testo integrale con note e bibliografia
1. Introduzione.
Il decent work, sul quale si è concentrata l’attenzione dell’unità milanese nell’ambito del progetto PRIN 2017 dal titolo “WORKING POOR N.E.E.D.S.: NEw Equity, Decent work and Skills’”, è da tempo al centro di molteplici iniziative sovranazionali, tra le quali si annoverano l’omonima Agenda dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL) del 1999 e la successiva Dichiarazione sulla Giustizia Sociale per una Globalizzazione Equa del 2008.
La promozione del decent work è stata pure posta quale specifico obiettivo – Sustainable Development Goal n. 8 – dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite per lo sviluppo sostenibile, sottoscritta nel 2015, riaffermata nel 2019, in occasione del Centenario dell’Oil, e ancora ribadita, nel contesto della transizione post-pandemica, dalla Comunicazione della Commissione Europea del 2022 sul lavoro dignitoso per una giusta transizione ed una ripresa sostenibile.
A valle dell’analisi di tali documenti, si può affermare che nella discussione sul decent work il momento politico prevale sicuramente su quello giuridico e, soprattutto, che il lavoro dignitoso non costituisce, al pari della – sotto molti aspetti speculare – figura del lavoro povero , una fattispecie produttiva di effetti a livello di diritto positivo (nazionale e non), bensì un imperativo di policy utile ad indirizzare ed orientare la regolazione in materia sociale (anche) a livello nazionale verso una prospettiva di affrancamento della persona che lavora, tanto da una soggezione all’altrui potere, quanto da uno stato di bisogno .
Nelle pagine che seguono si dialogherà con le studiose e con gli studiosi coinvolti nel menzionato progetto PRIN, dando conto delle articolate riflessioni racchiuse nel volume conclusivo della ricerca e delle preziose sollecitazioni ricevute in occasione dell’iniziativa convegnistica svoltasi a L’Aquila l’8 novembre 2024.
2. Il profilo soggettivo
Come ha puntualizzato Alessandro Boscati, è la stessa Costituzione a predicare, con l’art. 35 Cost., di perseguire una prospettiva olistica di protezione del lavoro: se quest’ultimo risulta, infatti, meritevole di tutela “in ogni forma e applicazione”, il campo di applicazione soggettivo delle guarentigie lavoristiche non può rimanere limitato al lavoro svolto in regime di subordinazione .
Altrettanto può dirsi con riguardo alla libertà religiosa sul luogo di lavoro, considerato che, come ha rilevato Jlia Pasquali Cerioli , i concetti che guidano la riflessione attorno al decent work dall’angolo visuale dello studioso di Law and Religion sono quelli di identità, dignità, pluralismo e uguaglianza, in un contesto in cui, nella stessa lettura del Giudice delle leggi, il principio supremo di laicità si pone a sostegno della massima libertà di tutti.
D’altro canto, come ha rimarcato Tiziana Vettor , anche nelle fonti europee si persegue l’obiettivo di garantire un’esistenza dignitosa alle lavoratrici e ai lavoratori e a tutti coloro che non dispongono di risorse sufficienti, secondo il canone, evidentemente trasversale, della dignità.
Ancora, come messo in luce da Caterina Timellini ,si rinvengono interessanti tracce della tensione universalistica verso la promozione del lavoro dignitoso in alcuni recenti interventi del legislatore italiano in materia di compenso minimo , di sicurezza sul lavoro , di trasparenza delle condizioni di lavoro.
3. Il profilo oggettivo
Il decent work è, inevitabilmente, una nozione a contenuto variabile, in quanto esso rappresenta un traguardo mobile che affonda le proprie radici nel valore trascendente della dignità umana.
È al contempo interessante notare che, come opina Alessandra Sartori, dallo stesso diritto penale si potrebbero ricavare alcune indicazioni di policy utili a circoscrivere il perimetro della nozione in parola.
