TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA
1. La proposta di direttiva relativa a salari minimi adeguati nell’Unione europea: portata, finalità e base giuridica
La proposta di direttiva europea sul salario minimo adeguato costituisce un deciso passo avanti nella politica sociale europea2 ma poco innova il panorama italiano esistente le cui specifiche problematiche non sono né prese in considerazione né risolte. In questa prospettiva, i DDL in cantiere (v., ad esempio, DDL 12.7.2018 sul salario minimo orario, proposto dalla on. sen. Catalfo et al.; DDL 11.3.2019 sulla giusta retribuzione, salario minimo e rappresentanza sindacale pro- posto dall’on. sen. Nannicini et al.), che affrontano il tema del riordino della contrattazione col- lettiva, della giusta retribuzione e del salario minimo (legale e contrattuale), pongono le basi di un percorso più avanzato che merita di essere proseguito.
L’assunto di fondo della direttiva, largamente ispirato dalla ETUC, è che nei paesi in cui il salario minimo è determinato dalla contrattazione collettiva (Austria, Cipro, Danimarca, Finlan- dia, Italia e Svezia) si ha “una percentuale inferiore di lavoratori a basso salario, salari minimi più elevati rispetto al salario mediano, minori diseguaglianze salariali e salari più elevati”. “Il salario minimo contrattuale è bello”, si potrebbe dire con uno slogan. Il meccanismo fondato sulla contrattazione collettiva va pertanto preservato, tutelato, incentivato e promosso, garanten- done la stabilità, il buon funzionamento e l’estensione ai settori scoperti (v. considerando 18).
Il problema si pone, invece, nei paesi in cui vige il salario minimo legale (21 su 27 paesi), che non sempre risponde al requisito della adeguatezza specie laddove esso viene determinato unila- teralmente dai Governi, senza un effettivo coinvolgimento delle parti sociali.
La ratio sottesa sembra duplice: da un lato, intervenire sul corretto funzionamento del mercato del lavoro e sul problema del dumping salariale tra stati membri: il salario orario mediano in Danimarca è pari a 25 Euro, in Germania 15,70, in Francia 14, in Italia 12,50, in Polonia 4,30, in Romania 2,00 (media UE 13,20)4; dall’altro lato, affrontare con decisione il tema del lavoro po- vero (working poor) in drammatica crescita all’interno dell’Unione5.
La base giuridica viene individuata, con un’“audace interpretazione”6, nell’art. 153.5 del TFUE che pure prevede che l’Unione non abbia competenze, tra l’altro, in materia di “retribu- zioni”; né tali competenze possono essere ampliate, sul piano interpretativo, ricorrendo alla CDFUE o al Pilastro sociale (v. nt. 4). Tuttavia, a parere della Commissione, la norma è sostan- zialmente rispettata poiché la Proposta di direttiva non contiene “misure che hanno un’incidenza diretta sulle retribuzioni” come avverrebbe qualora si fosse scelto di stabilire un salario minimo europeo7. Il discorso è estremamente tecnico. Probabilmente sarebbe stato più semplice fare rife- rimento alle norme che disciplinano l’esercizio delle libertà economiche, al pari di quanto avviene nella direttiva distacco8. Del resto, la finalità della direttiva sui salari minimi adeguati non è di- sciplinare la materia retributiva a livello europeo, ma garantire che la concorrenza tra stati membri e il libero esercizio delle libertà economiche all’interno del mercato unico si svolga su basi di equità e giustizia sociale. E’ risultata tuttavia decisiva l’insistenza della ETUC di individuare la base giuridica nel Titolo X del TFUE, dedicato alla “Politica sociale”, anziché nel Titolo dedicato al mercato interno.
Tra gli obiettivi della proposta vi è, in particolare, quello di: “migliorare le condizioni di vita
e di lavoro, anche attraverso salari minimi adeguati” poiché è ormai sempre più evidente che “work no longer pays”, “migliorare l’equità del mercato del lavoro dell’UE”, fare sì che la con- correnza nel mercato unico si basi “su innovazione e miglioramenti della produttività, come pure su standard sociali elevati”, e non più solo sulle differenze nei costi del lavoro, lottare contro la povertà e le disuguaglianze crescenti spingendo verso l’alto i livelli retributivi.
Come realizzare tali obiettivi? La Commissione individua due principali strumenti. Anzitutto, la promozione ovunque della contrattazione collettiva che ha dimostrato, nei paesi in cui essa ha un’elevata copertura (il riferimento è ai paesi nordici) e anche dove coesiste con il salario minimo legale (il riferimento è qui alla Germania e alla Francia)10, di produrre salari minimi più elevati e adeguati e ridurre le disuguaglianze (p. 3). In secondo luogo, con riguardo soltanto ai paesi in cui sono in vigore salari minimi legali, tra i quali specialmente quelli dell’Est, l’obiettivo è garantire che si creino le condizioni affinché questi siano fissati a livelli “adeguati” (p. 3), così evitando che diventino uno strumento politico di concorrenza sleale e dumping. Il tutto nel rigoroso rispetto delle tradizioni e delle specificità degli Stati membri.
