Le conseguenze sanzionatorie della violazione del principio di tempestività della contestazione disciplinare, alla luce dell’ art. 18 della legge n. 300 del 1970, come modificato dalla l. n. 92 del 2012 - nota a Cass. Sezioni Unite 27 dicembre 2017 n. 30985
Testo Integrale con note e bibliografia testo della sentenza
1. La vicenda processuale. 2. L’ordinanza interlocutoria. 3. La tempestività della contestazione disciplinare. 4. La giurisprudenza della Corte di Cassazione sull’art. 18 previgente. 5. La necessaria qualificazione del vizio nel regime del nuovo art. 18 . 6. La soluzione delle Sezioni Unite. 7. Altri profili di rilevanza dell’arresto.
1. La vicenda processuale.
Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, nella sentenza n. 30985 del 27 dicembre 2017, hanno affrontato la problematica relativa all’individuazione delle conseguenze sanzionatorie derivanti dalla violazione da parte del datore di lavoro del principio di tempestività (o immediatezza) della contestazione disciplinare, alla luce della nuova formulazione dell’art. 18 della legge n. 300 del 1970, introdotta dall’art. 1 comma 42 della l. n. 92 del 2012 (c.d. legge “Fornero”).
Nella fattispecie esaminata dall’arresto del Supremo Collegio, il lavoratore aveva impugnato con il rito previsto dall’art. 1, commi 48 ss. della legge n. 92 del 2012, il licenziamento in tronco intimatogli in data 18.2.2013, chiedendone la declaratoria di illegittimità per tardività della contestazione e comunque per insussistenza dei fatti, addebitati con lettera del giugno 2012 e risalenti all’ottobre 2010.
Il giudice della fase sommaria, accertata l'illegittimità del licenziamento per tardività della contestazione, ordinava la reintegrazione del dipendente nel posto di lavoro, mentre il giudice dell'opposizione, confermata l'illegittimità del licenziamento, in parziale riforma, dichiarava risolto il rapporto condannando il datore di lavoro al pagamento dell'indennità di cui all'art.18 comma V della legge n. 300 del 1970, così come riformato dalla legge n. 92/2012, giudicando il caso come rientrante nella previsione della "violazione procedurale"di cui al VI comma.
La Corte d'appello di Firenze accoglieva parzialmente il reclamo, confermando la soluzione adottata in primo grado sia con riferimento alla sussistenza ed alla gravità dei fatti contestati, sia in relazione alla notevole tardività con cui il datore di lavoro aveva proceduto alla contestazione e poi all’ irrogazione della massima sanzione espulsiva. La motivazione escludeva tuttavia che la vicenda potesse essere ricondotta ad un'ipotesi di vizio procedurale, ravvisandosi nella tardività degli addebiti il venir meno degli elementi costitutivi del diritto di recesso e comunque la preclusione all'esercizio del relativo potere, posto che vi erano stati non solo un periodo di tempo lungo due anni senza alcuna reazione datoriale , ma anche l'attribuzione al dipendente di compiti di fiducia e di responsabilità incompatibili con l'impossibilità di prosecuzione anche provvisoria del rapporto di lavoro. La Corte territoriale riteneva quindi che nel caso di specie si fosse in presenza di un "fatto negoziale " di natura abdicativa, che precludeva l'esercizio del potere di recesso, venuto meno per una sorta di rinuncia comportante la nullità dell'atto di licenziamento, con permanenza del rapporto e con diritto alla riassunzione.
2. L’ordinanza interlocutoria.
L’esame del ricorso avverso la sentenza del Collegio fiorentino è stato sottoposto alle Sezioni Unite della Corte di Cassazione a seguito dell’ ordinanza interlocutoria della Sezione lavoro del 21 aprile 2017, n. 10159.
L’ordinanza interlocutoria ha ritenuto che esso verta su una fattispecie non rara a verificarsi e che investa una questione di massima di particolare importanza - inerente la natura del vizio del licenziamento intervenuto in forza di contestazione tardiva, non delineato in termini univoci dalla giurisprudenza precedente - giacché la pronuncia «è destinata ad incidere su altre controversie già pendenti o che potrebbero essere instaurate nell’immediato futuro, in ordine alle quali è auspicabile si prevenga il formarsi di una molteplicità di orientamenti giurisprudenziali contrastanti».
