1. Una nuova frontiera nella concezione del lavoro
Dopo anni in cui ci arrabattiamo, peraltro con poco successo, a sottrarre il lavoro alla requisizione economicistica moderna, oggi aggravata in senso tecnologico-algoritmico, per reimmetterlo nell’ambito dell’interalità antropologica e ontologica, è forse arrivato il momento di capovolgere il punto di vista sul lavoro, provando a partire, nel nostro ormai imprescindibile tentativo di ridefinizione culturale, non più dalla considerazione del lavoro come contrapposto, emancipato e preponderante rispetto alle altre componenti dell’uomo e dell’essere stesso, ma portando piuttosto l’attenzione su quelle emergenti soggettività e situazioni di vita in cui il lavoro si mostra nella sua multiforme pervasività di trascendentale della realizzazione ovvero di indispensabile “fare intermedio” tra uno scopo intenzionato (non importa se a livello individuale o collettivo) e il suo divenir-reale.
Potrebbero così trovare conferma sia l’analogicità del lavoro, rilevata da Jules Vuillemin nel 1949 e riproposta recentemente nel motto di Amy E. Wendling, «labor is said in many ways» sia l’originaria e radicale onnipresenza del lavoro nella vita dell’uomo, la cui legge di sviluppo, come insegna l’antropologia novecentesca, è quella dell’immediatezza mediata .
Da una tale visione dilatata e integrale del lavoro potrebbe forse più facilmente delinearsi la via da percorrere per conseguire un armoniosa ricontestualizzazione ontologica e antropologica del tipo di lavoro ridotto alla sua esclusiva dimensione economicistico-tecnicistica, che la Modernità ha “inventato” e dal quale la nostra autocoscienza è tuttora invasa.
Ciò è tanto più necessario in quanto, fin dagli anni ‘80 del Novecento, studiosi insigni della società del lavoro quali Ralph Dahrendorf , André Gorz , Jeremy Rifkin , Dominique Méda , Ulrich Beck hanno segnalato non solo che il lavoro nell’accezione moderna di lavoro remunerato e socialmente assicurato/organizzato stava tramontando, ma anche che esso quale “fatto sociale totale” della civiltà occidentale moderna, per usare un’espressione sintetica di Marcel Mauss , portava con sé, nel declino, le idee guida, le istituzioni, le organizzazioni economiche e politiche, le identità culturali della società del lavoro .
In effetti, mentre evidenti e marcate sono le trasformazioni occorse nei fatti al lavoro, che è diventato 4.0, oltre che deregolamentato e flessibile, brancoliamo nel buio delle proiezioni utopiche quanto alla visione dell’assetto socio-politico ed economico, che potrebbe emergere in Occidente dalle ceneri del lavoro moderno e della società del lavoro ad esso connessa .
2. Da Max Scheler indagini rivelatrici
Tale difficoltà immaginativa e progettuale era ben presente a Max Scheler, che già nel primo Novecento, aveva colto la strutturale problematicità antropologica, connessa con la pretesa del lavoro moderno di capovolgere il mondo del telos e funzionalizzarlo al mezzo esecutivo .
Nelle fasi iniziali di tale processo di capovolgimento, a partire dalla cosiddetta Zunftrevolution (=rivoluzione della Gilda) tardomedioevale , con l’ascesa delle corporazioni delle arti e dei mestieri al governo delle città, l’affermazione del lavoro sulle altre attività sociali, aveva determinato un significativo miglioramento delle condizioni materiali di vita ma, nel tempo, l’effetto del processo di capovolgimento delle posizioni di mezzi e fini era stato devastante. Da un lato, si era andato producendo lo snaturamento del lavoro, che da mezzo per la realizzazione di fini a sé esterni, si era configurato quale finalizzatore a sua volta; dall’altro, era avvenuta la progressiva implosione della soggettività che un tale lavoro aveva generato allo scopo di soddisfare la propria «volontà di potenza e di lavoro rivolta alla natura» .