Sorge qui un primo interrogativo: l’assunto di fondo da cui prende le mosse la direttiva – il salario minimo contrattuale è bello, va promosso e tutelato – si adatta sino in fondo alla situazione italiana? In Italia, al pari dei paesi nordici, la retribuzione minima è fissata dalla contrattazione collettiva nazionale, con una copertura che si attesta intorno all’80% (un dato che tuttavia va accuratamente monitorato e verificato), e non dalla legge; nondimeno, il problema della crescita del lavoro povero, dei “sotto-minimi” e dei “contratti pirata” costituisce una triste realtà11 tanto da spingere la dottrina a chiedersi se davvero la contrattazione collettiva possa ancora svolgere le funzioni di “autorità salariale”12. In altri termini, negli ultimi anni è diventato sempre più evidente come il contatto collettivo nazionale stia diventando, al pari del contratto aziendale, uno strumento di concorrenza tra imprese e fatichi a svolgere appieno la sua funzione tradizionale che è, all’op- posto, quella di sottrarre il costo del lavoro dal gioco della concorrenza.
2. (Segue) Il contenuto: disposizioni comuni e disposizioni applicabili ai soli Stati membri in cui esiste il salario minimo legale.
Le disposizioni della direttiva possono essere distinte in due gruppi: quelle comuni e orizzon- tali che si riferiscono a tutti gli Stati membri; quelle che riguardano, invece, solo gli Stati membri in cui esiste attualmente il salario minimo legale.
Anzitutto, cosa si intende per “adeguatezza” del salario? Una risposta si ricava dall’art. 5 che, pur se riferibile solo al gruppo degli Stati membri in cui esiste il salario minimo legale, ne offre una generale definizione: è adeguato il salario che consente di “conseguire condizioni di vita e di lavoro dignitose, coesione sociale e una convergenza verso l’alto”. Un concetto che richiama da vicino uno dei due parametri sanciti dall’art. 36 Cost. che stabilisce che la retribuzione del lavo- ratore deve essere, oltre che “proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro”, “in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”. Ulteriori elementi si trovano nel considerando 21 in base al quale i salari minimi sono adeguati se “sono equi rispetto alla distribuzione salariale del paese e se consentono un tenore di vita dignitoso”. Il parametro qualitativo è a sua volta integrato da un parametro quantitativo – indicato dalla ETUC – per cui, in linea generale, si considera equo un salario orario minimo pari al 60% del salario lordo mediano e al 50% del salario lordo medio. Da notare che, in Italia, il salario mediano lordo è pari a 12,46 Euro (Istat 2017). Il 60% è pari a 7,47 Euro. Una cifra piuttosto bassa. Non è però chiaro se l’ISTAT abbia considerato la distinzione esistente tra il salario minimo orario parametrato sui minimi tabellari del CCNL e il salario minimo orario parametrato sul trattamento economico complessivo (che comprende il rateo di 13°, 14° ed eventualmente TFR, che può essere sensibil- mente più alto del primo): una distinzione che emerge anche dal raffronto tra i DDL in discus- sione13. Cosa intendiamo per salario orario lordo?
La finalità della direttiva si possono ricavare dal considerando 15 – garantire che i salari mi- nimi siano fissati ad un livello adeguato e che i lavoratori abbiano effettivo accesso al salario minimo legale o contrattuale – e dai considerando 18 e 19 – rafforzare la solidità, il buon funzio- namento e l’ampia copertura della contrattazione collettiva per rafforzare l’accesso dei lavoratori al salario minimo stabilito da quest’ultima –.
Tra le disposizioni comuni, l’art. 2 circoscrive l’ambito di applicazione ai workers, espressione che, nel diritto dell’Unione, comprende sostanzialmente i lavoratori subordinati o i “falsi lavora- tori autonomi”, cioè i lavoratori che, a prescindere dal nomen iuris che le parti hanno dato al contratto, forniscono, “per un certo periodo di tempo, a favore di una di esse e sotto la direzione di quest’ultima, prestazioni in contropartita delle quali riceva[no] una retribuzione”14 ovvero, secondo un diverso criterio, sono stabilmente integrati, per la durata del rapporto, nell’impresa nel cui interesse svolgono la propria attività15.
Nel nostro ordinamento tale concetto sembra dunque riferibile ai lavoratori subordinati (art. 2094 c.c.) ma anche ai collaboratori etero-organizzati (art. 2, d.lgs. n. 81/2015) ai quali non per caso la legge prevede si applichi la disciplina del lavoro subordinato (salve diverse previsioni ad opera di una contrattazione collettiva particolarmente “qualificata”)16.
