Testo integrale con note e bibliografia
È noto che, con la riforma c.d. Fornero, l’originaria unica conseguenza prevista dall’art. 18 legge 300/1970 per un licenziamento illegittimo, ossia la reintegra sul posto di lavoro, è stata “spacchettata” in quattro diverse forme di tutela sulla base del vizio che affligge il provvedimento: reintegratoria forte (comma 1), reintegratoria debole (comma 4), indennitaria forte (comma 5) ed indennitaria debole (comma 6).
Sostanzialmente tutte le previsioni del novellato articolo 18 sono state oggetto di fitto dibattito dottrinale e giurisprudenziale, per due ordini di ragioni: sicuramente, le ipotesi previste dai vari commi di tale complesso articolo non sono di semplice soluzione ermeneutica (si pensi, una per tutte, al concetto di "insussistenza del fatto contestato"), ma vi è un'altra evidente ragione meta giuridica; è infatti difficile affrontare le questioni interpretative in merito alle conseguenze del licenziamento illegittimo da un punto di vista meramente tecnico, poiché quest'argomento coinvolge fortissime posizioni di principio.
Molte soluzioni proposte ed ormai accolte dalla giurisprudenza si sono infatti staccate dal mero dato letterale, proprio per arrivare a conseguenze ritenute condivisibili, da un punto di vista di giustizia sostanziale e di tenuta dell'ordinamento giuridico: si prenda in considerazione, ad esempio, la teoria ormai consacrata dalla Corte di Cassazione in merito all'insussistenza del fatto contestato qualora questo abbia i caratteri della liceità . Se si fosse seguita la dizione letterale dell'articolo 18 comma 4, qualora il fatto contestato al lavoratore fosse materialmente sussistente ma legittimo, sarebbe spettata soltanto la tutela indennitaria; al contrario, con un ragionamento pienamente condivisibile ma che sicuramente porta a forzare il testo della norma, la giurisprudenza ha ritenuto che qualora il fatto contestato sia lecito debba ritenersi insussistente, con conseguente tutela reintegratoria.
Per quanto queste considerazioni introduttive possono apparire al limite della banalità, appaiono necessarie per affrontare il tema che qui si vuole introdurre, ossia la difficile applicazione dell'articolo 18 comma 6 laddove prevede la tutela reintegratoria debole nel caso in cui vi sia violazione “della procedura di cui all'articolo 7 della legge 15 luglio 1966, n. 604”; ovviamente, il discorso può essere perfettamente trasposto all'applicazione dell'articolo 4 d.lgs. 23/2015, vista l'identica formulazione delle due norme.
Appare evidente l'intenzione del legislatore di approntare tutele differenziate per il licenziamento illegittimo a seconda del vizio che inficia lo stesso: da quella più radicale (c.d. reintegra forte) per le illegittimità gravi, a quella di contenuto più blando (c.d. indennitaria debole) per licenziamenti fondati nel merito ma viziati da irregolarità formali o procedurali: si vedrà, peraltro, che la giurisprudenza non ha condiviso questa impostazione di base, riportando all'interno delle categorie del fatto insussistente o del licenziamento (sostanzialmente) illegittimo situazioni in cui il vizio del provvedimento non risiede nella situazione fattuale sottostante, ma nel quando o nel quomodo della reazione datoriale.
Contenuto dell’art. 7 legge 300/1970 e possibili violazioni.
L'articolo 7 dello Statuto dei Lavoratori, ritenuto applicabile al licenziamento dopo la nota sentenza della Corte Costituzionale 427/1989, contiene una serie di previsioni che mirano a regolamentare il potere disciplinare del datore di lavoro e che si possono sintetizzare nei seguenti capisaldi:
- la necessaria preventiva contestazione dell'addebito disciplinare;
- l'obbligo di sentire il lavoratore a propria difesa, eventualmente assistito da un rappresentante dell’associazione sindacale;
- un necessario “tempo di raffreddamento" prima dell'irrogazione delle sanzioni più gravi.
