il contenimento della spesa delle regioni e degli enti locali .
Il cambiamento di passo tra le pronunce più remote e quelle più recenti appare però evidente da un loro sintetico confronto.
Così all’indomani della riforma del Titolo V la Corte costituzionale aveva dichiarato l’illegittimità di una disposizione statale contenuta nella legge finanziaria del 2003 che limitava le assunzioni a tempo indeterminato entro percentuali non superiori al 50 per cento delle cessazioni dal servizio verificatesi nell’anno 2002 per violazione della materia organizzazione della struttura amministrativa riservata alle autonomie regionali e degli enti locali in quanto non si limitava a fissare un principio di coordinamento della finanza pubblica, ma poneva un precetto specifico e puntuale sull’entità della copertura delle vacanze verificatesi nel 2002 .
Analogamente la Corte si era espressa nel senso della illegittimità costituzionale della legge finanziaria del 2007 che vincolava le amministrazioni soggette al patto di stabilità interna che avessero inteso procedere nel triennio 2007-2009 ad assunzioni di personale a tempo determinato di riservare obbligatoriamente una quota di posti a favore di chi avesse già intrattenuto con esse rapporti di collaborazione coordinata e continuativa per la durata complessiva di almeno un anno alla data del 29 settembre 2006; secondo la Corte tale disposizione non poteva essere qualificata come principio di coordinamento della finanza pubblica, attenendo piuttosto alla disciplina delle modalità di accesso all’impiego presso gli enti soggetti al patto di stabilità interno, disciplina riconducibile alla materia dell’organizzazione amministrativa delle Regioni e degli enti pubblici regionali e rientrante nella competenza residuale delle Regioni di cui all’art. 117, quarto comma, della Costituzione .
La più recente giurisprudenza ha segnato il descritto “cambio di passo”.
In particolare la Corte è intervenuta più volte sulla portata dell’art. 9, comma 28, del d.l. n. 78 del 2010 in base al quale le pubbliche amministrazioni possono stipulare contratti di lavoro flessibile, nelle tipologie in essa indicate, nel limite del 50 per cento della spesa sostenuta per le stesse finalità nell'anno 2009; norma invocata nei giudizi quale norma interposta e qualificata come principio fondamentale di coordinamento della finanza pubblica sia per il suo carattere finalistico – gli obiettivi previsti devono essere effettivamente raggiunti in tutto il territorio nazionale – sia per il fatto di fissare un “tetto” alla spesa, necessariamente vincolante in modo altrettanto uniforme . In merito la Corte, da un lato, ha affermato l’obbligo per le Regioni di conformarsi alle misure stabilite dalla disposizione statale; dall’altro lato, ha evidenziato lo spazio di autonomia lasciato dalla disposizione alle Regioni nella scelta delle misure da adottare per l’attuazione del precetto normativo, sì da potersi qualificare come disposizione di principio vincolante per le amministrazioni regionali e locali. Ed in questa prospettiva ha rigettato le questioni di legittimità costituzionale proposte nei confronti di una legge regionale che aveva precisato quali tra le tipologie contrattuali ricomprese nella disposizione statuale assumessero rilievo al fine del rispetto del tetto di spesa . La Corte ha, invece, dichiarato l’illegittimità costituzionale di altra legge regionale che aveva, al contrario, escluso dal limite di finanza pubblica le spese sostenute dai gruppi consiliari per l’utilizzo di tipologie contrattuale flessibili .
Nella prospettiva indicata merita di essere annoverata anche la pronuncia con cui è stata riconosciuta la natura di principio di coordinamento della funzione pubblica anche ad altra regola (dettata dal d.l. n. 34/2019) secondo cui le nuove assunzioni devono esser legate alla sostenibilità finanziaria e non allo storico dell’organico .