L’art. 4 costituisce il cuore della Direttiva e, in linea con i considerando 18 e 19, prevede l’importanza della promozione della contrattazione collettiva sulla determinazione dei salari all’interno degli Stati membri, specialmente a livello settoriale e intersettoriale. Al comma 2 è previsto uno sforzo supplementare per gli Stati membri “in cui la copertura della contrattazione collettiva è inferiore al 70%”: previsione che, come visto, non sembra attualmente riferibile alla situazione italiana dove il tasso di copertura si attesta intorno all’80%. Da notare, tuttavia, la formulazione ampiamente generica della disposizione che nulla prevede circa la necessaria sele- zione del contratto collettivo sulla base, ad esempio, dell’effettiva rappresentatività delle parti stipulanti (sindacati e associazioni imprenditoriali). È questa una forte critica che è stata sollevata anche dall’ETUC: la contrattazione collettiva garantisce effettivamente i salari solo allorquando sia condotta da soggetti collettivi effettivamente e genuinamente rappresentativi degli interessi riferibili ad un determinato gruppo di lavoratori. Resta però significativo il fatto che, dopo anni in cui la Commissione europea aveva spinto verso il decentramento contrattuale (basti ricordare il testo della lettera a firma di Mario Draghi e Jean Claude Trichet inviata al Primo ministro ita- liano il 5 agosto 2011)17, al livello «settoriale o intersettoriale» venga restituito il ruolo principale, quantomeno sotto il profilo che attiene alla determinazione della retribuzione minima adeguata.
Ulteriore interrogativo è quali CCNL debbano essere presi in considerazione al fine di calco- larne la soglia di copertura (superiore o inferiore a 70): solo quelli stipulati dalle organizzazioni maggiormente rappresentative? L’art. 4 deve essere collegato all’art. 10, disposizione comune orizzontale in materia di monitoraggio e raccolta dati, che impone agli Stati membri di incaricare le rispettive autorità competenti di monitorare sia la copertura sia l’adeguatezza dei salari minimi legali o contrattuali: norma che richiederà una specifica attuazione. Tra le autorità competenti viene naturale considerare il CNEL che sta svolgendo un importante lavoro in quest’ambito18.
In base all’art. 10 e ai considerando 15, 18 e 19 può inoltre ritenersi esistente un preciso invito rivolto a tutti gli Stati membri a monitorare e ad intervenire, con sforzi supplementari, qualora i salari minimi contrattuali risultino non adeguati ovvero la ricognizione faccia emergere settori non coperti dalla contrattazione collettiva, in cui i salari presumibilmente scendono ben al di sotto dei minimi e si aggrava il problema del lavoro povero. Nel caso dall’Italia, si stima che i settori non coperti riguardino una percentuale compresa tra il 10 e il 20% dei lavoratori19. L’intervento non dovrà consistere necessariamente nell’introduzione del salario minimo legale, ma dovrà ten- dere a correggere i “fallimenti” del sistema contrattuale, rafforzandone la solidità e il buon fun- zionamento (art. 4, considerando 18, 19).
Tra le disposizioni comuni “orizzontali” un’importanza centrale assume poi la norma sugli appalti pubblici (art. 9) nella quale è previsto l’obbligo degli Stati membri, in conformità alle direttive 2014/24/UE, 2014/25/UE e 2014/23/UE, di adottare misure adeguate a garantire “che gli operatori economici, nell’esecuzione di appalti pubblici o contratti di concessione, si conformino ai salari stabiliti dai contratti collettivi per il settore e l’area geografica pertinenti e ai salari minimi legali, laddove esistenti”. In proposito, può subito osservarsi come la norma sia, da un lato, imprecisa poiché le direttive citate si riferiscono alla vecchia versione della Direttiva distacco (Dir. 96/71/CE) che fa formalmente riferimento solo ai minimi previsti dalla legge o da un con- tratto collettivo efficace erga omnes, che non esiste in Italia; dall’altro lato, poco o nulla innovi rispetto al panorama legislativo italiano in cui il codice degli appalti già contiene alcune impor- tanti norme anti-dumping finalizzate a fare sì che al personale impiegato in un appalto pubblico si applichi il contratto collettivo nazionale e territoriale “in vigore per il settore e per la zona nella quale si eseguono le prestazioni di lavoro stipulato dalle associazioni dei datori e dei prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale e quelli il cui ambito di ap- plicazione sia strettamente connesso con l’attività oggetto dell’appalto o della concessione svolta dall’impresa anche in maniera prevalente” (art. 30, co. 4, d.lgs. n. 50 del 2016). In altri termini, la legge italiana già impone all’appaltatore l’obbligo di applicare il contratto leader, nell’ambito del settore e della zona geografica in cui si eseguono le prestazioni, quale condizione per l’affi- damento dell’appalto. Certo, l’art. 9 ha il non trascurabile pregio di mettere definitivamente al riparo tale disposizione normativa da censure di incompatibilità con il diritto dell’Unione (v. infra§ 5).