3. La tempestività della contestazione disciplinare
La giurisprudenza consolidata afferma che la tempestività (o immediatezza) della contestazione dell’addebito costituisce requisito fondamentale del licenziamento disciplinare. La contestazione dev’ essere dunque effettuata entro un ragionevole lasso di tempo dalla conoscenza del fatto addebitato, al fine di contemperare l’interesse del datore di lavoro a non avviare procedimenti senza aver acquisito i dati essenziali della vicenda, nella sua materialità e gravità, con quello del lavoratore ad approntare una piena difesa e a non riporre affidamento nella mancanza di connotazioni disciplinari del fatto incriminabile .
Si è però delineata della tempestività una nozione elastica, affermandosi che essa deve intendersi in senso relativo ed è , dunque, compatibile con un intervallo di tempo, più o meno lungo, allorché l'accertamento e la valutazione dei fatti richiedano uno spazio temporale maggiore, ovvero quando la complessità della struttura organizzativa dell'impresa sia suscettibile di far ritardare il provvedimento di recesso . Alcuni arresti valorizzano poi il momento in cui il datore di lavoro acquisisce la piena conoscenza del fatto, a prescindere dalla sua anteriore conoscibilità, affermandosi che “il datore di lavoro ha il potere, ma non l'obbligo, di controllare in modo continuo i propri dipendenti, contestando loro immediatamente qualsiasi infrazione al fine di evitarne un possibile aggravamento, atteso che un simile obbligo, non previsto dalla legge né desumibile dai principi di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c., negherebbe in radice il carattere fiduciario del lavoro subordinato, sicché latempestività della contestazione disciplinare va valutata non in relazione al momento in cui il datore avrebbe potuto accorgersi dell'infrazione ove avesse controllato assiduamente l'operato del dipendente, ma con riguardo all'epoca in cui ne abbia acquisito piena conoscenza” .
Si aggiunge che resta comunque riservata al giudice del merito la valutazione delle circostanze di fatto che in concreto giustificano o meno il ritardo, e che il suo giudizio resta quindi sindacabile in Cassazione solo nei ristretti limiti oggi consentiti dall’art. 360 n. 5 c.p.c..
4. La giurisprudenza della Corte di Cassazione sull’art. 18 previgente.
Come evidenziato nella stessa ordinanza interlocutoria, con riferimento alla formulazione dell’art. 18 della legge n. 300/1970 precedente alla novella del 2012, la giurisprudenza della Corte di Cassazione talora faceva rientrare il vizio costituito dall’intempestività della contestazione nella violazione del procedimento di irrogazione, che trova fondamento nell'art. 7 della legge 20 maggio 1970, n. 300, ponendo l’accento sul fatto che la tempestività mira, da un lato, ad assicurare al lavoratore incolpato il diritto di difesa nella sua effettività, così da consentirgli il pronto allestimento del materiale difensivo per poter contrastare più efficacemente il contenuto degli addebiti, e, dall'altro, a tutelare suo legittimo affidamento, in relazione al carattere facoltativo dell'esercizio del potere disciplinare .
Altre volte, si riteneva piuttosto che il vizio incidesse sui presupposti costitutivi del diritto di recesso, in quanto la non immediatezza della contestazione o del provvedimento espulsivo induce ragionevolmente a ritenere che il datore di lavoro abbia soprasseduto al licenziamento, considerando non grave o comunque non meritevole della massima sanzione la colpa del lavoratore .
Ricorrendo poi in alcuni arresti la valorizzazione, anche in via esclusiva rispetto alle altre qualificazioni, dell’esercizio del potere di recesso in coerenza con i canoni dettati dagli artt. 1175 e 1375 c.c. , argomentandosi che la tardività è idonea a spezzare il nesso di causalità tra l’addebito contestato e il potere disciplinare, usato in modo distorto per fini diversi da quelli suoi propri, sicché il procedimento disciplinare dovrebbe essere considerato illegittimo anche se nel caso particolare non abbia avuto alcun effetto pregiudizievole sulle capacità di difesa del lavoratore.
