testo integrale con note e bibliografia

1. Una Direttiva inutile o da annullare?
1. Mi è stato affidato l’improbo compito di parlare di un testo – la Direttiva europea sui salari minimi adeguati – di cui, secondo molti, non varrebbe tanto la pena parlare, visto che, si sostiene da più parti, il suo effettivo impatto sul pur necessario percorso di riforma dell’ordinamento interno in materia salariale, sarebbe pressoché nullo.
Nel mio intervento cercherò di porre qualche “granello di sabbia” in questa dilagante retorica della assoluta irrilevanza della Direttiva, che non condivido. Dopo aver brevemente delineato il quadro ordinamentale entro il quale si muoverà, o non si muoverà, il sistema italiano entro il 24 novembre prossimo, data entro la quale gli Stati membri sono chiamati a conformarsi alla Direttiva, mi soffermerò poi in conclusione sulla prospettazione di una possibile linea di azione, visto che l’approssimarsi del termine di attuazione della Direttiva e la pendenza di un disegno di legge delega collocano le nostre discussioni in una fase per definizione “costituente” che autorizza qualche “fantasia progettuale” che spero mi consentirete.
2. Sarebbe inutile negare che la Direttiva costituisce un testo sostanzialmente compromissorio, frutto di equilibri delicati raggiunti con non poca fatica con alcuni Stati ostinatamente contrari, nonché con una parte degli stessi partners sociali, alcuni dei quali hanno sin dall’inizio manifestato la propria indisponibilità al confronto negoziale rifiutando l’invito loro rivolto dalla Commissione secondo quanto previsto dagli articoli 154 e 155 TFUE.
In questo senso, la stessa Direttiva è stata del resto sin dall’inizio “onesta” nel dire quello che non è né avrebbe forse potuto essere visti i noti limiti di competenza: il Considerando n. 19, che costituisce una sorta di manifesto politico dell’intero intervento regolativo dell’Unione, è sufficientemente chiaro nell’affermare che “la presente direttiva non intende armonizzare il livello dei salari minimi nell’Unione, né istituire un meccanismo uniforme per la determinazione dei salari minimi imponendo, l’obbligo di introdurre un salario minimo legale, né di dichiarare i contratti collettivi universalmente applicabili”. In sostanza, come è stato detto da Tiziano Treu, più una raccomandazione che una vera direttiva.
Un testo, dunque, apparentemente privo di un pregnante contenuto normativo che potrebbe tra l’altro anche “dissolversi”, in tutto o in parte, in conseguenza del ricorso per annullamento depositato dalla Danimarca e supportato dalla Svezia, la cui discussione pare essere calendarizzata per il prossimo settembre (causa C-19/23). Alle ben note contestazioni sui limiti di competenza dell’Unione in materia salariale che, se accolte, determinerebbero l’annullamento dell’intera Direttiva, il ricorso danese aggiunge peraltro, in via subordinata, ancor più insidiose argomentazioni specificamente volte all’annullamento del solo art. 4. Nel ricorso si sostiene, infatti, che la Direttiva sui salari minimi adeguati non è solo o tanto una direttiva sui salari minimi adeguati: è piuttosto, e in misura di certo non marginale (“not ancillary”), una direttiva sulla materia della “rappresentanza e difesa collettiva degli interessi dei lavoratori e dei datori di lavoro” di cui all’art. 153, c. 1, lett. f), TFUE, se non addirittura sul “diritto di associazione” di cui all’articolo 153, c. 5. E dunque una direttiva invalida, nella misura in cui la prima richiede l’unanimità e il secondo è del tutto escluso dal novero delle competenze dell’Unione.
3. Le richiamate difficoltà del processo decisionale e le conseguenti “cautele” necessariamente adottate dalla Commissione nella predisposizione del testo normativo hanno contribuito come noto a determinare in Italia quella rappresentazione di sostanziale pre-conformazione dell’ordinamento interno tradottasi di fatto nel traumatico azzeramento della fase propositiva che aveva caratterizzato l’ultimo scorcio della precedente legislatura. Trovando successivamente la sua massima epitome nel rapporto CNEL dallo scorso autunno, secondo il quale, in buona sostanza, eventuali interventi sull’ordinamento interno, pur riconosciuti come opportuni, poco o nulla avrebbero a che fare con le regole poste in ambito europeo. Il tutto sulla base di deduzioni apparentemente indiscutibili fondate sui numeri, per definizione oggettivi. Entrambi i “numeri magici” della Direttiva troverebbero infatti già adesso riscontro nelle magnifiche sorti e progressive dell’ordinamento salariale italiano: non solo l’80% di copertura contrattuale richiesto dalla Direttiva impallidirebbe rispetto al nostro trionfale quasi 100%; ma anche la soglia del 60% del salario mediano – comunque destinata a trovare applicazione solo con riferimento ai sistemi a salario minimo legale - costituirebbe per l’ottimo ordinamento italiano un obiettivo addirittura poco ambizioso, assunto che continuano a circolare indagini secondo le quali i celebri, oggi defunti, 9 euro orari equivarrebbero addirittura all’80% del salario mediano italiano, quindi persino troppo rispetto a una Direttiva poco ambiziosa. Su questi numeri tornerò comunque più avanti.