È peraltro noto che dal secondo comma dell'articolo 7 citato, il cui contenuto è (soltanto) “Il datore di lavoro non può adottare alcun provvedimento disciplinare nei confronti del lavoratore senza avergli preventivamente contestato l'addebito e senza averlo sentito a sua difesa”, la giurisprudenza ha tratto altresì i principi di specificità della contestazione disciplinare e di tempestività della reazione datoriale all'illecito del proprio dipendente. Inoltre, anche i contratti collettivi sono intervenuti spesso prevedendo modalità per lo svolgimento della procedura di contestazione disciplinare: in particolare, hanno sovente individuato dei termini entro cui deve essere contestato l'addebito, sentito il lavoratore od irrogata la sanzione.
Ciò comporta che un addebito disciplinare può essere ritenuto illegittimo per una serie di ragioni, tutte discendenti dall'articolo di legge citato, anche se alcune sono pedissequa applicazione del medesimo mentre altre derivano dall'elaborazione giurisprudenziale sul punto. Si può quindi sostenere che un provvedimento disciplinare, e in particolare un licenziamento, sia viziato per diretta violazione dell'articolo 7 legge 300/1970 qualora:
a. manchi la contestazione disciplinare;
b. il lavoratore non sia stato sentito a propria difesa;
c. il licenziamento sia stato irrogato prima di cinque giorni dalla contestazione disciplinare.
Oltre a questi episodi, vi può essere l'illegittimità del licenziamento per violazione delle norme contrattuali o dei parametri introdotti dalla giurisprudenza, qualora:
d. la contestazione disciplinare sia eccessivamente generica;
e. la reazione datoriale non sia tempestiva rispetto al comportamento del dipendente;
f. siano violati i termini previsti dal C.C.N.L.
Ebbene, mentre non vi sono sostanziali dubbi in merito all'applicabilità della tutela indennitaria debole nei casi sopra elencati sub b) , c) e f), la risposta della giurisprudenza è stata diversa con riferimento alle altre ipotesi.
In particolare, si esamineranno le conseguenze con riferimento alle ipotesi in cui sia stata omessa la contestazione o la stessa sia generica.
a) Assenza della contestazione disciplinare
L'obbligo di contestare preventivamente il fatto disciplinarmente rilevante è sancito, come ricordato poc'anzi, dall'articolo 7, comma 2, legge 300/1970; peraltro, il richiamo al fatto contestato è presente nelle norme che prevedono la reintegra nel caso di annullamento del licenziamento per insussistenza del fatto (articolo 18, comma 4 della stessa legge e articolo 3, comma 2, d.lgs. 23/2015 ).
Quid iuris qualora un licenziamento non sia stato preceduto dalla contestazione dei fatti posti a suo fondamento?
La giurisprudenza anche recente si è pronunciata nel senso di ricondurre tale ipotesi nell'alveo dell'articolo 18 comma 4 legge 300/1970, ritenendo sussistente un difetto assoluto di giustificazione del provvedimento espulsivo . Gli argomenti utilizzati dalla Suprema Corte a sostegno di tale posizione sono di tre tipi, uno solo dei quali è di stretto diritto, mentre gli altri due sono espressione di giudizi di valore che, come già anticipato, appaiono difficilmente evitabili in questa materia.
In sintesi, la Cassazione afferma che, nel caso di mancanza della contestazione disciplinare, non potrebbe trovare applicazione la tutela indennitaria debole poiché, nonostante la Corte la riconosca come effettiva interpretazione letterale della legge, “renderebbe incoerente il funzionamento del meccanismo sanzionatorio dell'art. 18 che, come rilevabile dalla complessiva disciplina delle tutele, distribuisce reintegrazione e tutela economica sostituiva del posto di lavoro facendo perno sulla valutazione dei fatti posti alla base del licenziamento: precisamente, sulla valutazione "del fatto contestato". Questo primo argomento muove effettivamente da un dato normativo indiscutibile: l'articolo 18 legge 300/1970 (ma analogo ragionamento si può fare per l'impianto del d.lgs. 23/2015) pone al centro della valutazione del giudice proprio il fatto contestato e qualora questo risulti insussistente, si applica la tutela reintegratoria. Sotto questo profilo, quindi, il ragionamento della Corte appare indubbiamente lineare: qualora non sia stato contestato alcun fatto, non vi sarebbe alcun elemento fattuale posto alla base del licenziamento e da ciò discenderebbe la tutela reintegratoria.