Nella sfera di applicabilità del previgente art. 18 risultava tuttavia superflua l’esatta qualificazione della natura del vizio, non essendovi una diversificazione delle conseguenze sanzionatorie a seconda che si determinasse l’illegittimità, la nullità o l’inefficacia del recesso, sempre derivandone la conseguenza della reintegra .
5. La necessaria qualificazione del vizio nel regime del nuovo art. 18
L’art. 18 nella formulazione successiva all’entrata in vigore della legge n. 92 del 2012 ha introdotto regimi sanzionatori differenziati, graduati a seconda dalla gravità della violazione riscontrata, che variano dalla tutela reintegratoria piena, disciplinata dai primi tre commi dell' art. 18, alla tutela reintegratoria attenuata (comma 4); alla tutela indennitaria forte (comma 5), che varia tra le 12 e le 24 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, alla tutela indennitaria limitata (comma 6), che oscilla tra le 6 e le 12 mensilità. E’ quindi divenuto determinante qualificare la natura e tipologia del vizio verificatosi, per farne derivare le dovute conseguenze .
Con riguardo a tale nuova disciplina, la Corte di Cassazione nella sentenza n.2513 del 31 gennaio 2017 ha ritenuto che un fatto contestato a distanza di un anno e mezzo debba essere ritenuto come "insussistente", non possedendo l'idoneità ad essere verificato in giudizio e precludendo ogni valutazione circa la reale esistenza degli addebiti. L’insussistenza del fatto determinerebbe le conseguenze sanzionatorie previste dal IV comma del nuovo art. 18, che parla di insussistenza del "fatto contestato" (quindi contestato regolarmente) e quindi, a maggior ragione, non potrebbe che riguardare anche l'ipotesi in cui il fatto sia stato contestato abnormemente, e cioè in aperta violazione dell'art. 7 della legge n. 300 del 1970.
6. La soluzione delle Sezioni Unite
Le Sezioni Unite nella sentenza in commento, consapevolmente discostandosi al richiamato precedente, hanno invece ritenuto applicabile alla fattispecie la tutela prevista dall’art. 18, comma V, della legge n. 300/1970 che ricorre nelle “nelle altre ipotesi” in cui il giudice accerta che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di lavoro, e comporta l’applicazione della c.d. tutela indennitaria forte.
L’approdo è motivato dalle seguenti considerazioni: la contestazione tardiva costituisce inadempimento contrattuale del datore per violazione dei principi di buona fede e correttezza, onde è vizio funzionale e non genetico della fattispecie sanzionatoria; la violazione, escluso in radice che possa dar luogo ad una ipotesi di nullità, non ricade neppure nella previsione dell’art. 18, comma IV, St.lav., che è applicabile solo in presenza di un licenziamento gravemente infondato in considerazione dell’accertata insussistenza del fatto; quando il ritardo nella formulazione della contestazione è notevole e non giustificato, esso è idoneo a determinare un affievolimento della garanzia per il dipendente incolpato di espletare in modo pieno una difesa effettiva nell’ambito del procedimento disciplinare; tale garanzia non può essere vanificata da un comportamento del datore non improntato al rispetto dei canoni di correttezza e buona fede di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c.; l’inerzia del datore di lavoro di fronte alla condotta astrattamente inadempiente del lavoratore può essere considerata quale dichiarazione implicita, per fatti concludenti, dell’insussistenza in concreto di alcuna lesione del suo interesse, sicché la tardiva contestazione assume il valore di un inammissibile “venire contra factum proprium”.
Si è così ritenuto che il vizio non abbia natura meramente procedimentale, ma anche sostanziale, ma che non interagisca con la fattispecie legittimante il recesso in termini di gravità tali da farlo rientrare nelle ipotesi di nullità o inefficacia tipizzate dal I comma o di illegittimità previste dal IV comma.