Nel momento in cui tra gli indici del reato di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro ex art. 603-bis c.p. il legislatore ha inserito, al comma 3, le ripetute violazioni della normativa in materia di compenso minimo, di orario di lavoro, di controllo sulla prestazione, di salute e igiene sul lavoro, si potrebbe sostenere che tali guarentigie afferiscano proprio a quel “nucleo” di diritti della persona considerati inviolabili dallo stesso legislatore, sempre a prescindere dalla qualificazione del rapporto contrattuale con il datore di lavoro o con il committente delle relative prestazioni di lavoro .
Invero, l’emersione di nuove istanze sociali chiama ad una sempre maggiore interazione, se non proprio ad un approccio integrato, tra il diritto del lavoro e altre branche del diritto, dal diritto commerciale (si pensi, ad esempio, al tema della sostenibilità ambientale e sociale dell’attività di impresa affrontato nella direttiva 2024/1760/UE – c.d. due diligence) alla normativa in materia di protezione dei dati personali (Reg. 2016/679/UE), sempre più spesso evocata innanzi ai giudici del lavoro, nell’ambito di controversie che hanno ad oggetto le condotte scarsamente trasparenti, se non discriminatorie, perpetrate dalle (recte, attraverso le) tecnologie che si “nutrono” dei dati – anche – delle lavoratrici e dei lavoratori.
D’altro canto, è innegabile come l’imperativo di preservare la centralità della persona che lavora si riveli di particolare attualità proprio in riferimento ai rischi di “disumanizzazione” che discendono dall’incessante avanzamento del progresso tecnologico .
4. Appunti di metodo e uno sguardo verso il futuro del lavoro (dignitoso)
Volendo indugiare sul rapporto tra persona e tecnologia, si è già osservato che l’imperativo del decent work è di promuovere la libertà – non dal, bensì – attraverso il lavoro, sul presupposto per cui quest’ultimo costituisca uno (se non il principale) strumento di emancipazione sociale dell’individuo.
Appare sin troppo evidente la rilevanza di tale affermazione rispetto allo sviluppo dell’intelligenza artificiale, la quale, che, secondo le letture più pessimistiche, rischierebbe di condurre alla perdita di molti posti di lavoro, se non, addirittura, alla “fine del lavoro”.
A fronte di ciò, risulta quindi quanto mai pressante la necessità di individuare uno strumento che, nel prisma del binomio libertà-dignità del lavoro (e, in apicibus, della persona), possa fungere da rimedio contro la temuta disoccupazione tecnologica .
Non pare che, a tali fini, si possa agevolmente rintracciare un miglior mezzo della formazione , la quale, non per nulla, è espressamente menzionata all’art. 4 dell’AI Act (disposizione che, mette conto evidenziare, è entrata in vigore già il 2 febbraio 2025, a conferma della centralità della tematica all’interno del Regolamento 2024/1689/UE), che pone significativamente in capo tanto ai fornitori, quanto agli utilizzatori dell’AI un obbligo di literacy (alfabetizzazione) del proprio personale in materia di intelligenza artificiale.
Si può allora giungere a concludere che la formazione, peraltro non solo in tema di AI, costituisce la più solida garanzia contro l’obsolescenza professionale ed il mezzo più efficace di prevenzione della sostituzione dell’uomo con una macchina sempre più “intelligente”.
Per quanto sia oggi arduo sostenere che la formazione partecipi della causa del contratto di lavoro (al di fuori, naturalmente, dei contratti di lavoro a causa mista), derivando piuttosto da specifici e circoscritti obblighi di legge (ad esempio, in materia di sicurezza) o di matrice contrattuale (collettiva e individuale), il quadro in futuro potrebbe evolvere proprio in ragione dell’esigenza di assicurare una – non solo “dignitosa”, ma addirittura – fruttuosa convivenza tra uomo e tecnologia. Quest’ultima, del resto, è e deve rimanere sempre a servizio dell’uomo, secondo la prospettiva antropocentrica perseguita dalla più regolazione europea dell’intelligenza artificiale, così come, naturalmente, dal diritto che dal lavoro prende il nome .