Il secondo argomento che utilizza la Cassazione (in realtà, il primo nell'ordine motivazionale della sentenza) si sostanza nel riconoscimento di un valore più ampio all'obbligo di preventiva contestazione dell'infrazione disciplinare, ritenuto "espressione di un inderogabile principio di civiltà giuridica", come già statuito dalla Corte Costituzionale nella sentenza 204/1982. Nessuno vuole mettere in discussione il valore della preventiva conoscenza dell'addebito, né del corretto contraddittorio: ma la Corte Costituzionale, nella famosa sentenza ivi citata, ha affermato l'applicabilità della procedura di cui all'articolo 7 legge 300/1970 anche al licenziamento, mentre non ha statuito alcunché in merito alle conseguenze di tale violazione. D'altro canto, all'epoca neppure si poneva il problema dell'individuazione della sanzione, poiché la stessa dipendeva esclusivamente dalle dimensioni del datore di lavoro. Ancora, non si può confondere il diritto di difesa in giudizio, garantito dall'articolo 24 della Costituzione, con il diritto a controdedurre nell'ambito di un procedimento disciplinare. Infatti, anche qualora non sia stato assicurato il contraddittorio al lavoratore, questi non è privato di tutela, potendo sempre adire in giudizio per difendere i propri diritti; anzi, inizierà il processo in una situazione di vantaggio, poiché il provvedimento espulsivo si presenterà di per sé viziato.
L'ultimo argomento che utilizza la Corte di Cassazione nella sentenza 4879/2020 è orientato ad una sorta di “moralizzazione” del comportamento processuale delle parti. Sostiene infatti la Suprema Corte che, qualora si applicasse il regime di cui al comma 6 dell'articolo 18 nell'ipotesi di omessa contestazione disciplinare, “il datore di lavoro potrebbe allegare per la prima volta in giudizio, e dopo aver letto il ricorso del lavoratore, i fatti posti a base del licenziamento, potendo beneficiare, ove tali fatti siano provati ed idonei a configurare un valido motivo di licenziamento, di un regime sanzionatorio contenuto se raffrontato alle ulteriori sanzioni previste dalla medesima disposizione”. In altri termini, la Cassazione vuole evitare che uno scaltro datore di lavoro intimi un licenziamento senza previa contestazione disciplinare in modo da impedire una compiuta difesa in giudizio da parte del lavoratore, il quale dovrebbe depositare il proprio ricorso senza conoscere le ragioni fondanti l’atto espulsivo e quindi, in definitiva, senza poter articolare contestazioni agli addebiti e mezzi di prova a propria tutela.
b) Genericità della contestazione disciplinare
Per quanto riguarda la contestazione disciplinare generica, la posizione della giurisprudenza è sostanzialmente analoga alla situazione precedente: infatti, poiché “la contestazione disciplinare deve delineare l'addebito, come individuato dal datore di lavoro, e quindi la condotta ritenuta disciplinarmente rilevante, in modo da tracciare il perimetro dell'immediata attività difensiva del lavoratore” , laddove la contestazione dell'infrazione non sia sufficientemente specifica, al punto da impedire una compiuta difesa del lavoratore, il licenziamento non può fondarsi su tali fatti ed è quindi giocoforza che si applichino le medesime conseguenze in cui venga accertata l'insussistenza del fatto contestato.
Le argomentazioni a sostegno di questa tesi sono sostanzialmente analoghe a quelle che portano all’applicazione della reintegra per insussistenza del fatto nell’ipotesi di omessa contestazione: si possono quindi essere esaminate congiuntamente.