Fu nelle società liberali ottocentesche che il lavoro, auto-finalizzato e divenuto fine in sé, portò a compimento la delegittimazione del compito, proprio di volontà soggettive, di pianificare i processi lavorativi altrimenti anarchici. Nella visione del Liberalismo, infatti, il finalismo ottimizzatore del lavoro sociale nel mercato fu internalizzato nella struttura degli istinti dei singoli soggetti, per cui «chi ‘lavorava’ solo per sé, già con questo, senza fare nulla di più, dava forma a uno stato ‘ottimale’ della società», in quanto «una misteriosa forza cooperativa» finalizzante si dispiegava già nel ‘lavorare’ .
Si avverava così la maledizione del lavoro moderno, che tuttora “divora” le soggettività e le irretisce con la sua illimitata potenza ed efficacia produttiva, al punto che esse gli funzionalizzano l’intera loro capacità di porre fini e di volgere all’incremento di essere le dinamiche esecutive apparentemente così ben auto-organizzate.
Per questo, lo scenario di antropologia del lavoro, che abbiamo oggi davanti agli occhi, non è in fin dei conti sostanzialmente diverso da quello dei secoli passati XVIII-XIX-XX. Nonostante le radicali trasformazioni avvenute nell’assetto economico, politico e sociale, nonostante la dichiarata fine del lavoro moderno e l’avanzata del lavoro 4.0, ci troviamo ancora a non saper rispondere alla domanda, che già Max Scheler si era posto nel 1899: chi deve a questo punto imporre al lavoro e all’economia e alla tecnica, sedicenti auto-finalizzati, un piano oggettivo di fini che faccia volgere le forze produttive del lavoro all’incremento dell’essere, oltre che dell’avere? .
3. Dalla pandemia un nuovo orizzonte per il lavoro
Gli effetti della pandemia e delle misure di contenimento del contagio sull’organizzazione del lavoro possono aiutarci a rispondere a quella domanda, nella misura in cui hanno portato allo scoperto nuove soggettività che vivono la relazione al mondo e al lavoro secondo una dimensione che è prioritariamente personale e che tendenzialmente ricolloca il lavoro in senso economico e non, nella sua posizione adeguata di mezzo universale per la realizzazione di intenzioni e scopi soggettivi.
The European Workforce Survey 2020, svolta dall’agenzia di servizi alle imprese Deloitte Italia dopo il primo lockdown, ha individuato, per esempio, una inedita “resilient workforce”, che è stata capace di attingere a qualità etiche personali quali auto-organizzazione, flessibilità, responsabilità, cooperazione e solidarietà, per fronteggiare la generale interruzione del consolidato sistema organizzativo esterno, con risorse individuali e soggettive.
Già in precedenza, inaugurando l’approccio morfogenetico agli studi sociali, Margaret S. Archer, sociologa dell’Università di Warwick (UK), attualmente attiva presso la Scuola Politecnica Federale di Losanna (Svizzera), aveva colto nell’evoluzione sociale tardo moderna una intensificazione della morfogenesi sociale e una corrispondente riduzione della morfostasi sociale , per l’attivarsi di soggettività non più caratterizzate dall’autoreferenzialità lavoristica del soggetto moderno ma piuttosto relazionali. Tali soggettività sono dotate di una riflessività che prende base su una nuova consapevolezza di essere in relazione reciproca con il proprio contesto sociale, perciò le decisioni personali, pur maturate in una conversazione interiore, risultano di originario segno non solipsistico né di mero dominio; gli stessi corsi di azione scelti in base ai propri ultimate concerns non sono esclusivamente individualistici come non lo è il loro cammino nel mondo che, anche nei percorsi di tipo professionale, parte da un sé relazionale .
Ugualmente, Pierpaolo Donati, già ordinario di sociologia all’Università di Bologna, assumendo la prospettiva di una “sociologia relazionale”, da lui teorizzata fin dal 1983, ha potuto rilevare che, dalla crisi attuale del lavoro tradizionale, stanno effettivamente emergendo «nuovi fenomeni lavorativi, che hanno qualità e proprietà causali irriducibili a quelle degli elementi costitutivi» e, soprattutto, mostrano in atto una inedita autocomprensione del soggetto lavoratore come «soggetto personale di formazioni sociali reticolari» .
