testo integrale con note e bibliografia

1. L’ambito di applicazione dell’art. 2086 c.c. novellato.

L’art. 2086 c.c. è stato a lungo una norma cui la dottrina ha prestato scarsa attenzione, forse perché si limitava a esplicitare un effetto sostanzialmente connaturato allo stato di subordinazione del lavoratore ai sensi dell’art. 2094 c.c.: e cioè che l’imprenditore è legittimato a esercitare nei confronti di quest’ultimo un potere gerarchico strumentale all’organizzazione e alla direzione dell’attività d’impresa . Come noto, la lettura delle norme codicistiche alla luce delle sopravvenute previsioni costituzionali le ha depurate di qualsiasi “funzionalizzazione” dei poteri dell’impresa alla soddisfazione di interessi “altri” rispetto alla soddisfazione dell’interesse egoistico dell’imprenditore . Tant’è che è sempre stato pressoché univoco l’assunto della giurisprudenza giuslavoristica post-corporativa nel senso dell’insindacabilità giudiziale delle scelte organizzative dell’imprenditore, che possono invece esser condizionate solo da limiti “esterni” dettati dal legislatore ordinario . Principio tradizionalmente affermato in termini consonanti anche nel diritto commerciale con la formula del business judgement rule.
Il Codice della crisi di impresa (d.lgs. 12 gennaio 2019, n. 14), però, ha di recente attribuito una nuova e inaspettata rilevanza alla norma codicistica, aggiungendo un comma all’art. 2086 c.c., secondo cui “L'imprenditore, che operi in forma societaria o collettiva, ha il dovere di istituire un assetto organizzativo, amministrativo e contabile adeguato alla natura e alle dimensioni dell'impresa, anche in funzione della rilevazione tempestiva della crisi dell'impresa e della perdita della continuità aziendale, nonché di attivarsi senza indugio per l'adozione e l'attuazione di uno degli strumenti previsti dall'ordinamento per il superamento della crisi e il recupero della continuità aziendale”.
La nuova formulazione pone numerosi interrogativi: l’obbligo dell’imprenditore di dotarsi di un assetto organizzativo “adeguato” risponde esclusivamente alla finalità di evitare che l’impresa incorra in una crisi che ne comprometta la continuità? Quali sono i soggetti effettivamente gravati di tale obbligazione? Ed ancora, quali i soggetti tutelati sul piano giuridico dalla stessa?
Quanto al primo interrogativo sussistono elementi testuali che militano decisamente contro una lettura riduttiva di questa previsione che intenda circoscriverne l’ambito di applicazione alle procedure volte a prevenire o governare la crisi d’impresa. Sebbene, infatti, detta previsione sia stata introdotta dal d.lgs. n. 14/2019, non può non apprezzarsi che la stessa abbia travalicato i confini del codice della crisi per modificare una norma del codice civile collocata nel titolo II del libro V, ed in particolare nel capo I e nella sezione I di questo titolo, le cui epigrafi recitano rispettivamente “dell’impresa in generale” e “dell’imprenditore”. La stessa epigrafe dell’art. 2086 c.c. è stato