Il capo II della direttiva, rubricato “Salari minimi legali”, contiene disposizioni riferibili ai soli Stati membri in cui esiste un salario minimo legale enunciando quali condizioni devono essere soddisfatte e quali criteri devono essere seguiti affinché tali salari possano dirsi adeguati “al fine di conseguire condizioni di vita e di lavoro dignitose, coesione sociale e una convergenza verso l’alto” (art. 5). Va detto che, come si legge nell’Impact Assessment del 28 ottobre 2020, la Com- missione parte dal presupposto che nella maggioranza degli Stati membri in cui è previsto un salario minimo legale, esso si collochi al di sotto di una soglia di adeguatezza e, cioè, sia inferiore al 60% del salario mediano e al 50% del salario medio21. I criteri enunciati per garantire l’ade- guatezza dei salari sono diversi: il potere di acquisto dei salari minimi, tenuto conto del costo della vita, dell’incidenza delle imposte e delle prestazioni sociali; il livello generale dei salari lordi e la lordi e la loro distribuzione; il tasso di crescita dei salari lordi; l’andamento della produttività del lavoro. L’art. 6 prevede la possibilità di introdurre deroghe particolari per “specifici gruppi di lavoratori”, nel rispetto dei principi di non discriminazione proporzionalità, ragionevolezza, le- gittimità; è inoltre consentito operare “trattenute per legge che riducono la retribuzione versata ai lavoratori portandola ad un livello inferiore a quello del salario minimo legale”, purché le trattenute risultino necessarie, obiettivamente giustificate e proporzionate: una disposizione que- sta particolarmente adatta ai paesi in cui sia presente un elevato cuneo fiscale e previdenziale. L’art. 7 istituisce un sistema minimo di governance fondato sulla partecipazione e il coinvolgi- mento delle parti sociali nella determinazione dei minimi, delle variazioni, nella raccolta e nel monitoraggio, mentre l’art. 8 rafforza una tutela effettiva del diritto alla retribuzione minima ade- guata imponendo anche un rafforzamento dei controlli e delle ispezioni.
In conclusione, la direttiva, seppure costituisca un passo importante a livello europeo, poco o
nulla innova rispetto al panorama italiano non affrontando né risolvendo alcuni dei principali problemi che in Italia fanno sì che, in molti casi, la retribuzione minima stabilita dalla contratta- zione collettiva, nel concreto, sia troppo vicina alla soglia di povertà. Da questo punto di vista, sarà importante evitare che, per paradosso, la direttiva, che stabilisce una sorta di equazione tra meccanismo contrattuale e adeguatezza del salario minimo, possa costituire un freno rispetto al più avanzato dibattito parlamentare degli ultimi anni.
3. I problemi aperti: in Italia la contrattazione collettiva garantisce attualmente sa- lari adeguati? Dai “contratti pirata” ai “contratti monstre”.
È ormai un dato acquisito, ampiamente studiato dalla dottrina e oggetto anche di alcune im- portanti proposte legislative (v. il DDL a prima firma dell’on. Catalfo e il DDL a prima firma dell’on. Nannicini), che l’elevata frammentazione delle sigle sindacali e delle associazioni dato- riali unitamente alla moltiplicazione incontrollata del numero di contratti collettivi nazionali, pas- sati nel giro di pochi anni da 580 (2013) a 935 (giugno 2020)22, non garantiscano più in tutti i casi retribuzioni minime proporzionate e sufficienti a garantire al lavoratore e alla sua famiglia un’esi- stenza libera e dignitosa, come previsto dall’art. 36 Cost.23
Questo senza nemmeno considerare il problema dei lavoratori esclusi da qualsiasi copertura contrattuale: emblematico il caso dei riders ma anche di molti lavoratori autonomi freelance che, ad esempio nel settore dell’editoria, dichiarano in media 15.000 Euro all’anno24. Il fenomeno del lavoro povero, va tenuto a mente, tocca oggi il lavoro autonomo tanto se non più del lavoro su- bordinato.
Ancora, alcuni CCNL, pur firmati da organizzazioni sindacali di indubbia rappresentatività, garantiscono salari minimi troppo bassi e troppo vicini alla soglia della povertà. Emblematici i casi, assai discussi anche in giurisprudenza, del CCNL multiservizi e del CCNL vigilanza e servizi fiduciari che fissano la retribuzione minima oraria lorda rispettivamente a circa 6,52 e 6,16 Euro (con un salario orario netto inferiore a 4 Euro). Con riferimento al CCNL vigilanza e servizi fi- duciari, firmato da Filcams-CGIL e Fisascat-Cisl, il Tribunale di Torino ha affermato: “benché sia tratta dai minimi tabellari di un CCNL firmato dalle organizzazioni sindacali comparativa- mente più rappresentative, una retribuzione sensibilmente inferiore al tasso-soglia di povertà assoluta individuato dall'Istat ed ai livelli retributivi previsti per posizioni professionali analoghe da altri CCNL non può considerarsi conforme ai principi di proporzionalità e di sufficienza ri- cavabili dall’art. 36 Cost.”25. Più di recente, anche il Tribunale di Milano ha ritenuto tale CCNL apertamente in contrasto con l’art. 36 Cost.26
Le ragioni per cui la contrattazione collettiva nazionale in Italia, in alcuni casi, fallisce il suo principale obiettivo sono note e si possono così sintetizzare: 1) l’elevato cuneo fiscale; 2) la fram- mentazione delle sigle sindacali e datoriali che, nel rispetto della libertà e del pluralismo, consente a sigle poco rappresentative di negoziare il prezzo del lavoro al ribasso, alimentando la concor- renza sleale e il dumping salariale (c.d. “contratti pirata”); 3) l’incontrollata moltiplicazione dei CCNL, firmati anche da sigle rappresentative, dovuta all’incontrollata moltiplicazione e sovrap- posizione delle categorie contrattuali o degli ambiti di applicazione. Per tali ragioni, la maggior parte della dottrina concorda che sia urgente affrontare le questioni (1) della misurazione della rappresentatività sindacale e (2) della definizione dei perimetri delle categorie sulla base di ele- menti più oggettivi e meno discrezionali.