Il difficile rapporto tra procedimento disciplinare e giudizio
Come ricordato in precedenza, tre sono gli elementi che portano parte della giurisprudenza a ritenere che l'assenza o la genericità della contestazione travolgano la validità del licenziamento in modo radicale:
- un'affermazione di principio, secondo cui la conoscenza dell'infrazione da parte del lavoratore rappresenta un canone fondamentale dell'ordinamento giuridico, di talché il suo mancato rispetto genererebbe un vizio così grave da non poter essere di compreso in quelli meramente formali di cui agli articoli 18 comma 6 legge 300/1970 e 4 d.lgs. 23/2015;
- una preoccupazione di tipo processuale volta a scongiurare comportamenti opportunistici di datori di lavoro che si vogliono avvantaggiare della possibilità di obbligare il lavoratore ad impugnare il licenziamento senza conoscere le ragioni sottese al medesimo.
- un argomento letterale, ossia il richiamo al "fatto contestato" contenuto nelle norme che prevedono l'annullabilità del licenziamento.
A tutto ciò si aggiungono, necessariamente, due aspetti metagiuridici, che si ritiene siano di indubbia rilevanza nell'orientamento dell'interprete: la circostanza che per più di quarant'anni i licenziamenti intimati dai datori di lavoro considerati dall'articolo 18 legge 300/1970, qualora non fossero stati assistiti da una preventiva e specifica contestazione disciplinare, venivano annullati con conseguente reintegra del lavoratore e, appare onesto affermarlo, una certa resistenza della giurisprudenza ad aderire alle ipotesi di minor tutela conseguenti alle riforme del 2012 e del 2015.
Rifuggendo da queste ultime due suggestioni, si vuole proporre una riflessione sui seguenti aspetti: se la tutela relativa all'insussistenza del fatto sia quella effettivamente dovuta al caso di specie o se invece sia più consona la tutela indennitaria; inoltre, se sia ammissibile l'indagine processuale in merito a fatti disciplinarmente rilevanti non contenuti (o ulteriori) rispetto a quelli presenti nella contestazione disciplinare.
a) L’omessa contestazione disciplinare e il suo fondamento normativo;
La prima critica che deve essere mossa all'orientamento giurisprudenziale sopra citato ha una duplice natura: in primo luogo, questo pare dimenticare che l'obbligo di contestare previamente i fatti disciplinarmente rilevanti trova la sua fonte (solo) nell'articolo 7 legge 300/1970; in secondo luogo, con un salto logico di dubbia condivisibilità, si trasferisce sotto il profilo del fatto un vizio procedurale.
Andando con ordine, non si può che sottolineare che l'obbligo della preventiva contestazione è stato introdotto dall'articolo 7 legge 300/1970, che ne rimane tutt'oggi il fondamento normativo.
Tale norma infatti disciplina la procedura per l'irrogazione dei provvedimenti disciplinari che inizia con la contestazione degli addebiti (comma 2), prevede la facoltà per il lavoratore di essere sentito a propria difesa e culmina con la decisione datoriale di soprassedere o di infliggere la sanzione. Ebbene, laddove gli articoli 18 comma 6 legge 300/1970 e 4 d.lgs. 23/2015 prevedono la tutela indennitaria nei casi di "violazione (…) della procedura di cui all'articolo 7” dello Statuto dei Lavoratori, non si comprende come la violazione del comma 2 di tale articolo non sia considerata dalla giurisprudenza direttamente rientrante in tale ipotesi.
L'argomento logico è del tutto stringente: infatti, qualora non fosse presente all'interno del nostro ordinamento l'articolo 7 legge 300/1970, non vi sarebbe l'obbligo di preventiva contestazione; di conseguenza, l'omessa contestazione disciplinare è, necessariamente, una diretta violazione di questa specifica norma.