La giurisprudenza costituzionale ha, altresì, considerato principio di coordinamento della finanza pubblica quello di invarianza della spesa per il trattamento accessorio dei dipendenti pubblici, desunto dall’art. 23 del D.Lgs. n. 165/2001, vincolante anche per le autonomie speciali poiché la finanza delle regioni a statuto speciale è parte della finanza pubblica allargata . È stata, tuttavia, prevista un’eccezione ritenendosi che lo Stato non abbia titolo per dettare norme di coordinamento finanziario per le regioni a statuto speciale che provvedono in autonomia al finanziamento del proprio servizio sanitario . Sulla scorta di ciò la Corte ha rigettato la questione di illegittimità costituzionale proposta nei confronti di una legge regionale (a statuto speciale) che aveva previsto la possibilità per ogni ente del Servizio sanitario regionale di destinare i risparmi derivanti dalla mancata attuazione del piano triennale dei fabbisogni all’incremento delle risorse destinate annualmente al trattamento accessorio del personale .
9. Le peculiarità del riparto di competenza riferibili alla dirigenza
Per la dirigenza delle amministrazioni diverse da quelle centrali dalla riforma del Titolo V sono emerse delle specificità. Esse sono date dall’essere il dirigente nel contempo debitore di una prestazione contrattuale di lavoro e soggetto che esercita una pubblica funzione, sì da dar luogo ad un intreccio non facilmente dipanabile tra aspetti ordinamentali ed aspetti riconducibili al rapporto di lavoro.
In merito le opinioni espresse dalla dottrina sono state fin dall’inizio significativamente diverse: una prima posizione ha ravvisato nel sistema delineato dalla Costituzione una sostanziale continuità, sì da ritenere che tutte le amministrazioni si dovessero adeguare ex art. 27 del D.Lgs. n. 165/2001 al principio di distinzione funzionale tra politica ed amministrazione ed alle altre regole dettate dal decreto 165 in tema di dirigenza ; una contraria leggeva la riscritta formulazione dell’art. 117 della Costituzione privilegiando i profili di discontinuità, così da prefigurare ampi spazi di intervento della legislazione regionale, dubitando della persistente esistenza di un obbligo di adeguamento ex art. 27 . Il nucleo del ragionamento proposto dalla maggioranza dei fautori di questa seconda interpretazione si fondava sul supposto assorbimento dei profili lavoristici, di disciplina del rapporto di lavoro, in quelli organizzativo-ordinamentali che sarebbe stato confermato anche dalla collocazione delle disposizioni in tema di dirigenza contenute nel D.Lgs. n. 165/2001 nel Titolo II intitolato “Organizzazione”. Il che li conduceva, coerentemente con questa premessa, ad attribuire alla potestà legislativa regionale, ed a cascata, nei limiti tracciati dal legislatore regionale, alla regolamentazione dei singoli enti locali, la definizione delle regole inerenti alla dirigenza ricondotte all’ordinamento ed organizzazione amministrativa regionale e, dunque, in virtù della clausola di residualità alla competenza legislativa regionale.
La Corte costituzionale allorquando è stata chiamata in causa, talvolta ha privilegiato una lettura volta a sottolineare i profili di continuità con il passato , anche invocando il principio di prevalenza , talaltra ha, invece, assunto una chiara posizione a favore di una competenza esclusiva delle regioni in ragione dei numerosi e rilevanti profili del rapporto di lavoro rientranti, in base alla legislazione statale, nell’“ordinamento e organizzazione amministrativa”, ad esempio, reclutamento, dotazioni organiche, incompatibilità, conferimento e revoca degli incarichi dirigenziali , nonché responsabilità dirigenziale e relative misure sanzionatorie , riconducendo all’ordinamento civile e, dunque, alla competenza statale, quei profili attinenti alle ricadute della disciplina dell’incarico e della responsabilità dirigenziale sul sottostante rapporto di lavoro , nonché la definizione del trattamento economico rimesso alla contrattazione collettiva .