2. L’inerzia totale dell’ordinamento interno non è un’opzione
1. A smentire la retorica di assoluta irrilevanza che nel dibattito interno circonda la Direttiva, può essere utile innanzitutto ricordare come, al di fuori dei nostri confini e ancor prima della sua entrata in vigore, essa abbia già cominciato ad essere presa piuttosto sul serio. In un recente intervento pubblicato qualche giorno fa su Social Europe, Torsten Müller e Thorsten Schulten – due Autori che in questa materia non hanno bisogno di presentazioni – hanno tratteggiato un quadro comparato dal quale emerge come diversi paesi abbiano già adottato concrete misure di adeguamento dei rispettivi ordinamenti interni facendo espresso riferimento proprio ai parametri della Direttiva: in Bulgaria e Repubblica Ceca sono stati modificati i codici del lavoro introducendo le soglie minime previste dalla Direttiva; in Slovacchia la soglia del 50% del salario medio è stata addirittura innalzata al 57%; in Croazia, a Malta e in Irlanda sono stati adottati atti di indirizzo che incrementano i salari minimi ancora una volta indicando come obiettivi da raggiungere le due soglie del 60% e 50% rispettivamente del salario mediano e medio. In Germania il sostanzioso aumento dell’autunno 2022, che ha portato il salario orario minimo a 12 euro, è stato anche mediaticamente motivato dalla necessità di adeguarsi alla (allora proposta di) Direttiva.
I sindacati olandesi, infine, hanno recentemente lanciato una campagna volta all’innalzamento del salario minimo legale sino alla soglia dei 16 euro orari, corrispondenti secondo la campagna in oggetto al parametro del 60% del salario mediano indicato dall’art. 5 della Direttiva. Il che mi pare assai significativo anche sul piano del nostro ordinamento nazionale, perché personalmente non riesco proprio a capire come – pur considerando i diversi livelli generali dei salari nei due paesi – un salario minimo collocato al 60% del salario mediano sia considerato una conquista in Olanda e una regressione in Italia. In assenza di spiegazioni razionali, forse sarebbe allora il caso di riconsiderare i dati, anche di recente riproposti, secondo i quali in Italia non varrebbe la pena di curarsi troppo dei parametri di adeguatezza indicati dalla Direttiva perché nel nostro paese il 60% del salario mediano ammonterebbe a 6,85 euro , ovvero una cifra sostanzialmente in linea con i minimi tabellari previsti dalla contrattazione collettiva. Da qui la domanda: è mai possibile che il 60% del salario mediano corrisponda in Italia a 6,85 euro e in Olanda a 16 euro? I dati in oggetto sono affidabili o si tratta di una forzata sottovalutazione della Direttiva funzionale a sostenerne l’irrilevanza?
2. La Direttiva deve altresì essere letta non solo nella prospettiva degli ordinamenti nazionali che sono chiamati a recepirla, ma anche sul piano dell’ordinamento e delle politiche sociali dell’Unione, all’interno del quale essa si inserisce in un filone di cui fanno parte anche altri interventi (la revisione degli orientamenti sul semestre, la nuova Direttiva sul distacco con l’ampiamento della nozione di retribuzione, la Direttiva trasparenza retributiva ed altri ancora) che insieme alla Direttiva sui salari minimi adeguati segnano un indubbio superamento di una (lunga) fase nella quale l’Unione si era limitata a evidenziare l’opportunità di politiche salariali restrittive come unico strumento di internal devaluation finalizzato alla competitività. Un dato, questo, che non va sottovalutato.
Al di là dell’indubbio significato della Direttiva sul piano delle politiche dell’Unione, è comunque sul piano dei rapporti tra diritto sovranazionale e diritto interno che la retorica della assoluta irrilevanza merita di essere contestata smentendo la presunta irenica pre-conformazione dell’ordinamento interno da più parti sostenuta. In questo senso, occorre certamente rifuggire da approcci riduzionisti, se non altro perché l’applicazione della Direttiva, come di tutti gli atti normativi europei, è soggetta al principio dell’effetto utile, dovendosi dunque compiere tutti gli sforzi interpretativi affinché alle relative disposizioni possa essere attribuito significato precettivo. A cominciare dalla nozione che compare nella stessa intestazione della Direttiva – l’adeguatezza – rispetto alla quale circolano alcune false interpretazioni secondo le quali essa riguarderebbe solo i parametri minimi specificati dall’art. 5 per gli ordinamenti a salario minimo legale, laddove è invece vero che l’adeguatezza costituisce un obiettivo trasversale dell’intera Direttiva scolpito nell’art. 1, riferibile a tutti gli ordinamenti, e in grado di proiettarsi e conformare l’interpretazione dell’intero testo normativo, anche nelle parti di esso riferibili ai paesi privi di un salario minimo legale.