Nel pronunciato delle Sezioni Unite , al punto 11 di pag. 18, si trova anche l’affermazione, non riportata nel principio di diritto formulato a chiusura della sentenza, secondo la quale a diverse conclusioni dovrebbe giungersi «qualora le norme del contratto collettivo o la stessa legge dovessero prevedere dei termini per la contestazione dell’addebito disciplinare»: in tale ipotesi, infatti, «la relativa violazione verrebbe attratta, in quanto caratterizzata da contrarietà a norma di natura procedimentale, nell’alveo di applicazione del sesto comma del citato art. 18 che, nella sua nuova formulazione, è collegato alla violazione delle procedure di cui all’art. 7 della legge n. 300 del 1970 e dell’articolo 7 della legge n. 604 del 1966». Dal che dovrebbe desumersi che la stessa tardività della contestazione può configurarsi come vizio di natura sostanziale, ove il ritardo nella contestazione sia notevole ed ingiustificato, oppure meramente procedurale, qualora sia violata la scansione procedimentale eventualmente prevista dal contratto collettivo. Con l’ulteriore problema di comprendere se poi il vizio possa tramutarsi da procedurale in sostanziale quando la durata del ritardo, già superiore a quella indicata dal contratto collettivo, divenga ulteriormente eccessiva e prolungata.
7. Altri profili di rilevanza dell’arresto.
L’arresto delle Sezioni Unite si segnala anche per alcune importanti affermazioni che vanno al di là della specifica questione decisa.
Si afferma infatti che la nullità o inefficacia prevista dal primo comma del novellato art. 18 è limitata alle ipotesi tipiche espressamente prefigurate dalla stessa norma (pg. 9 punto 7): l’affermazione pone dunque il problema di riempire di contenuto il richiamo al licenziamento “riconducibile ad altri casi di nullità previsti dalla legge” effettuato nel I comma e la cui ricorrenza determina la tutela reintegratoria piena. La norma, a differenza dell’art. 2 del d.lgs n. 23 del 2015, non richiede infatti che gli altri casi di nullità siano “espressamente” previsti dalla legge, così parendo piuttosto riferirsi alla generale previsione dell’ art. 1418 c.c., I comma, secondo cui il contratto è nullo quando è “contrario a norme imperative” .
Si ricava poi dalla motivazione che la violazione dei principi della buona fede e correttezza da parte del datore di lavoro nell’intimazione del licenziamento trova la sua sanzione all’interno della previsione dell’art. 18 novellato, ritenendosi che il legislatore della riforma, delineando analiticamente il nesso di correlazione tra vizi ed apparato sanzionatorio, ha dimostrato di voler contenere la disciplina del licenziamento nell’ambito della nuova disposizione, senza margini di intervento del diritto comune. Mentre, d’altra parte, risulta confinata in uno spazio del tutto residuale l'applicazione della sanzione indennitaria debole prevista dal VI comma, limitata ai casi in cui il datore non rispetti eventuali termini procedimentali previsti dal contratto collettivo. Ciò induce a ritenere che la soluzione adottata sia estensibile anche all’ipotesi in cui la contestazione dell'addebito sia stata tempestiva, ma sia il solo provvedimento di recesso ad essere stato intimato con ingiustificato ritardo (al di là ed al di fuori delle previsioni del contratto collettivo) una volta esauritosi il procedimento disciplinare . A tale proposito, si afferma infatti che - fermo l’intervallo temporale minimo di cinque giorni tra la contestazione scritta e l’irrogazione della sanzione previsto dall’art. 7 comma 4 della legge n. 300 del 1970 ed in difetto di specifiche previsioni pattizie - l'irrogazione della sanzione disciplinare può avvenire anche a distanza di tempo dalla contestazione ( o dall’audizione del lavoratore), purché venga rispettato il principio della buona fede, che è matrice fondativa anche dell’ esercizio del potere disciplinare del datore di lavoro, e non ne risulti la volontà di soprassedere al licenziamento . Sicché anche in tale caso alla violazione della buona fede contrattuale dovrebbe conseguire la tutela indennitaria forte del V comma.