L’individuazione dei criteri di rappresentatività sindacale è una tema ormai arato nella dot- trina, nella legislazione e nella giurisprudenza. Basti pensare all’esperienza dei “contratti pirata” nel settore delle cooperative di cui si occupa l’art. 7, co. 4, d.l. n. 248 del 200727. D’altra parte, anche nell’individuazione dei contributi minimi previdenziali, l’INPS già utilizza quale retribu- zione da assumere come base di calcolo quella non inferiore “all’importo delle retribuzioni sta- bilito da leggi, regolamenti e contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni sindacali più rap- presentative su base nazionale” (v. art. 1, co. 1, l. n. 389/1989)28. A dimostrazione del fatto che non vi sono, in tale ambito, reali problemi di compatibilità tra intervento legislativo e art. 39, co. 1 Cost. e che il problema è semmai quello della misurazione della effettiva rappresentatività nell’ambito della categoria.
La questione di più difficile soluzione attiene alla perimetrazione delle categorie a fronte, come detto, della crescita incontrollata e costante del numero di CCNL e del peso crescente assunto da alcuni CCNL di carattere trasversale e onnicomprensivo, i c.d. “contratti monstre” dal “campo di applicazione omnibus”29 (emblematico il CCNL multiservizi e il CCNL servizi fiduciari e vigi- lanza). Tali contratti, anche quando sono stipulati da sigle indubbiamente rappresentative, sono in grado di fare concorrenza al ribasso, in senso trasversale, ad altri CCNL vigenti in settori ne- vralgici come l’edilizia, l’industria alimentare, la logistica, l’igiene ambientale. Qui la selezione dei soggetti contrattuali sulla base del criterio della rappresentatività può non essere sufficiente; occorre effettuare una ricognizione dei perimetri delle categorie, come sottolineato nel Patto della Fabbrica e nel DDL a prima firma Nannicini, combinando il principio tradizionale per cui l’indi- viduazione delle categorie è rimessa esclusivamente alla volontà dei soggetti contrattuali (criterio volontaristico soggettivo)30 con criteri dotati di maggiore oggettività31.
Occorre in sostanza recuperare l’art. 2070 c.c., che ricollegava la determinazione della cate- goria alla “attività effettivamente esercitata dall’imprenditore”: norma considerata implicitamente abrogata in seguito alla soppressione del regime corporativo ma di recente in parte recuperata sia dal Codice dei contratti pubblici (art. 30, co. 4) sia dal DDL a prima firma Catalfo. Ma sullo “strano” destino di molte norme corporative si potrebbe a lungo discutere. Perché, ad esempio, la giurisprudenza considera abrogato l’art. 2070 c.c. ma continua a fondare il principio della preva- lenza del contratto collettivo sul contratto individuale sull’art. 2077 c.c., di matrice chiaramente corporativa? Perché l’art. 2601 c.c. – in base al quale “l’azione per la repressione della concor- renza sleale può essere promossa anche dalle associazioni professionali e dagli enti che rappre- sentano la categoria” – è ritenuto a tutt’oggi vigente tanto dalla giurisprudenza, quanto dalla dottrina pur richiamando esplicitamente sia il concetto di categoria corporativa sia quello della rappresentanza legale delle associazioni professionali?
4. (Segue) Quale spazio per un salario minimo legale? Le proposte parlamentari e il problema della crescita del lavoro autonomo povero.
La valorizzazione della contrattazione collettiva, nel rispetto della Proposta di direttiva, non esclude naturalmente l’utilità dell’introduzione di un salario minimo orario legale32.
Il DDL a prima firma Catalfo propone una soglia minima uguale per tutti, che sembra doversi considerare parametrata sul trattamento economico complessivo, pari a 9 Euro all’ora al lordo degli oneri contributivi e previdenziali. La soglia non è di per sé altissima se considerata riferibile al trattamento economico complessivo (comprensivo di rateo di 13°, 14°). Sulla base di una re- cente indagine, solo i settori della vigilanza, del multiservizi e del terziario risultano avere una retribuzione oraria minima inferiore (rispettivamente 7,07, 7,59 e 8,64)33. Il punto debole della proposta sembra risiedere nel fatto che non sono previsti né dei criteri né dei parametri sulla base dei quali arrivare a determinare tale cifra, né viene istituito un sistema di governance in grado di garantire a tale intervento normativo concrete prospettive di stabilità nel futuro. Per contro, come visto, la direttiva impone agli Stati membri in cui esiste un salario minimo legale, in primo luogo, di introdurre dei criteri nazionali sulla base dei quali arrivare a determinare il salario minimo adeguato che devono essere definiti “in modo chiaro e stabile” ed essere periodicamente aggior- nati (art. 5); in secondo luogo, di creare e istituire un sistema di governance fondato sul coinvol- gimento delle parti sociali, sulla falsa riga dei modelli tedesco e francese34. In questa prospettiva, il DDL a prima firma Catalfo, che pure presenta disposizioni di grande interesse (riprendendo alcune tecniche sperimentate dal Codice dei contratti pubblici per risolvere i problemi della rap- presentanza e della perimetrazione delle categorie), potrebbe presentare profili di incompatibilità rispetto agli artt. 5 e 7 della direttiva.