significativamente modificata dalla novella da “i collaboratori dell’imprenditore” in “la gestione dell’impresa”. Infine il disposto letterale del nuovo comma dell’art. 2086 c.c. precisa che l’impresa ha l’obbligo di dotarsi di un assetto organizzativo adeguato “anche in funzione della rilevazione tempestiva della crisi dell'impresa e della perdita della continuità aziendale”, chiarendo indirettamente - con il termine “anche” - che questa finalità non è certo l’unica che detto obbligo persegue e per cui rileva giuridicamente .
La delimitazione dell’ambito di applicazione dell’obbligo di un assetto adeguato al solo “imprenditore, che operi in forma societaria o collettiva” presuppone delle modalità di gestione dell’impresa caratterizzate da una (anche solo potenziale) dissociazione tra proprietà e amministrazione. Ciò tuttavia non è sufficiente per confinare la rilevanza giuridica di tale obbligo in seno al rapporto contrattuale intercorrente tra amministratori, gravati dallo stesso, e soci non-amministratori, beneficiati. Quest’ultimi, infatti, non sono certo i soli titolari di una posizione giuridica per la cui tutela rileva l’adeguatezza delle soluzioni organizzative adottate dall’impresa.
A ben vedere anche con i “collaboratori dell’impresa”, dei quali il primo comma dell’art. 2086 c.c. ribadisce la soggezione al potere direttivo esercitato da quest’ultima, intercorre un rapporto contrattuale in cui rileva giuridicamente, seppur in modo indiretto, l’assetto organizzativo dell’impresa.
La strumentalità dell’obbligazione di lavoro (subordinato, etero-organizzato o coordinato che sia) all’organizzazione dell’impresa è di tutta evidenza. Tant’è che autorevole dottrina giuslavoristica è giunta a qualificare il contratto di lavoro in termini di “contratto di organizzazione” , volto appunto a consentire all’imprenditore non solo di fruire della prestazione individuale del lavoratore, ma anche di conformarla all’organizzazione del processo produttivo di beni e servizi prescelto.
La relazione tra obbligazione di lavoro e potere organizzativo dell’imprenditore emerge ora persino con maggiore evidenza dalla disciplina del “lavoro etero-organizzato” introdotta dal legislatore all’art. 2 del d.lgs. n. 81/2015 e in quella del “lavoro coordinato e continuativo” da ultimo parzialmente modificata dalla legge n. 81/2017. Nel primo caso il lavoratore è di fatto vincolato a adeguare le modalità di prestazione della sua attività di lavoro alle costrizioni “esterne” dettate dalla mutevole organizzazione dell’impresa; e la soggezione a tale vincolo comporta l’applicazione a questo rapporto, seppur non eterodiretto in senso stretto, della medesima disciplina legale del lavoro subordinato . Nel secondo caso, per escludere quest’ultimo effetto o sanzione , i vincoli organizzativi dell’impresa che il collaboratore è obbligato a osservare nell’esecuzione della sua prestazione individuale devono esser oggetto di accordo preventivo tra le parti e non possono esser modificati unilateralmente dall’imprenditore .