Ma è Alain Touraine a compiere una indagine approfondita su quello che considera il nuovo soggetto emergente, le donne, e a identificarne le caratteristiche che fin da subito lo abilitano a realizzare quel cambio di prospettiva culturale, da cui il lavoro e la stessa società del lavoro potrebbero uscire rigenerati .
4. Il soggetto femminile al lavoro.
Tra il 2004 e il 2006, Touraine, nell’ambito del suo seminario alla Scuola di Studi Superiori in Scienze Sociali e con il finanziamento del Comune di Parigi, ha coordinato il lavoro di un gruppo di ricercatori che hanno effettuato 60 interviste individuali e condotto 3 gruppi di discussione formati, in una prima fase, da donne di diversa origine e appartenenza, affiancate da alcuni uomini e, in una seconda fase, solo da donne di religione musulmana.
Le domande cui le intervistate erano sottoposte concernevano il ruolo delle donne nel mondo globalizzato del post-femminismo, ma dalle loro risposte tutte convergenti nell’affermazione: «Io sono una donna, io costruisco me stessa in quanto donna attraverso la mia sessualità» , si è materializzata una soggettività inedita e insospettata, che bypassava le polarizzazioni delle conquiste moderne e femministe, in nome di una volontà e capacità di libera attuazione e realizzazione, «orientate alla creazione di sé attraverso la ricomposizione del mondo» , senza ricadute in nostalgie pre-moderne o derive decostruzionistiche post-moderne.
Le donne, intervistate nell’ambito della ricerca condotta da Touraine, esprimono, infatti, una «volontà di soggettivazione e di autoaffermazione» ben diversa dalla volontà di potenza e di lavoro del soggetto moderno e addirittura insperata dopo le sue vicende.
La donna-soggetto «non è una dea o una statua […] non fluttua al di sopra delle battaglie»; essa è «un essere umano che gestisce (con difficoltà) i rapporti tra i suoi ruoli sociali, di cui non può disfarsi, la sua esperienza biologica inseparabile dal legame con i figli, la relazione con un essere amato, che sia dello stesso sesso o meno, e infine il suo rapporto con se stessa, quel riconoscimento (recognition) di sé che è fondamentale per ogni processo di costruzione di sé» .
La donna-soggetto è «più attenta all’essere che agisce che non al mondo sul quale esercita la sua azione» e per questo delinea «un mondo in cui l’essere umano diventa il fine di se stesso invece di mobilitarsi solo per ottenere più denaro, potere, celebrità o qualsiasi altro genere di bene simbolico o materiale» .
Con ciò le donne si giovano della recente fase riflessiva della modernizzazione , per praticare uno specifico autorovesciamento femminile della Modernità, per cui «la conquista del mondo si trasforma in costruzione di sé, mentre tutti i giudizi sul mondo diventano ambivalenti e spingono a prendere le distanze dalla “politica” ovvero da tutte le strategie di gestione di un mondo in permanente trasformazione» .
Soggetti umani vivi ed effettivamente eccedenti i loro «ruoli sociali attraverso l’esperienza della vita che prende forma» in loro , le donne, vanno concretamente ritessendo la trama di un’esperienza collettiva e individuale lacerata dal modello europeo e maschilista di modernizzazione lavoristica. La loro è un’opera di ecologia politica secondo il principio della costruzione di sé, che inaugura il nuovo modello culturale del “partire da sé” , della cui invenzione le donne sono protagoniste perché «hanno rappresentato la categoria umana più concretamente e totalmente dominata» .
5. Valorizzare l’approccio al lavoro delle nuove soggettività
Nel mondo del lavoro occidentale e non, tutto ciò deve ancora essere metabolizzato .
Specie in Italia, abbiamo a che fare con le problematiche della piena occupazione femminile, della difficoltà delle donne a fare carriera e conquistare posizioni apicali, del superamento del Gender Wage Gap.
Il lavoro femminile subisce la segregazione settoriale, perché si applica a settori con retribuzione inferiore, come quelli dell’istruzione e della cura alla persona, anziché ai settori cosiddetti STEM; è frenato dal soffitto di cristallo nel raggiungimento di posizioni di potere; è, soprattutto, alla radice discriminato dal punto di vista del Work Life Balance.