La proposta contenuta nel DDL a prima firma Nannicini è quella di introdurre invece un “sa- lario minimo di garanzia” solo nei settori non coperti da CCNL35. Al di là della diversità della scelta politica di fondo, è di particolare interesse l’art. 2 che prevede l’istituzione di un sistema di governance che appare conforme agli articoli citati e utile per rafforzare la solidità e il buon fun- zionamento del sistema contrattuale.
Un salario minimo orario legale “di garanzia” potrebbe inoltre fungere da importante comple- mento della contrattazione collettiva spingendo verso l’alto i minimi contrattuali anche nei settori coperti dal CCNL. Se il minimo contrattuale risulta inferiore al minimo legale operante per pre- stazioni analoghe non coperte dal CCNL, difficilmente un giudice potrebbe ritenerlo conforme ai parametri della sufficienza e della proporzionalità stabiliti dall’art. 36 Cost. Questo senza abban- donare tuttavia il sistema contrattuale di determinazione del salario minimo che, come visto, è dalla direttiva valorizzato e preferito rispetto al sistema legale.
In questa direzione appare spingersi il Piano nazionale di ripresa e resilienza che prospetta, in termini invero piuttosto vaghi, la necessaria introduzione del salario minimo legale per «per i lavoratori non coperti dalla contrattazione collettiva nazionale, a garanzia di una retribuzione pro- porzionata alla quantità e qualità del lavoro svolto e idonea ad assicurare un’esistenza libera e dignitosa» (p. 90 del documento).
Vi è poi una questione che non risulta affrontata né dai DDL citati né dalla direttiva che ha un ambito di applicazione circoscritto al solo lavoro subordinato ed eventualmente etero-organiz- zato. Oggi il problema del lavoro povero tocca in modo drammatico anche e specialmente il la- voro autonomo genuino. In quest’ambito occorre avviare una duplice riflessione.
In primo luogo, occorre chiedersi se non sia giunto il momento di riconoscere finalmente il diritto alla contrattazione collettiva anche ai lavoratori autonomi genuini ma che operano in un settore o mercato all’interno del quale non godono di un effettivo potere negoziale, superando il problema della asserita incompatibilità tra contrattazione collettiva nel lavoro autonomo e con- correnza. D’altra parte, al pari del diritto di sciopero, il diritto di negoziare collettivamente le condizioni di lavoro, stabilendo una soglia minima al di sotto del quale non è possibile scendere, si ricollega non ad uno specifico contratto né alla condizione di subordinazione tecnico-funzionale ma ad una situazione di soggezione economia e vulnerabilità che può colpire una certa categoria di lavoratori nel mercato e in presenza della quale il ricorso alla coalizione risulta giustificato socialmente ed economicamente in base agli artt. 3 e 35 della Costituzione.
Non c’è ragione di negare al lavoratore autonomo, la cui attività, a differenza dell’impresa, conserva carattere prevalentemente personale e resta riferibile ad una “persona” (v. art. 2222 c.c.), il ricorso allo strumento del contratto collettivo quando ciò sia necessario per il perseguimento di “obiettivi di politica sociale”36 che includono il miglioramento delle condizioni di lavoro e il ri- stabilimento di una condizione di uguaglianza sostanziale, messa a repentaglio dalla diseguale distribuzione dei poteri economici di mercato.
Si tratta di un punto che anche nell’Unione europea, dove sino ad oggi il lavoratore autonomo è stato ostinatamente equiparato all’impresa, si sta finalmente riconsiderando37 e che è stato chia- rito e sottolineato dal Comitato europeo dei diritti sociali (CEDS)38.
La questione di più difficile soluzione attiene alla “misurazione” della situazione di sogge- zione e disuguaglianza economica che giustifica il ricorso al contratto collettivo e la sua esenzione dal diritto della concorrenza (labour exemption). Si tratta di una verifica che potrebbe essere af- fidata all’Autorità garante della concorrenza e del mercato (AGCM) e condotta con una metodo- logia case by case. Potrebbe qui risultare utile l’impiego congiunto di requisiti qualitativi e quan- titativi: ad esempio, il livello di compensi mediamente molto basso corrisposti in un determinato settore economico e l’esistenza di reali possibilità di reperire sul mercato alternative soddisfacenti (v. art. 9, l. n. 192 del 1998; art. 3, co. 4, l. n. 81 del 2017).
Deve però osservarsi che, nel lavoro autonomo, non è facile ricorrere alla contrattazione col- lettiva come dimostrano i rapporti di alcune delle principali associazioni di riferimento. ACTA, ad esempio, ha sottolineato la difficoltà di utilizzare tale strumento in molti settori pur caratteriz- zati da una drammatica crescita del fenomeno del working poor, poiché l’interlocutore negoziale è spesso frammentato ed evanescente e non è semplice convincerlo a sedersi al tavolo delle trat- tative. Per tali ragioni, l’introduzione di un salario minimo legale o, meglio, l’introduzione di parametri generali, che potrebbero essere espressi anche attraverso percentuali o prendendo spunto da esperienze straniere quali la Low Pay Commission britannica, per valutare l’adegua- tezza del compenso del lavoro autonomo, appare in prospettiva auspicabile.