Come ha scritto Beppe Recchia, la “indifferenza” del diritto dell’Unione rispetto al mezzo – legge o contrattazione collettiva – non può in altri termini essere estesa anche al fine primario che gli Stati membri sono chiamati a perseguire in adempimento degli obblighi posti dalla Direttiva, ovvero la garanzia di salari “adeguati” anche in senso assoluto, tali essendo considerati dalla Direttiva quelli che consentono “un tenore di vita dignitoso”, secondo quanto più volte affermato nei Considerando.
L’inerzia totale non credo sia dunque un’opzione; e tutto sommato, al di là delle roboanti dichiarazioni sul piano della politica politicienne, non si può negare che persino il disegno di legge delega della maggioranza, quello che ha per così dire “ucciso” il progetto delle opposizioni riunite, sembra tutto sommato non scartare del tutto l’idea di un intervento del legislatore sulla estensione degli effetti dei contratti collettivi (fatto salvo il dibattuto riferimento al criterio di selezione degli accordi, individuato, prima dal CNEL e poi nel disegno di legge governativo, nella “maggiore diffusione” in alternativa alla maggiore rappresentatività; un criterio assai discutibile, destinato tuttavia ad essere presumibilmente superato come già avvenuto in occasione della recente conversione in legge del decreto legge di riforma dell’art. 29 del D. Lgs. 276/2003).
3. Alla luce di quanto appena detto, il caso italiano offre dunque ampio materiale per discutere della Direttiva e dei suoi principi fondanti, tra cui spicca, come noto, la presunzione di adeguatezza dei minimi contrattuali negoziati da contratti collettivi ad ampia copertura. Un principio la cui fondatezza risulta apparentemente rimessa in discussione proprio nell’ordinamento italiano a fronte di due realtà opposte: da una parte la prospettazione dell’Italia come paese che rispetto alla Direttiva è il più virtuoso di tutti con il suo 98/100% di copertura contrattuale; dall’altra l’Italia come paese meno virtuoso di tutti alla luce dei ben noti dati sulla innegabile stagnazione salariale che affligge il nostro paese da almeno tre decenni, se non di più . Di fronte a un ordinamento nel quale ad una alta copertura contrattuale si affianca una alta percentuale di low-wage workers, bisogna dunque scegliere una delle due opzioni: o il principio su cui si fonda la Direttiva è falso, perché non è vero che un’alta copertura garantisce minimi adeguati; o non è vero che in Italia ci sia un’alta copertura contrattuale. In questo senso, la Direttiva un problema all’Italia indubbiamente lo pone, e se essa ci spingesse dunque a fare chiarezza su questo sarebbe già un buon risultato. Del resto, tra gli obblighi meno “reclamizzati” ma indubbiamente significativi della Direttiva rientra quello degli Stati membri di mettere in opera “strumenti efficaci di raccolta dati per monitorare la copertura e l’adeguatezza dei salari minimi, anche quando sono previsti solo da contratti collettivi”, raccogliendo informazioni che devono essere “trasparenti e accessibili al pubblico” (artt. 10 e 11). Ciò che, al momento, non pare possa dirsi dell’ordinamento italiano.

3. La copertura contrattuale: alcune riflessioni
1. Parliamo allora di numeri, ed in particolare di quella soglia dell’80% di copertura contrattuale sulla quale si fondano buona parte delle argomentazioni di chi sostiene che attuare la Direttiva equivalga in Italia ad una sostanziale inerzia.
Sulla copertura contrattuale in Italia e sulle difficoltà della relativa misurazione non ho molto di più da dire rispetto a quanto Antonio Loffredo e Giovanni Calvellini hanno già scritto in un mirabile saggio da poco pubblicato sulla Rivista Giuridica del Lavoro, nel quale essi hanno ben chiarito come il famoso 98% di cui viene accreditato il nostro ordinamento, anche con l’autorevole avallo del CNEL, è un dato da maneggiare con molta cura.
