testo integrale con note e bibliografia
La questione del lavoro casalingo è esplosa in America negli anni ’60 del Novecento. Fu con l’uscita di La Mistica della femminilità (1963) ad opera dell’attivista e pubblicista Betty Friedan, che si mise a fuoco la costrizione sociale al lavoro casalingo come la causa principale del malessere senza nome, che vivevano le donne americane bianche del ceto medio da quando era finita la seconda guerra mondiale e gli uomini avevano ripreso i loro posti di lavoro produttivo. In quell’occasione, infatti, si era affermata una mentalità che, identificando senza residui e senza ragioni – appunto misticamente – la femminilità con la maternità, intesa nella sua mera dimensione biologico-riproduttiva, pretendeva che le donne si dedicassero esclusivamente alle occupazioni legate al ruolo della casalinga e madre di famiglia.
Devastanti e controproducenti furono però gli effetti di una simile strumentalizzazione ideologica del femminile attraverso il lavoro riproduttivo. L’ideologia della mistica della femminilità minava la capacità stessa delle donne a concepire la propria identità personale come autonoma e originale, spingendole a intendersi unicamente come moglie e madre di qualcuno. Friedan documenta il dilagare tra le donne bianche del ceto medio dell’insoddisfazione, della noia, delle nevrosi con conseguente ricorso allo psichiatra, agli psicofarmaci, all’abuso di alcool. Molte, orientate dai mass-media a pensarsi come professioniste del lavoro domestico, arrivavano a vivere le faccende ossessivamente, allungando inconsciamente il tempo ad esse dedicato per colmare il senso di inutilità che le assaliva quando non erano impegnate. Anche il rapporto con i congiunti era dominato da una logica compensativa delle energie inespresse, che rendeva le relazioni talmente soffocanti da indurre nei figli patologie simbiotiche e nei mariti la fuga dalla famiglia. Inoltre, l’assegnazione alle donne di un'identità ridotta al solo ruolo sessuale-riproduttivo, assolutamente non adeguato a soddisfare tutte le aspettative di una persona, come si evince dalla piramide dei bisogni di Abraham Maslow, comportò una generale tendenza all’evasione dall’unità coniugale.
Furono le femministe della cosiddetta “seconda ondata” (1968-1980) ad approfondire la questione del lavoro casalingo, decostruendone il concetto ed evidenziandone l’origine “artificiale”.
Silvia Federici documenta con molto rigore i motivi che, tra la fine del XIX secolo e i primi decenni del XX, condussero, in Inghilterra e negli Stati Uniti, i governi e i datori di lavoro ad avviare, con la connivenza dei lavoratori maschi, riforme del lavoro, che trasformarono non solo fabbriche e uffici, ma soprattutto la posizione sociale delle donne. Si trattava, infatti, in quegli anni, di migliorare la vita dei lavoratori così da renderli più sani e robusti, cioè più qualificati a reggere la produttività richiesta dalla cosiddetta Seconda Rivoluzione Industriale, in cui le principali fonti di accumulazione capitalistica non risiedevano più nell’industria leggera tessile ma in quella pesante dell’acciaio, del ferro e del carbone. Poiché la qualità della vita dei lavoratori, impiegati nella produzione, dipende dal lavoro “riproduttivo”, che è considerato naturale appannaggio delle donne e a titolo gratuito, si puntò a inventare, per la famiglia operaia divenuta nucleare, l’inedita figura della “casalinga a tempo pieno”. Tale figura fu imposta socialmente tramite provvedimenti che, mentre allontanavano le donne, soprattutto le madri, dai posti di lavoro produttivo, relegandole nella dimensione privata, aumentavano i salari degli uomini per renderli adeguati a sostentare una casalinga “non lavoratrice”, seppure dotata delle competenze e mansioni di un’“operaia della casa”.
Alla riflessione femminista non sfuggì che in tale dipendenza del lavoro casalingo femminile dall’unico salario maschile era all’opera un sessismo che sanciva la doppia subordinazione delle donne al capitalismo e al patriarcato.
Quando, con la ristrutturazione post-fordista del lavoro, il salario maschile non riuscirà più a controllare l’intero ciclo riproduttivo e la famiglia nucleare basata sul modello “un salario per due lavori” entrerà in crisi, cambierà anche lo slogan di riferimento, passando da: “un salario (maschile), due lavori” a: “una donna, un salario, due lavori”, in riferimento alla nuova attualità di doppio lavoro femminile, casalingo ed extra-casalingo; fino alla forma: “due donne, due lavori, ma un solo salario da condividere”, dove si annuncia la salarizzazione della riproduzione su base etnico-razziale.
La formula della “doppia presenza”, coniata da Laura Balbo nel 1978, registra la crescente partecipazione al lavoro extra-familiare da parte di quelle nuove generazioni di donne che, a fronte di una scolarizzazione più elevata, ricercano una più consona soddisfazione professionale, condannando alla scomparsa la figura della casalinga full-time.
Nel mercato del lavoro, però, il regime occupazionale femminile a doppia presenza vale come lavoro a tempo parziale, nella misura in cui la donna porta sempre con sé l’altro suo lavoro a tempo parziale, quello familiare, e non lo lascia mai. Per questo, il post patriarcato neoliberista si sente autorizzato a praticare l’inclusione differenziale di partenza, assegnando alla maggior parte delle donne, che lavorano fuori casa, le posizioni più basse, meno remunerate, meno assicurate, più precarie, nei servizi, in alcuni settori del pubblico impiego quale l’insegnamento e nelle occupazioni “femminili”! Per questo, specie in assenza di un welfare adeguato come in Italia, le donne hanno più difficoltà degli uomini a costruirsi una carriera, a sfondare il soffitto di cristallo, a tornare al lavoro dopo il primo figlio o a trovarlo di nuovo dopo la pandemia da covid.
La concettualizzazione del modello della doppia presenza ha portato, tuttavia, alla luce la complessità dell’identità femminile e la peculiarità del “modo di produzione femminile”, denso di potenzialità perché capace di attraversare dimensioni tra loro profondamente diverse quali il tempo interiore della soggettività, i tempi della cura e dell’affettività, il tempo del mercato.
Coniugando l’acquisita consapevolezza della capacità di doppia presenza femminile con la metodologia del “partire da sé” e la convinzione che “il personale è politico”, si è comunque aperta per le donne – e per gli uomini che sempre più numerosi sperimentano le difficoltà di conciliare lavoro e vita e aspirano a vivere un’antropologia ricca – la possibilità concreta di considerare il lavoro casalingo in una prospettiva più adeguata perché sperimentale ed extra-ideologica. Il cosiddetto lavoro casalingo, infatti, è ormai divenuto un prisma dalle molteplici sfaccettature e dimensioni. Esso si è rivelato inclusivo tanto di un livello “produttivo”, isolabile e suscettibile di remunerazione come quando sia svolto da collaboratrici/ori familiari o badanti o assistenti domiciliari o operatrici/ori della cura, quanto di un livello “familiare” implicante dimensioni di affettività non monetizzabile – coniugale, genitoriale, filiale, amicale – che configurano il compito di “far trovare buona la vita”, come diceva Sibilla Aleramo, da svolgere nella piena corresponsabilità e compartecipazione di donne e uomini. Questa è la nuova frontiera dell’umano in azione che si apre dalla riflessione sull’evoluzione del lavoro casalingo!