Anche per la dirigenza la giurisprudenza costituzionale ha ravvisato limiti alla competenza generale residuale delle regioni desumendoli da altri principi costituzionali, primi fra tutti quelli di imparzialità e del giusto procedimento. In particolare la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale per contrasto con gli artt. 97 e 98 Cost. delle disposizioni che sottoponevano all’identico regime di decadenza automatica non solo i titolari di organi di vertice nominati intuitu personae dall’organo politico, ma anche soggetti che non possedevano l’uno o l’altro di tali requisiti e che erano scelti previa selezione avente ad oggetto le loro qualità professionali (si trattava dei direttori generali delle ASL e di quello dell’Agenzia regionale per l’ambiente) . Nello specifico si è ravvisata la lesione del principio di buon andamento, in riferimento alla continuità dell’azione amministrativa che si riteneva pregiudicata da mutamenti del titolare di un ufficio pubblico a pochi mesi di distanza l’uno dall’altro; del principio di imparzialità dell’azione amministrativa in quanto le funzioni amministrative di esecuzione dell’indirizzo politico non erano affidate a funzionari neutrali, tenuti ad agire al servizio esclusivo della Nazione, ma a soggetti cui si richiedeva una specifica appartenenza politica, ovvero un rapporto personale di consentaneità con il titolare dell’organo politico; del giusto procedimento desumibile dall’art. 97 della Costituzione escludendosi il diritto del funzionario di intervenire nel corso del procedimento che conduce alla sua rimozione e di conoscere la motivazione di tale decisione; ed, infine, dei principi di efficienza e di efficacia dell’azione amministrativa, in base ai quali le decisioni relative alla rimozione dei funzionari incaricati della gestione amministrativa, così come quelle relative alla loro nomina, debbono essere fondate sulla valutazione oggettiva delle qualità e capacità professionali da essi dimostrate .
Meritevole di considerazione è anche la pronuncia giurisprudenziale che in materia di conferimento di incarichi alla dirigenza sanitaria ha affermato l’inderogabilità della disciplina statale secondo cui la scelta dei direttori di dipartimento deve essere operata tra i dirigenti con incarichi di direzione delle strutture complesse aggregate al dipartimento (ai sensi dell’art. 17-bis, comma 2, del D.Lgs. n. 502/1992), qualificando tale disposizione quale principio fondamentale in materia di tutela della salute volta a garantire un’uniforme professionalità sul territorio nazionale dei direttori di dipartimento, funzionalmente collegato alla tutela dei diritti sociali costituzionalmente garantiti. E sulla scorta di tale premessa ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della legge regionale che prevedeva la possibilità di individuare i direttori di dipartimento anche tra i dirigenti delle professioni sanitarie in quanto derogando un principio fondamentale in materia di “disciplina degli incarichi della dirigenza sanitaria” prefigurava un rischio di nomina di figure professionali non sufficientemente qualificate .
10. Peculiarità per la disciplina dell’impiego negli enti locali
Il tema del riparto di potestà legislativa tra Stato e Regioni assume una propria ulteriore specificità con riguardo alla disciplina dell’impiego negli enti locali. In questo caso l’art. 117 deve essere letto in connessione con il riconoscimento costituzionale della potestà statutaria e regolamentare agli enti locali (art. 114, comma 2 e art. 117, comma 6), espressione del rafforzamento del principio di autonomia degli enti locali ex art. 5 Cost. e con l’affermazione del principio di equiordinazione degli enti locali rispetto a Stato e Regioni (art. 114 Cost.).