In realtà, c’è anche chi si è spinto oltre, come l’OCSE, accreditando l’Italia di uno stupefacente 100% di copertura. A questo riguardo mi sento di poter dire che davvero non si può continuare a perpetuare il vero e proprio equivoco sul quale poggiano le rilevazioni dell’OCSE, secondo le quali il possibile intervento giudiziale ex art. 36 Cost. con conseguente applicazione dei minimi tabellari (al netto delle ultime evoluzioni della giurisprudenza di Cassazione sulle quali non ho il tempo di soffermarmi) autorizzerebbe a concludere nel senso di un tasso di copertura contrattuale generalizzato. Si tratta infatti di una conclusione che è semplicemente sorprendente possa continuare ad essere presa sul serio: se davvero la storica giurisprudenza italiana sull’art. 36 Cost. potesse essere considerata idonea a determinare il 100% di copertura contrattuale, allora paradossalmente anche una copertura contrattuale di tipo “ungherese” o “polacca” al 20% o poco più potrebbe essere considerata in linea con i requisiti posti dalla Direttiva, visto che tutti in fondo possono rivolgersi a un tribunale invocando l’applicazione giudiziale dell’art. 36 Cost. Sarebbe come dire, in altra prospettiva, che l’effettività del diritto UE è per definizione totale anche in caso di un esteso mancato recepimento delle direttive dell’Unione perché comunque c’è la possibilità di avviare una procedura di infrazione…
2. Di copertura, tuttavia, si può anche parlare in un altro modo: non solo cioè con riferimento alla individuazione della misura all’interno degli ordinamenti nazionali, quanto piuttosto con riferimento al significato della copertura dal punto di vista dell’ordinamento europeo. In questo senso ritengo valga la pena prospettare un paio di rapide riflessioni sulle quali forse varrebbe la pena discutere con maggior profondità di quanto sia possibile fare in questa sede.
Da una parte mi pare di poter dire che siamo di fronte a una circostanza piuttosto inedita nel diritto europeo, con la quale si sposta un dato sociologico dalla sfera del descrittivo a quella del prescrittivo: a quanto mi consta, infatti, è la prima volta che un dato empirico (l’80% di copertura) attinente alla sfera delle relazioni industriali rileva quale condizione di applicabilità di una previsione a carattere normativo (l’obbligo di adozione del piano d’azione di cui al par. 2 dell’art. 4).
Dall’altra, non si può non evidenziare come il riferimento ad un “alto” tasso di copertura contrattuale come condizione che legittima la funzione della contrattazione collettiva quale fonte di trattamenti rilevanti ai fini del diritto sovranazionale, costituisca una sorta di compromesso o comunque un second-best rispetto a qualcos’altro che evidentemente si è rivelato impraticabile, ad esempio prevedere che la contrattazione collettiva possa essere considerata strumento idoneo a garantire il diritto a trattamenti retributivi non inferiori ad un minimo di decenza solo a condizione che essa sia in grado di assicurare una estensione generalizzata delle relative statuizioni in materia salariale. Il che, condivisibile o meno, rappresenta sicuramente una variazione rispetto a quanto l’ordinamento europeo aveva più volte ribadito: e cioè che la contrattazione collettiva può essere “presa sul serio” come fonte nell’ordinamento giuridico multilivello solo a condizione che si tratti di contrattazione con effetti erga omnes. Così, ad esempio, nella Direttiva sul distacco transnazionale in relazione ai trattamenti da garantire ai lavoratori distaccati, individuati in quelli stabiliti da contratti collettivi “di applicazione generale”. E così, ancor prima, in relazione alla possibilità per gli stati membri di dare attuazione a Direttive europee attraverso la contrattazione collettiva nazionale a condizione però che si tratti di contrattazione erga omnes, come affermato dalla Corte di giustizia proprio con riferimento alla attuazione in Italia delle Direttive in materia di licenziamenti collettivi (C-91/81) e di trasferimento d’azienda (C-235/1984).
3. Altro punto sul quale si è già aperto un dibattito, anche al di fuori dei nostri confini, attiene ai livelli contrattuali che possono essere considerati rilevanti ai fini della misurazione del tasso di copertura richiesto dalla Direttiva. Profilo sul quale la Direttiva non offre indicazioni del tutto univoche.
Un primo aspetto problematico attiene alla possibilità di ricondurre anche gli accordi aziendali nel novero di quelli che concorrono al raggiungimento della soglia dell’80% richiesta dalla Direttiva. Problema rispetto al quale la Direttiva non offre soluzioni univoche.
Assumendo che, per la loro stessa natura, i salari minimi non possono che essere negoziati in un contesto di contrattazione multi-employer, la proposta iniziale incanalava le misure di promozione verso il rafforzamento della contrattazione collettiva esclusivamente “a livello settoriale o intersettoriale”. Nel corso del processo decisionale, tuttavia, qualcosa è cambiato, poiché l’originario sintagma contenuto nell’art. 4, par. 1, della proposta – “rafforzare la contrattazione collettiva a livello settoriale o intersettoriale” – è stato significativamente modificato inserendo le parole “in particolare” prima di “a livello settoriale o intersettoriale”. Ne risulterebbe la possibilità di tenere conto anche dei contratti aziendali. D’altra parte, tuttavia, il c. 2 dell’art. 10, paragrafo 2, della Direttiva – che non è stato modificato – continua a imporre agli Stati membri di informare la Commissione circa i dati sulla copertura della contrattazione collettiva “per quanto riguarda i contratti collettivi settoriali, territoriali e altri contratti collettivi relativi che coinvolgono più datori di lavoro”, così sembrando implicare che gli accordi aziendali non possano essere presi in considerazione ai fini e nell’applicazione della Direttiva.