2. Le conseguenze sistematiche nel rapporto tra impresa e lavoratori.

Lo strutturale collegamento tra prestazione di lavoro e organizzazione dell’impresa non giunge ad attribuire al lavoratore un diritto soggettivo direttamente giustiziabile e risarcibile alla “adeguatezza” dell’organizzazione d’impresa neppure dopo la novella dell’art. 2086 c.c.; questo obbligo dell’impresa rimane estraneo al rapporto contrattuale che intercorre con il lavoratore . Detta novella tuttavia introduce una condizione di legittimità che deve esser necessariamente soddisfatta dalle diverse soluzioni organizzative che l’imprenditore può legittimamente addurre a giustificazione degli atti di gestione del rapporto individuale di lavoro: in particolare, per l’adozione del licenziamento per giustificato motivo oggettivo ex art. 3 della legge n. 604/66, il trasferimento del lavoratore ad altra sede o l’assegnazione a mansioni e inquadramenti contrattuali inferiori ex art. 2103 c.c., il passaggio del lavoratore alle dipendenze di altra impresa cessionaria di un ramo aziendale ex art. 2112 c.c.
In tali casi il sindacato giudiziale è stato sinora circoscritto alla verifica della veridicità della soluzione organizzativa e della sussistenza di un nesso eziologico tra questa e l’atto gestionale che incide direttamente sulla posizione giuridica del lavoratore . Ora la nuova formulazione dell’art. 2086 c.c. impone di operare un ulteriore sindacato giudiziale circa la “adeguatezza” della soluzione organizzativa presupposta, giacché non si può certo ritenere che quest’ultima, ove risultasse contra legem per violazione del disposto dell’art. 2086 c.c., potrebbe esser egualmente elevata a motivo di giustificazione del conseguente atto gestionale in seno al rapporto contrattuale di lavoro .
Laddove l’ordinamento afferma nei termini generali e incondizionati che si ravvisano nell’art. 2086 c.c. l’antigiuridicità dell’adozione da parte dell’impresa di un assetto organizzativo inadeguato, tale antigiuridicità, sebbene non comporti una violazione di un diritto soggettivo del lavoratore che perfeziona un inadempimento contrattuale da parte del datore, preclude comunque che lo stesso assetto organizzativo – giudicato inadeguato e per questo illegittimo - possa assolvere a una qualche funzione “legittimante” in seno al rapporto di lavoro.
L’adeguatezza dell’assetto organizzativo dell’impresa, dunque, diviene condizione di legittimità anche degli atti gestionali dei rapporti di lavoro che ne conseguono ; si realizza una sorta di connessione unidirezionale assai simile a quella che intercorre tra atti di macro-organizzazione presupposti, da un lato, e atti di micro-organizzazione conseguenti, dall’altro, con riguardo ai lavoratori “contrattualizzati” alle dipendenze delle Pubbliche Amministrazioni.