La valorizzazione della potestà normativa degli enti locali ha, tuttavia, indotto una parte della dottrina a ritenere legittima una sua limitazione solo da parte dei principi generali di organizzazione pubblica, dettati dal legislatore statale, ferma la competenza esclusiva dello stato per i profili privatizzati del rapporto di lavoro e fermo l’obbligo per la disciplina dell’organizzazione dell’ente, contenuta nella fonte regolamentare, di conformarsi ai relativi principi dello statuto, a propria volta vincolato al rispetto delle norme statali che definiscono ai sensi della lett. p) del comma 2 dell’art. 117 le funzioni fondamentali di Comuni, Province e Città metropolitane (cfr. legge n. 131/2003) . Altra dottrina, prendendo atto della collocazione nell’ambito della competenza normativa statuale della disciplina dei rapporti di lavoro anche dei dipendenti degli enti locali ha ritenuto ancora aperto il dibattito circa una serie di ambiti regolativi [relativi alla mobilità, alla misurazione e valutazione della performance dei dipendenti o all’organizzazione di talune tipologie contrattuali flessibili (telelavoro, lavoro agile)], che hanno indubbia attinenza con l’organizzazione amministrativa e degli uffici .
11. Le poliedriche problematiche della sanità tra tutela della salute, organizzazione, rapporto di lavoro e contenimento della spesa pubblica
L’ambito della sanità presenta delle indubbie specificità, emerse con evidenza durante la fase pandemica, rispetto alle quali la Corte costituzionale ha sempre mostrato una particolare attenzione. E ciò anche con riguardo ai profili che si intersecano con il rapporto di lavoro del relativo personale, come già emerso in relazione ad alcuni arresti giurisprudenziali richiamati nei paragrafi precedenti. Un rilievo particolare assumono quelle pronunce che hanno individuato limitazioni alla potestà legislativa di autorganizzazione regionale in tema di personale medico allo scopo di garantire il diritto alla salute che rientra a pieno titolo nella più ampia categoria dei diritti sociali, la cui tutela impegna tutti i livelli di governo ad assicurare le condizioni minime di salute e il benessere psico-fisico dell’individuo. In linea generale può osservarsi come molteplici pronunce costruiscono il profilo organizzativo della sanità pubblica come corollario e, dunque, quale elemento costitutivo degli interventi legislativi dello Stato in materia di “tutela della salute” che si legano agli altri interventi della legislazione statale nella definizione su tutto il territorio nazionale dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali.
La questione è senza dubbio complessa e deve essere considerata alla luce del principio affermato dalla giurisprudenza costituzionale secondo cui la materia tutela della salute è “assai più ampia rispetto alla precedente materia assistenza sanitaria e ospedaliera” , rientrando in essa anche l’organizzazione sanitaria, considerata “parte integrante” della tutela della salute . Ne è fatto conseguire che le Regioni possano legiferare in tema di organizzazione dei servizi sanitari, ma sempre nel rispetto dei “principi fondamentali” stabiliti dallo Stato, siano essi formulati in appositi atti legislativi, siano essi impliciti e dunque ricavabili per via interpretativa . La concorrenza tra la competenza residuale regionale in materia di “assistenza ed organizzazione sanitaria” e la competenza concorrente in materia di “tutela della salute” è stata, infatti, risolta dalla Consulta utilizzando il “criterio della prevalenza”, fatto operare in favore della competenza più ampia, ovvero della materia riferibile alla tutela della salute. Peraltro, l'intreccio e la sovrapposizione anche con altre materie, quali la “determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali” (si pensi, in particolare, a quelle norme che contengono un riferimento agli standard qualitativi, strutturali, tecnologici e quantitativi relativi all’assistenza ospedaliera ) ed il “coordinamento della finanza pubblica” ha più volte comportato l’esplicitazione del fatto che la disciplina della materia debba essere interamente improntata al principio di leale cooperazione.
Occorre anche ricordare come la giurisprudenza costituzionale abbia costantemente sottolineato l’esigenza di coniugare una necessaria opera di contenimento della spesa con la garanzia della continuità dell’erogazione della prestazione, e con il rispetto del principio della sostenibilità economica dei costi da parte degli utenti . Ne è derivato che l’ambito di intervento delle Regioni sia stato oggetto più volte di limitazioni da parte del legislatore statale, considerato legittimato ad imporre alle Regioni vincoli alla spesa corrente per assicurare l'equilibrio unitario della finanza pubblica complessiva, in connessione con il conseguimento di obiettivi nazionali, condizionati anche da obblighi comunitari .