A corollario del problema appena esposto si pone poi una diversa questione esegetica, che qui non si ha modo di sviluppare: ovvero se i contratti oggetto dell’attività promozionale statuale ai sensi dell’art. 4, par. 1, (vale a dire, come prima precisato, i contratti stipulati “in particolare a livello settoriale o intersettoriale”) siano o meno gli stessi contratti da prendere in considerazione ai fini del raggiungimento della soglia dell’80% di copertura.
4. C’è poi il tema dei temi, ovvero se ai fini del raggiungimento della soglia di copertura richiesta, la Direttiva consenta o imponga di tenere conto anche di contratti sottoscritti da sindacati non rappresentativi. Su questo punto la Direttiva tace; e anche qui non si può fare a meno di notare il diverso approccio che ha caratterizzato altri atti legislativi dettati dall’Unione su quella che potrebbe essere definita una nozione di “retribuzione contrattuale”: secondo la Direttiva sui lavoratori distaccati, ad esempio, il concetto di retribuzione comprende tutti gli elementi previsti da “contratti collettivi... dichiarati universalmente applicabili” o, in assenza di tali accordi, da “contratti collettivi conclusi dalle organizzazioni delle parti sociali più rappresentative sul piano nazionale”. C’è dunque nell’ordinamento dell’Unione la consapevolezza dell’opportunità di una selezione degli agenti contrattuali, ma nella Direttiva sui salari minimi adeguati questa consapevolezza non c’è stata o comunque non è stato possibile esplicitarla, occorrendo dunque ricavarla in via interpretativa.
C’è poi un aspetto, se posso per un attimo scendere sul piano delle vicende nazionali, sul quale mi sentirei di esporre una piccola riflessione a proposito della questione della misurazione, o meglio della composizione, del tasso di copertura italiano. Nella prospettazione assunta dalla maggioranza di governo, anche sulla base dei ben noti documenti CNEL, si sostiene non solo che il tasso di copertura in Italia sia di circa il 98%, ma anche che all’interno di tale cifra la stragrande maggioranza degli accordi che concorrono a formarla sia costituito da contratti stipulati da soggetti, sindacali e datoriali, maggiormente rappresentativi. Il tutto, come noto, sulla base delle dichiarazioni Uniemens predisposte dai datori di lavoro. Ebbene, sarebbe forse il caso di indagare – a fronte delle plebiscitarie dichiarazioni datoriali Uniemens di applicare contratti collettivi “leader” – quanto il suddetto dato sia conforme alla adesione dei medesimi datori a enti bilaterali costituiti da organizzazioni diverse da quelle stipulanti i contratti leader. Se il numero di aziende che aderiscono a enti bilaterali costituiti da sindacati non rappresentativi fosse in ipotesi superiore al ridottissimo numero di aziende che in sede Uniemens dichiarano di applicare contratti collettivi non leader, allora il dato da cui si ricava la poco credibile applicazione di un contratto collettivo leader da parte del 98% delle imprese italiane, dovrebbe probabilmente essere rimesso in discussione, atteso che non si comprende perché un’impresa che aderisce ad un ente bilaterale di sindacati “non leader” dovrebbe poi (dichiarare di) applicare un contratto collettivo “leader”.
5. Ancora sulle modalità di calcolo della soglia di copertura: l’80% richiesto dalla Direttiva va verificato su base settoriale o su base nazionale? Sul punto condivido la tesi di Loffredo e Calvellini secondo i quali la verifica della copertura va fatta settore per settore; non solo perché si tratta di un metodo certamente più coerente alle finalità sostanziali della Direttiva, quanto e soprattutto perché una tale tesi trova sostegno testuale nell’art. 10 dell’articolato normativo, che obbliga gli Stati membri a fornire periodicamente dati e informazioni nazionali sulla copertura “disaggregate per genere, fascia di età, disabilità, dimensioni dell’impresa e settore”. Se così è, se dunque la verifica del tasso di copertura contrattuale va fatta settore per settore, allora il sistema italiano di misurazione della copertura – che allo stato non sembra distinguere tra settori essendo basato sul mero numero delle dichiarazioni Uniemens – va certamente rimesso in discussione. Anche questo, per quanto forse marginale, può senz’altro essere considerato un effetto specifico della Direttiva nell’ordinamento interno.