3. La “oggettivazione” dei canoni di adeguatezza dell’assetto organizzativo dell’impresa.

Ma in che termini e secondo quali criteri gli assetti organizzativi dell’impresa devono esser “adeguati” per conformarsi al disposto dell’art. 2086 c.c.? Rispetto a quali interessi e/o a quali fini?
Per dare risposta a questi ulteriori interrogativi soccorrono gli approdi della dottrina commercialistica che ha iniziato a misurarvisi ben prima dell’entrata in vigore dell’art. 2086 c.c. novellato, quantomeno sin dalla riforma del diritto societario nel 2003 .
L’orientamento maggioritario non ha ritenuto che l’obbligo delle società di capitali di dotarsi di un assetto organizzativo adeguato abbia sovvertito la “business judgement rule”: l’iniziativa imprenditoriale non può essere giudizialmente sindacata con riguardo al merito delle sue strategie e degli obiettivi produttivi e/o commerciali perseguiti . Il vaglio giudiziale invece può, ed anzi deve, esser operato con riguardo alla “adeguatezza” dell’assetto organizzativo di cui l’impresa si è dotata per perseguirli secondo i canoni “oggettivi” elaborati dalle scienze aziendalistiche. Il canone dell’adeguatezza organizzativa è pertanto estraneo a considerazioni di sostenibilità sociale o ambientale dell’impresa, ma opera solo in termini di razionalità, coerenza e sufficienza dell’assetto organizzativo adottato rispetto alle (lecite) strategie aziendali.
Non è dunque per un accidente se il d.lgs. n. 14/2019, rispetto alla originaria proposta della Commissione Rodorf, abbia infine gravato dell’obbligo giuridico di adottare un assetto organizzativo “adeguato” soltanto “l'imprenditore, che operi in forma societaria o collettiva” . Si intende segnare una differenza tra l’impresa che coincide anche sul piano della soggettività giuridica con la persona dell’imprenditore e quella che ne è distinta. Quasi che in questo secondo caso la personalità giuridica dell’impresa consenta di astrarla dall’identificazione con l’imprenditore e di valutarne l’adeguatezza dell’assetto organizzativo secondo canoni “oggettivi”, e non già secondo il metro squisitamente “soggettivo” della rispondenza agli interessi e agli intenti personali dell’imprenditore-persona fisica . L’obiettivo imprenditoriale anche per l’impresa-persona giuridica rimane insindacabile, lo è invece l’assetto organizzativo prescelto e approntato per perseguirlo secondo i canoni elaborati dalle scienze economico-aziendalistiche dell’organizzazione dei fattori produttivi dell’impresa .
L’art. 2086 c.c. non ha, dunque, la portata “eversiva” di introdurre un generale divieto giuridico di “abuso di potere” che oneri l’impresa quale “autorità privata” o di diretta funzionalizzazione dell’attività imprenditoriale all’utilità sociale , come le elaborazioni dottrinali evocate da Pietro Ichino in apertura del convegno hanno tentato in passato di affermare nel nostro ordinamento e che sono ora rivivificate dal dibattito in sede eurounitaria sulla sostenibilità sociale dell’impresa .
Il sindacato di adeguatezza della scelta organizzativa deve piuttosto esser operato secondo criteri di “razionalità organizzativa” sostanzialmente analoghi a quelli di non arbitrarietà e non pretestuosità che la giurisprudenza della Cassazione ha già affermato di dover applicare (seppur mai realmente applicato) con riguardo all’ipotesi del licenziamento per un giustificato motivo oggettivo che consiste e si esaurisce nella soppressione della sola posizione organizzativa del lavoratore licenziato . L’art. 2086 c.c. offre ora a questo orientamento giurisprudenziale un saldo sostegno normativo per ampliare l’oggetto del sindacato giudiziale all’adeguatezza della soluzione organizzativa che costituisce il presupposto del conseguente licenziamento individuale e non limitarlo esclusivamente alla verifica della possibilità di utile ricollocazione del lavoratore nel contesto organizzativo dato in violazione dell’obbligo di repechage.
Così come il nuovo disposto dell’art. 2086 c.c. finisce per incidere anche sul controllo giudiziale da esercitarsi in merito alla legittimità dell’esternalizzazione di un ramo aziendale e la concessione in appalto da parte del cedente al cessionario dell’attività/servizio prima autoprodotta. Tale sindacato è tradizionalmente volto a verificare il dato “storico” della preesistenza del ramo ceduto; ora la novella appare condizionare la legittimità di una tale soluzione organizzativa all’adeguatezza della stessa rispetto al futuro piuttosto che al passato, richiedendo che il ramo ceduto risulti “adeguato” in termini organizzativi a consentire – quantomeno all’esito di una valutazione prognostica al momento della cessione – l’esercizio dell’attività d’impresa nel mercato e l’autosufficienza alla produzione e/o alla commercializzazione di servizi e/o di beni.
Se dunque l’ordinamento ha operato una “oggettivazione” dell’adeguatezza dell’assetto organizzativo dell’impresa, i criteri per sindacare l’effettiva sussistenza di una tale “adeguatezza” non possono esser rinvenuti dogmaticamente nei principi di diritto, ma – come detto – nei canoni “oggettivi” che possono trarsi dalle scienze di organizzazione aziendale. Assume quindi rilevanza centrale a tal fine non già il sistema valoriale che il Giudice rinviene nell’ordinamento positivo, quanto piuttosto la valutazione tecnico-peritale che ausiliari del Giudice esperti di organizzazione d’impresa possono offrirgli a supporto. Un ausilio cui sinora i Giudici, in particolare quelli del lavoro, sono stati tradizionalmente assai restii a ricorrere.