Il tempo dedicato dalle donne al lavoro retribuito è in media inferiore a quello degli uomini, mentre sono più occupate in mansioni non remunerate.
In totale, le donne lavorano di più nell’arco della giornata e non hanno tempo per soggiornare in quella “stanza tutta per sé”, individuata da Virginia Woolf , in quell’otium, che sembra essere condizione indispensabile per intraprendere e migliorare le loro carriere lavorative.
Nel 2020 il Boston Consulting Group ha pubblicato una ricerca intitolata Lightening the mental load that holds women back, che ha interessato 6500 lavoratori dipendenti in 14 paesi, dalla quale risulta che, oltre al lavoro casalingo materiale, è soprattutto l’indelegabile lavoro mentale di organizzazione delle vite degli altri, l’avere in testa le necessità di tutti e il coordinarle, a far salire al 75% la percentuale di lavoro casalingo totale a carico delle donne, che rappresenta il deterrente principale allo sviluppo di ottimali carriere femminili extra-casalinghe.
C’è da aggiungere che un numero crescente di uomini, (padri separati, disoccupati, single), si trova a vivere ormai una rilevanza del lavoro casalingo analoga a quella che si dispiega nella condizione femminile.
Tali uomini, come le donne, da un lato, si accorgono che assumersi l’onere della cura casalinga comporta penalizzazioni del lavoro fuori casa e dell’ “avere” che ne può conseguire ma, dall’altro, sperimentano il vantaggio impagabile di una desiderata riappropriazione del lavoro nell’ambito della assiologia della vita personale quotidiana.
Anche questa è, infatti, pervasa dal lavoro, nella misura in cui vi si portano continuamente a realizzazione intenzioni e scopi, percorrendo quell’ultimo segmento esecutivo che conduce la prassi al suo termine realizzativo ; qui si tratta, però, di lavoro che ha recuperato la sua ampiezza e radicalità di trascendentale della realizzazione, infatti è immediatamente “comandato” dalla persona e non ridotto a servire esclusivamente l’auto-finalizzazione tecnico-economica del lavoro socialmente organizzato.
Nella cornice di una tale volontà di riappropriazione del lavoro da parte di soggetti la cui priorità è diventata ben-vivereassume senso anche il fenomeno della cosiddetta Great Resignation – una delle “pandemic epiphanies” elencate da Anthony Klotz della Texas A&M University – ossia lo straordinario aumento di dimissioni volontarie da parte dei lavoratori statunitensi, che sembra si stia in parte verificando anche da noi.
Sarebbe un errore epocale limitarsi a normalizzare questa ondata di trasformazione che attraversa l’intera società del lavoro e di cui il capitale umano sembra ergersi a protagonista.
Sarebbe inutile, per esempio, accontentarsi di varare provvedimenti assistenzialistici, che consentano alle donne di lavorare fuori casa nella stessa misura e con gli stessi compensi degli uomini o ai giovani di accedere ad apprendistati che preludano a lavori stabili e adeguatamente retribuiti: infatti, senza una concomitante virata tendenziale da parte di tutti, comprese le istituzioni economiche, politiche e sociali, nella direzione del nuovo orizzonte di senso che già soggettività impersonano, come la pandemia ha contribuito a rendere esplicito e manifesto, ciò risulterebbe in breve tempo insostenibile, inserendosi in contesti le cui priorità continuerebbero ad essere quelle, dalle quali le nuove soggettività hanno preso le distanze.
Per diventare assetti reali stabili, le nuove tendenze socio-culturali, che si profilano rispetto al lavoro, non richiedono soltanto riforme settoriali e assistenzialistiche di corto respiro; in primo luogo esse reclamano un rivolgimento di lungo termine che di decennio in decennio edifichi un’autentica post-modernità, nella quale soltanto potranno avverarsi le prospettive delle nuove soggettività in atto, che vogliono riportare il lavoro alla vita e con ciò aprirsi all’avvento di una nuova stagione, in cui l’idea scheleriana di «uomo globale» (All-Mensch), che «contiene in sé come esplicitamente attive tutte le sue possibilità essenziali» , potrà nuovamente storicizzarsi in «un massimo relativo, nell’aver parte a tutte le forme più elevate dell’esistenza umana» .