Analoga questione si pone poi con riferimento alla articolazione territoriale della verifica, risultando del tutto evidente che all’interno dell’ordinamento italiano vi sono ambiti geografici nei quali il tasso di copertura contrattuale è notoriamente diverso, soprattutto nelle piccole imprese. Su questo punto, tuttavia, la Direttiva non pare offrire riferimenti testuali a sostegno della possibilità di differenziare geograficamente la rilevazione del tasso di copertura, assunto che da una parte la copertura contrattuale viene testualmente definita dalla Direttiva come “la percentuale di lavoratori a livello nazionale cui si applica un contratto collettivo” (art. 3, n. 5), e che dall’altra l’obbligo di disaggregare i dati di copertura da fornire alla Commissione su base biennale è previsto solo con riferimento a “genere, fascia di età, disabilità, dimensioni dell’impresa e settore” (art. 10, par. 2), non dunque anche con riferimento a diverse articolazioni subnazionali di un dato ordinamento nazionale.
6. Infine, due punti rapidissimi per concludere sul tema della copertura, che costituisce di certo – per gli ordinamenti privi di salario minimo legale come il nostro – il requisito principale posto dalla Direttiva.
Primo: nel calcolare “la percentuale di lavoratori a livello nazionale cui si applica un contratto collettivo” (art. 3, n. 5), i lavoratori parasubordinati devono essere presi in considerazione? Secondo la Direttiva certamente sì, perché in assenza di diverse specificazioni nel testo normativo non si può che fare riferimento alla nozione europea di lavoratore, nella quale sono come noto ricompresi anche lavoratori non riconducibili alle più ristrette fattispecie nazionali di subordinazione. Il 98% di cui parla il documento del CNEL tiene conto anche dei lavoratori parasubordinati, o almeno di quelli riconducibili alla nozione europea di lavoratore? Probabilmente no; se è vero che i dati sulla copertura contrattuale in Italia sono ricavati dalle comunicazioni Uniemens, è infatti plausibile immaginare che i parasubordinati non siano considerati nella misurazione del tasso di copertura contrattuale, visto che a quanto mi consta nel modello Uniemens dei collaboratori non c’è un campo destinato alla indicazione del contratto collettivo applicato (se applicato). Né potrebbe dirsi che l’art. 2, d.lgs. n. 81/2015 muta le cose, perché, trattandosi di norma di disciplina e non di fattispecie (chiedo venia se semplifico assertivamente una questione notoriamente complessa), non muta l’inquadramento previdenziale del lavoratore.
Secondo: al raggiungimento della soglia dell’80% di copertura possono concorrere tutti i contratti, anche quelli scaduti che per definizione in un contesto inflazionistico non sono conformi al principio di adeguatezza di cui all’art. 1 della Direttiva? Si tratta di un problema non di poco conto, solo ridimensionato dalla recente ripresa dei rinnovi contrattuali registrata negli ultimi mesi, che rischia di pregiudicare seriamente l’approccio sostanzialistico della Direttiva, che utilizza la copertura come (presunto) equivalente funzionale dell’adeguatezza. Se si escludono dal computo i contratti collettivi non rinnovati, questa è la domanda, a che livello si collocherebbe il tasso di copertura italiano?

4. La via italiana al salario minimo: una proposta
1. Solo un cenno, infine, a quella “fantasia progettuale” di cui parlavo all’inizio, che mi sembra autorizzata dalla fase ancora embrionale in cui si trova il (possibile) percorso regolativo del legislatore interno in considerazione della pendenza di un disegno di legge delega in materia.
Partiamo dalle fonti e da una questione “antica” riletta alla luce del contesto normativo vigente; ovvero dalla individuazione della autorità salariale nel nuovo quadro regolativo offerto dalla Direttiva.
Credo non sia sbagliato dire che nella alternativa tra sistemi legali e sistemi contrattuale di fissazione dei salari minimi, la Direttiva – almeno nella sua configurazione finale, perché le intenzioni originarie erano probabilmente diverse, anche se questa è solo una mia indimostrabile sensazione – esprima una preferenza per la “via contrattuale”, a dispetto del fatto che ai salari minimi legali sono dedicati quattro articoli (dall’art. 5 all’art. 8) e al ruolo della contrattazione collettiva come unica fonte di salari minimi adeguati soltanto uno (l’art. 4). Sul punto, si sono lette alcune analisi che, soprattutto a immediato ridosso della adozione della Direttiva, hanno ritenuto di poter ricavare dalla lettura delle relative disposizioni una sorta di “doppio binario” separato: una parte della Direttiva esclusivamente indirizzata agli ordinamenti a salario minimo legale, e un’altra esclusivamente indirizzata agli ordinamenti a salario minimo contrattuale. In realtà non è così, perché l’idea, e la disciplina, della promozione della contrattazione collettiva in materia salariale attraversa tutta la Direttiva e riguarda tutti gli stati membri, anche quelli a salario minimo legale. In altri termini, l’immagine che rappresenta il corretto rapporto tra le due principali disposizioni della Direttiva – gli artt. 4 e 5 – non è quella di due percorsi distinti rivolti a due diversi gruppi di Stati membri, ma piuttosto quella di due cerchi concentrici, con il maggiore (art. 4) che comprende tutti gli Stati membri, e il sottoinsieme più piccolo (art. 5) solo alcuni di essi. Quantitativamente i secondi sono di più, ma concettualmente credo si possa dire che dalla Direttiva si ricava un principio di fondo diretto alla valorizzazione della fonte contrattuale nella determinazione dei salari minimi. E tutto sommato, per tornare alle vicende di casa nostra, anche il primo giudice di merito che si è pronunciato a Bari dopo il “terremoto d’autunno” della Cassazione, ha individuato in alternativa ad una retribuzione contrattuale considerata insufficiente un altro parametro comunque di fonte contrattuale, rimanendo così pienamente all’interno di un sistema di determinazione dei minimi salariali di natura comunque negoziale.