5. (Segue) Il dumping contrattuale negli appalti (pubblici e privati): verso la riscoperta della parità di trattamento?
Come detto, l’art. 9 della direttiva non necessita di particolare attuazione nell’ordinamento italiano. I requisiti richiesti – l’obbligo dei pubblici appaltatori di conformarsi ai salari stabiliti dai contratti collettivi per il settore e l’area geografica pertinenti – sono già soddisfatti dal Codice dei contratti pubblici (D.lgs. n. 50/2016) e, in particolare, dall’art. 30, co. 4, in base al quale “al personale impiegato nei lavori, servizi e forniture oggetto di appalti pubblici e concessioni è applicato il contratto collettivo nazionale e territoriale in vigore per il settore e per la zona nella quale si eseguono le prestazioni di lavoro stipulato dalle associazioni dei datori e dei prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale e quelli il cui ambito di ap- plicazione sia strettamente connesso con l’attività oggetto dell’appalto o della concessione svolta dall’impresa anche in maniera prevalente”.
La disposizione normativa costituisce un deciso passo avanti nella lotta al dumping contrat- tuale negli appalti pubblici e l’art. 9 della proposta di direttiva ha il pregio di fugare ogni dubbio circa la sua compatibilità con il diritto dell’Unione e, in particolare, con la dir. 2014/24/UE39. Ciò non significa che non permangano delicati problemi non affrontati né dalla proposta di direttiva né dai DDL citati40.
Ad esempio, larga parte della dottrina concorda sul fatto che le norme che impongono all’ap- paltatore o affidatario l’applicazione del contratto leader vigente nella zona e nel settore merceo- logico che presenta maggiori connessioni con l’oggetto dell’appalto (art. 30, co. 4 e art. 105, co. 9) non riescono del tutto nell’intento di sottrarre il costo del lavoro dal gioco della concorrenza41. Infatti, da un lato, restano sempre possibili scostamenti rispetto alle tabelle ministeriali che indi- viduano il costo medio orario del lavoro negli appalti (il trattamento minimo) previsto dai cosid- detti contratti leader nei diversi settori; dall’altro lato, la giurisprudenza amministrativa ha sotto- lineato a più riprese l’esigenza di salvaguardare la libertà di impresa dell’appaltatore che si tra- duce nella libertà di scelta del contratto collettivo da applicare fermo restando il limite di legge della coerenza con l’oggetto dell’appalto.
Ma una crescente preoccupazione solleva il fenomeno del dumping contrattuale nelle filiere di produzione e nelle catene degli appalti che riguarda tanto il settore pubblico quanto quello privato. Nel settore pubblico, i vincoli imposti al ricorso al subappalto dall’art. 105 del Codice dei contratti pubblici non sembrano sortire risultati significativi. In particolare, non impediscono all’appalta- tore principale di spezzettare il servizio di cui è titolare affidandolo a subappaltatori che applicano un CCNL diverso, pur se sempre coerente con l’oggetto dell’appalto; ciò consente un significativo risparmio sulle retribuzioni ma crea disparità di trattamento difficilmente tollerabili dai lavoratori che si trovano a svolgere mansioni simili o analoghe nell’ambito dello stesso ciclo produttivo. Ancora una volta, sono specialmente i CCNL multiservizi e servizi fiduciari, anche stipulati dalle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative, ad alimentare la concorrenza al ribasso, offrendo alla libertà di impresa uno strumento perfetto per abbassare il costo del lavoro nella filiera. Un vero paradosso: il contratto collettivo nazionale perde la sua anima dichiaratamente anticoncorrenziale e diventa strumento di concorrenza e di dumping.
Per fare qualche esempio, nel caso dei musei e degli ospedali è prassi frequente quella di affi- dare i servizi di portierato in appalto e in subappalto con la conseguente applicazione del CCNL
vigilanza e servizi fiduciari, che permette di risparmiare decine di migliaia di Euro ogni anno43. Si tratta di prassi probabilmente in via di superamento a fronte degli orientamenti giurispruden- ziali più recenti che, come visto, giungono persino a disapplicare la retribuzione stabilita in tale CCNL perché incompatibile con l’art. 36 Cost.
Di grande interesse è poi il caso dell’igiene ambientale dove il CCNL multiservizi può risultare parzialmente sovrapponibile – basti pensare al fatto che molte imprese che operano nel settore si definiscono società «Multiutility»44 – e meno costoso del CCNL igiene ambientale: il primo pre- vede una retribuzione oraria minima pari ad Euro 6,52 (lordi) vs. gli 11 Euro circa del secondo. Accade così che, ad esempio, nell’ambito della filiera dei rifiuti, il trasporto e lo smaltimento vengano subappaltati ad un soggetto diverso che applica ai propri dipendenti il CCNL multiser- vizi anziché il CCNL igiene ambientale (Fise-assoambiente), con importanti differenze nel trat- tamento retributivo45. L’elevata (e intollerabile) disparità di trattamento tra lavoratori che operano nell’ambito di un medesimo ciclo produttivo e sono spesso a contatto tra loro crea inevitabilmente scontento e alza il livello del conflitto con grave nocumento per la collettività e per i cittadini che si vedranno erogato un servizio non conforme agli standard attesi. È un tema che chiama in causa anche la responsabilità degli enti pubblici committenti (i Comuni), su cui incombe quantomeno un dovere di vigilanza rispetto al corretto svolgimento del servizio pubblico affidato e alla sua conformità a standard qualitativi, quantitativi ma anche sociali così da ridurre il rischio dell’in- sorgere di conflitti che possono danneggiare la collettività.