Se questo è per così dire lo scenario di fondo ciò che assume precipuo rilievo in questa sede è l’affermazione secondo cui l’organizzazione del servizio sanitario inerisce ai metodi e alle prassi di razionale ed efficiente utilizzazione delle risorse umane, finanziarie e materiali destinate a rendere possibile l’erogazione del servizio . E proprio in ragione dell’efficiente utilizzazione delle risorse umane la Corte costituzionale ha ribadito che, dopo la riforma del Titolo V della Costituzione, la libera professione intramuraria, ascrivibile alla competenza legislativa ripartita in materia di sanità ed assistenza sanitaria ed ospedaliera, si radica nella più ampia materia della tutela della salute, di competenza concorrente . La Corte ha, altresì, considerato come afferente alla materia dell’organizzazione sanitaria e della formazione professionale la previsione di una legge regionale che prevedeva la presenza, nell’equipaggio delle ambulanze gestite da soggetti diversi dalle aziende sanitarie, dalle amministrazioni statali e dalla Croce Rossa, di un autista con attestato di soccorritore di livello base ovvero avanzato . Ed ancora ha ricondotto alla tutela della salute, “quale ambito prevalentemente inciso”, la disciplina regionale (nella specie di una regione a Statuto speciale) che aveva previsto in via eccezionale, per un periodo temporaneo, la possibilità di attribuire incarichi di lavoro autonomo a laureati in medicina e chirurgia abilitati, a medici in formazione specialistica del primo e secondo anno di corso e a personale medico in quiescenza, ritenendo che la previsione fosse giustificata dall’esigenza di approntare un “rimedio organizzativo straordinario”, onde fronteggiare una situazione obiettiva di carenza del personale medico, nella considerazione che la facoltà di affidare tali incarichi era stata “adeguatamente circoscritta”, sì da evitare che se ne potesse ricorrere in modo ordinario . Non meno rilevante è quanto affermato dalla Corte con riguardo all’impiego di medici specializzandi in attività di supporto alle strutture di emergenza urgenza considerati rimedi organizzativi straordinari finalizzati a garantire la continuità assistenziale in settori nevralgici pregiudicati dalla carenza di personale, non investendo se non di riflesso l’ordinamento civile e attenendo viceversa essenzialmente all’organizzazione sanitaria regionale .
Talvolta la giurisprudenza della Corte per affermare la competenza legislativa statale (e per giungere alla dichiarazione dell’illegittimità delle disposizioni regionali destinate a produrre effetti diretti anche sul personale) ha fatto riferimento a più ambiti di potestà di legislazione concorrente, segnatamente la tutela della salute, da una parte, e il coordinamento della finanza pubblica, dall’altra parte. Così con riguardo alla disciplina dei piani di rientro dai deficit sanitari, da attuare attraverso piani con cui le Regioni e lo Stato raggiungono un accordo per il miglioramento dell’erogazione dei servizi sanitari e per il contenimento della spesa pubblica sanitaria, coniugando le misure di riequilibrio in materia di erogazione dei LEA con quelle finalizzate a garantire l’equilibrio di bilancio sanitario, con un divieto di incrementare la spesa per motivi non inerenti alle prestazioni essenziali, la Corte ha dichiarato l’illegittimità di una disposizione regionale con cui si prevedeva l’introduzione della figura del dirigente psicologo nel piano triennale di fabbisogni del personale delle ASL, corrispondente a uno standard di assistenza superiore a quelli essenziali previsti dal piano di rientro, per essere precluso durante la fase di rientro alla Regione di deliberare spese volte all’erogazione di livelli di assistenza superiori a quelli essenziali .