2. Sottolineerei altresì in premessa anche un secondo dato. Come ha ricordato Salvo Leonardi in un recentissimo saggio sul Giornale di diritto del lavoro e relazioni industriali, l’Italia è – insieme a Svezia e Danimarca - l’unico paese che non ha né un salario minimo legale né una contrattazione collettiva erga omnes . Così come la Direttiva non impone l’adozione di meccanismi legali di determinazione dei salari, così essa – in una delle sue disposizioni per così dire “tranquillizzanti” indirizzata ai più “timorosi” degli Stati membri – si affretta a chiarire all’art. 1, par. 4, lett. b), che “Nessuna disposizione della presente direttiva può essere interpretata in modo tale da imporre a qualsiasi Stato membro l’obbligo di dichiarare un contratto collettivo universalmente applicabile”.
Ciò premesso, la mia posizione, che credo essere abbastanza condivisa, è che la via italiana al salario minimo non possa che essere costruita su una integrazione delle due fonti, così come originariamente previsto dal disegno Catalfo poi assunto dalle opposizioni riunite, e così come del resto non escludono altre e diverse proposte, ivi inclusa quella appena abbozzata nel disegno di delega della maggioranza, che fa comunque riferimento alla possibilità “estendere i trattamenti economici complessivi minimi dei contratti collettivi nazionali di lavoro […] ai gruppi di lavoratori non coperti da contrattazione collettiva”.
Una legge che estendesse i minimi salariali negoziali – varrà la pena solo ricordarlo – non muterebbe la natura dell’ordinamento italiano ai fini della applicazione delle norme della Direttiva, atteso che questa è sufficientemente chiara nel prevedere che “I salari minimi previsti da contratti collettivi che sono stati dichiarati universalmente applicabili senza alcun margine discrezionale per l’autorità dichiarante quanto al contenuto delle disposizioni applicabili, non dovrebbero essere considerati salari minimi legali” (Considerando n. 23).
Ferma restando dunque l’integrazione delle due fonti quale via maestra lungo la quale incamminarsi alla ricerca di una accettabile soluzione della infinita questione salariale italiana, a me pare che alle posizioni che postulano l’estensione generalizzata dei minimi tabellari dei CCNL possa essere applicato un parziale correttivo, che presuppone una previa definizione del tema di cui stiamo parlando o di cui dovremmo parlare nella prospettiva di attuazione della Direttiva: tema che non è costituito dal riordino del sistema contrattuale italiano nel suo complesso, né dalla soluzione del problema salariale tout court, ma solo dalla necessità di garantire a tutti i lavoratori la fruizione di salari minimi. Sarà pure un approccio minimalista che non giunge a intaccare il cuore di una questione salariale che riguarda anche i più ampi temi della diseguaglianza e della redistribuzione della ricchezza nazionale, né a risolvere gli annosi dilemmi di un sistema negoziale italiano alle prese con dumping e incerti perimetri, ma non è inutile ricordare che, tutto sommato, ciò che la Direttiva primariamente impone di perseguire è la rimozione di quei fenomeni estremi di sotto-retribuzione che possiamo indicare con la formula del “salario indecente”.
Non ho molto tempo per argomentare adeguatamente e so che probabilmente non tutti concorderebbero con ciò che sto per dire, ma mi preme quantomeno offrire al dibattito questo spunto di riflessione: inteso quale rimedio ad un fallimento di mercato che consente di “comprare” lavoro a un prezzo del tutto sganciato dalla produttività marginale dello stesso, ritengo che il tema del salario minimo occupi uno spazio concettuale ma anche economico, sociale e sindacale diverso da quello riconducibile alla ordinaria funzione salariale svolta dalla contrattazione collettiva quale istituzione che riflettendo le condizioni di mercato in un settore dato e in un dato momento storico fissa il prezzo del lavoro. A me pare cioè – ma mi riservo di dedicare al tema la stessa profondità con cui l’ha affrontato Vincenzo Bavaro nei suoi ultimi scritti, ove si sostengono con dovizia di argomentazioni posizioni opposte – che quando parliamo di salario minimo dovremmo pensare a modelli e tecniche regolative specifiche le quali, più che individuare in positivo il salario giusto, siano piuttosto finalizzate a delimitare, in negativo, un’area di illecito definita dalla violazione del parametro costituzionale della sufficienza.