Si deve notare che, come in molti settori, anche nell’igiene ambientale la contrattazione collettiva ha escogitato diverse tecniche per limitare tale fenomeno: l’art. 8, co. 1, lett. h, del CCNL Fise-Assoambiente prevede il divieto di «subappalto dei servizi ambientali aggiudicati». Tuttavia, il divieto può venire “aggirato” dalle previsioni contenute nelle convenzioni stipulate con le sta- zioni appaltanti che consentono al gestore di avvalersi di soggetti terzi «per l’esecuzione di sin- gole attività strumentali all’erogazione del servizio gestione rifiuti»46 con la difficoltà di distin- guere sul piano interpretativo tra servizi di gestione rifiuti e attività che possono considerarsi strumentali a tali servizi (ad esempio il trasporto e lo smaltimento).
L’uso del CCNL multiservizi come strumento di dumping contrattuale nelle filiere è fenomeno noto e diffuso anche nel settore privato. Emblematico è il caso della filiera delle carni e più, in generale, dell’industria alimentare del modenese (celebre il caso Italpizza) il cui modello di pro- duzione si fonda sul massiccio ricorso ad appalti e subappalti, a bassa intensità aziendale e ad alta intensità di lavoro, e sulla concorrenza al ribasso tra CCNL diversi ma parzialmente sovrapponi- bili, caratterizzati da elevati differenziali retributivi: nell’industria alimentare, la retribuzione lorda oraria minima prevista dal CCNL (non inclusiva del rateo di 13° e 14°) è pari ad Euro 8,80 contro i 6,52 Euro del multiservizi.
Specialmente nel settore alimentare e in quello della logistica, la contrattazione collettiva ha escogitato interessanti soluzioni per arginare il fenomeno delle esternalizzazioni “al ribasso”: una delle più significative consiste nell’inserimento di clausole volte a vietare appalti aventi ad og- getto attività troppo a ridosso del core business dell’impresa leader48 ovvero che prevedono, nel settore della logistica, l’obbligo di affidare le operazioni solo ad imprese che applichino il mede- simo CCNL e un radicale divieto di subappalto con riferimento a determinate attività al fine di governare “fenomeni di illegalità diffusi” e garantire il pieno rispetto della normativa49. Di grande interesse è, infine, la proposta di arrivare ad una «contrattazione inclusiva» incentrata sull’inno- vativo concetto di «comunità di sito» nel cui ambito ricomprendere «lavoratrici e lavoratori alle dirette dipendenze dell’azienda sia dipendenti di ditte terze appartenenti ad altri settori produttivi e ad altre aree contrattuali, che svolgono attività di supporto alla produzione»50.
Una soluzione alle problematiche descritte, qui esposta in modo sommario e incompleto, po- trebbe essere rappresentata, da un lato, dall’introduzione del salario minimo legale che proprio nell’ambito degli appalti, pubblici e privati, potrebbe portare a risultati significativi consentendo di sottrarre con maggiore decisione il costo del lavoro dal gioco della libera concorrenza tra im- prese51; dall’altro lato, si potrebbe recuperare la vecchia regola della parità di trattamento negli appalti da eseguirsi all’interno delle aziende che era prevista dall’art. 3, l. 1369/1960, successiva- mente abrogata (regola che, d’altra parte, già esiste nella somministrazione)52.
La nozione di “appalto interno” potrebbe essere ridefinita e riperimetrata alla luce di quella di “comunità di sito” che, d’altra parte, richiama per certi aspetti l’“impresa di gruppo” studiata e sperimentata con riferimento gruppi di imprese per dimostrare come, al di là della formale se- parazione soggettiva tra le diverse imprese che compongono il gruppo, sia possibile ricostruire una comune attività economica organizzata funzionalmente destinata alla realizzazione di un in- teresse comune, condiviso o “di gruppo”. L’obbligo di parità di trattamento economico e norma- tivo dovrebbe in altri termini riferirsi a tutti i dipendenti delle imprese che compongono la filiera direttamente impegnate nel ciclo produttivo essenziale alla realizzazione dell’opera o del servizio ovvero adibiti allo svolgimento di compiti riconducibili al core business dell’impresa leader: ad esempio, il confezionamento e l’imbottigliamento dei prodotti nell’industria alimentare, il tra- sporto e lo smaltimento dei rifiuti nell’igiene ambientale. Ne resterebbero invece escluse quelle
imprese che svolgono attività che si collocano tradizionalmente all’esterno del ciclo produttivo essenziale o del “normal course of the business”.