4. Le procedure di due diligence: misure di precauzione o di esonero della responsabilità dell’impresa?

L’adeguatezza dell’assetto organizzativo deve esser valutata sulla base di un giudizio prognostico alla luce delle condizioni date e conosciute dall’impresa ex ante, e cioè nel momento in cui ha adottato quell’assetto, e non già ex post alla luce degli effetti e degli sviluppi che sono effettivamente conseguiti all’adozione dello stesso . Ciò però non può ridurre tale obbligo dell’impresa esclusivamente a quello di assolvere quegli adempimenti procedimentali di due diligence che rispondono a finalità precauzionali e che sono “standardizzati” e verificati da specializzati soggetti privati in condizione di (presunta ) terzietà, primi tra tutti i modelli internazionali UNI ISO . Quasi che la prova da parte dell’impresa dell’assolvimento di tali oneri procedimentali, per lo più di natura documentale, sia di per sé sufficiente a soddisfare l’obbligo di cui all’art. 2086 c.c. e a sollevare l’impresa dall’imputabilità di qualsiasi responsabilità. Come purtroppo mi sembra stia accadendo nella prassi giudiziale con riguardo alla responsabilità penale dell’impresa ai sensi del d.lgs. n. 231/2001 o alla responsabilità degli amministratori ai sensi del d.lgs. n. 81/2008 in caso di infortuni sul lavoro , per cui l’osservanza dell’obbligo di approntare procedure di verifica precauzionale e di effettuare i relativi adempimenti documentali secondo standard comunemente applicati finisce spesso per divenire condizione sufficiente per escludere queste responsabilità, senza poi investigare in concreto anche l’effettiva adeguatezza ed efficacia di queste misure nel prevenire l’illecito o l’evento lesivo . Si corre così il rischio di elevare il rispetto degli obblighi di diligenza da misura precauzionale a esaustiva condizione di esonero da ogni responsabilità anche laddove l’evento dannoso che si dovrebbe prevenire si sia egualmente verificato, con esiti disfunzionali rispetto all’obiettivo dichiarato di assicurare una maggiore responsabilizzazione “sociale” dell’impresa .
Emerge con evidenza la concretezza di un tale rischio dalla Direttiva UE 2024/1760 sulla “Corporate Sustainability Due Diligence”, che ha modificato la Direttiva 2019/1937 e il regolamento 2023/2859. Questa direttiva ha l’ambizioso intendimento di responsabilizzare il soggetto appaltante “primario” con più di 1000 dipendenti e un fatturato di oltre 450 milioni di euro del rispetto dei diritti umani e di tutela ambientale (osservando le strategie per limitare il riscaldamento a 1,5 °C) in tutta la filiera di produzione di cui si avvale, nei confronti di altri soggetti controllati o semplicemente appaltatori, persino in territori al di fuori dell’Unione europea.
Si impone all’impresa “primaria” l’osservanza di una c.d. “conduct risk-based human rights and environmental due diligence”, attraverso la valutazione preliminare e l’adozione di misure di prevenzione, monitoraggio, consultazione e notificazione degli stakeholders, di procedure di compliance, di un codice di condotta, nonché l’assoggettamento a un sistema di controllo da parte di soggetti terzi (cfr. in particolare articoli 10 e 11) .
Si prevede che gli Stati membri debbano tassativamente prevedere sanzioni, anche economiche, effettive, proporzionate e dissuasive (con limite massimo non inferiore al 5% del fatturato mondiale dell’impresa primaria) in caso di inosservanza di questo impressionante apparato (tanto articolato quanto indeterminato) di misure precauzionali (cfr. articolo 27).
Colpisce, di contro, che quando la direttiva disciplina la responsabilità risarcitoria che grava l’impresa in via diretta nei confronti dei lavoratori impiegati nella filiera che hanno patito dei danni si preme di puntualizzare che tale responsabilità possa ricorrere solo a condizione che “la società non abbia ottemperato, intenzionalmente o per negligenza, agli obblighi di cui agli articoli 10 e 11”, che attengono esclusivamente agli oneri procedimentali con finalità precauzionali sopra sinteticamente indicati (cfr. articolo 29). Ne consegue che laddove la società dia prova di aver assolto questi oneri, ciò automaticamente la esoneri da ogni responsabilità.
Non mi pare auspicabile che tali criteri “procedimentali” di imputazione della responsabilità dell’impresa maturati nelle esperienze di common law vengano importati nel nostro ordinamento con modalità tali da elevarli a metro esclusivo di determinazione degli obblighi che devono essere osservati dall’impresa e – soprattutto – dell’onere di prova che deve essere soddisfatto dalla stessa per esser esonerata da qualsiasi responsabilità, anche di natura civilistica e risarcitoria, nei confronti dei lavoratori impiegati nella sua filiera.

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