Orbene, se si concorda con l’idea che il salario minimo più che costituire il prezzo di una prestazione di lavoro è una misura che garantisce uno standard minimo di dignità che non può non essere assicurata quale che sia la prestazione svolta, allora occorre pensare a un livello minimo universale trasversalmente riferibile a qualsiasi prestazione di lavoro, a prescindere dal settore specifico nella quale essa viene svolta. Se cioè il salario minimo corrisponde, come credo, a un principio universale di decenza retributiva al di sotto della quale non si può andare, come si può pensare che esso possa essere differenziato settore per settore? Forse che il living wage del chimico è diverso da quello del custode o del vigilante? O non sarebbe piuttosto il caso di ritenere che non possano esserci tanti salari minimi quanti sono i settori (tanto più in un ordinamento dove i confini dei settori sono ormai aleatori) e che invece di minimo non possa che essercene uno, perché di proporzionalità ce ne sono tante ma di sufficienza solo una?
3. Se così è allora, e vengo alla mia proposta, forse la sede più idonea nella quale negoziare questa soglia minima destinata ad essere estesa alla generalità dei lavoratori nella prospettiva di garantire il parametro costituzionale della sufficienza, non è quella della contrattazione collettiva di categoria quanto piuttosto il tavolo interconfederale , ove contrattare un minimo salariale unico per tutti i settori, destinato a essere recepito con cadenza annuale in atto avente forza di legge (secondo un modello praticato in Belgio che varrebbe la pena guardare con attenzione in sede di ricerca comparata).
Oltre che più adeguata sul piano strutturale e conforme alla natura del salario minimo nel senso ora descritto, a me sembra peraltro che la soluzione del minimo fissato in sede interconfederale potrebbe contribuire a risolvere – nel senso di by-passarli, seppur con esclusivo riferimento a questo specifico segmento della regolazione salariale – molti dei problemi che affliggono il nostro sistema negoziale nel suo complesso e che allo stato ci impediscono di proseguire nella ricerca di una soluzione plausibile al problema del salario minimo: i problemi della contrattazione collettiva pirata, l’individuazione dei perimetri, la selezione dell’accordo leader, le patologie dei macro e dei micro-perimetri, della stessa efficacia soggettiva, la a volte ardua distinzione tutta italiana tra TEC e TEM, tutti questi problemi del sistema negoziale interno indubbiamente si stempererebbero o si annullerebbero del tutto ove si accedesse alla prospettiva qui prospettata della fissazione del salario minimo al livello interconfederale. La proposta che ho appena delineato, infine, supera le obiezioni ancora di recente sollevate da chi si oppone all’erga omnes salariale su base settoriale eccependo che una normativa del genere ossificherebbe perimetri e categorie; cosa che per i ben noti motivi non si potrebbe fare con un atto di legge (così da ultimo Enrico Gragnoli). Con un salario minimo fissato a livello interconfederale, mi pare, anche questo tipo di obiezioni verrebbe meno. Non si tratterebbe certo di un esito imposto dalla Direttiva, ma credo che sarebbe un esito quantomeno compatibile con essa.
4. Rimane naturalmente aperto il problema di stabilire se sia opportuno completare il sistema ora tratteggiato con quello che definirei “il paracadute”: ovvero i famosi 9 euro o qualsiasi altra soglia minima destinata ad operare solo in via sussidiaria ed eventuale ove i contratti (interconfederali) ne rimanessero al di sotto.
Personalmente, ma davvero non ho il tempo di discuterne nel dettaglio, ritengo che il paracadute sia opportuno, anche se – superata la prospettiva regolativa dei 9 euro – la relativa quantificazione è tutt’altro che agevole. Nel suo “sestetto d’autunno”, la Cassazione ha offerto uno spettro sin troppo ampio di possibili parametri , rispetto ai quali mi sentirei solo di escluderne uno: come ha rilevato di recente Umberto Carabelli, il minimo salariale che, in sede legislativa o giudiziale, dà corpo al principio costituzionale di sufficienza non può coincidere con la soglia di povertà. Questo il Considerando n. 28 della Direttiva, con il suo pur debole riferimento alle necessità non solo materiali e di sostentamento che il salario minimo dovrebbe garantire, lo esclude. E anche questo, tutto sommato, costituisce un altro orientamento specifico che contribuisce a sottrarre la Direttiva al destino di totale irrilevanza cui alcuni vorrebbero condannarla.

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