Questa lineare conclusione non appare messa in dubbio dalle parole della Cassazione secondo cui "il radicale difetto di contestazione dell'infrazione (elemento essenziale di garanzia del procedimento disciplinare, cfr. Cass. n. 1026\15, Cass. n. 2851\06, e costituente espressione di un inderogabile principio di civiltà giuridica, C. Cost. n.204\1982) determina l'inesistenza della procedura (o procedimento disciplinare), e non solo l'inosservanza delle norme che lo disciplinano” : questa parte della sentenza, in realtà, non contiene una vera motivazione, ma è semplicemente il riconoscimento dell'importanza che riveste l'onere di preventiva contestazione all'interno del procedimento disciplinare. Non si comprende, infatti, per quale ragione quella che è e rimane una violazione dell'articolo 7, comma 2, legge 300/1970 imponga, sulla base di un mero giudizio in merito alla sua gravità, di mutare la norma applicabile, passando dal comma 6 al comma 4 dell'articolo 18 della medesima legge. Questa presa di posizione non permette di rispondere al dubbio fondamentale che sorge leggendo le conclusioni della giurisprudenza qui in esame: come sia possibile che un vizio procedurale, qual è senza dubbio la mancata contestazione disciplinare, possa trasmigrare all'interno della valutazione sostanziale in merito all'inesistenza del fatto contestato.
La tesi secondo cui l’omessa contestazione rappresenta un’ipotesi al di fuori dell’operatività dell’art. 18 comma 6 perché vi sarebbe “inesistenza della procedura”, diversa dalla “mera inosservanza delle norme che la disciplinano” è, sostanzialmente, una petizione di principio. È la medesima norma di legge che prevede tutti gli incombenti che rappresentano gli steps del procedimento disciplinare; la mancanza della contestazione disciplinare viola l’art. 7 comma 2 così come, ad esempio, l’omessa audizione del lavoratore a propria difesa viola il comma successivo. Nuovamente, l’argomento logico a contrario è dirimente ed insuperabile: laddove non esistesse l'articolo 7, comma 2, legge 300/1970, non vi sarebbe alcun obbligo di previa contestazione e quindi il comportamento del datore di lavoro non sarebbe sanzionabile.
La Corte di Cassazione sostanzialmente tratta diversamente l’ipotesi della mancata contestazione disciplinare rispetto alle altre violazioni dell’art. 7 legge 300/1970 a causa della gravità dell’omissione, che impedisce il sorgere del procedimento disciplinare. È però agevole replicare che è proprio l'articolo 18 comma 6 dello Statuto dei Lavoratori, in questo caso, a stabilire che l'indennità risarcitoria è parametrata “in relazione alla gravità della violazione formale o procedurale commessa dal datore di lavoro” : il che significa, con tutta evidenza, che una violazione radicale delle norme richiamate comporterà l'applicazione dell'indennità nella sua misura massima.
b) Evitare indebiti vantaggi processuali.
Come secondo argomento, la Suprema Corte ha sostenuto l'insufficienza della sanzione prevista dall'articolo 18 comma 6 legge 300/1970 qualora manchi la contestazione disciplinare, poiché in tal caso “il datore di lavoro potrebbe allegare per la prima volta in giudizio, e dopo aver letto il ricorso del lavoratore, i fatti posti a base del licenziamento, potendo beneficiare, ove tali fatti siano provati ed idonei a configurare un valido motivo di licenziamento, di un regime sanzionatorio contenuto se raffrontato alle ulteriori sanzioni previste dalla medesima disposizione”.
Tale conclusione appare francamente ardita, nonché facilmente evitabile.
In primo luogo, potrebbe ben capitare che, nonostante l'assenza di una preventiva contestazione disciplinare, il datore di lavoro abbia descritto analiticamente i fatti addebitati al dipendente nella lettera di licenziamento. In tal caso, il lavoratore si troverebbe nella stessa situazione rispetto a chi è stato licenziato nel pieno rispetto della procedura prevista dall'articolo citato, conoscendo prima del giudizio tutte le infrazioni alla base della decisione datoriale.
In secondo luogo, da un punto di vista processuale appare sicuramente legittimo ed opportuno che al lavoratore che impugni un licenziamento "al buio", ossia nell'ipotesi estrema in cui manchi la contestazione disciplinare ed alcun fatto sia descritto nella lettera di licenziamento, siano concessi i termini previsti dall'articolo 420 comma 6 c.p.c. al fine di permettergli di prendere posizione in merito ai fatti dedotti dalla controparte per la prima volta con la costituzione in giudizio; lo stesso può essere agevolmente fatto nel caso di rito c.d. Fornero, dove neppure vi sono le stringenti preclusioni degli articoli 414 e 416 c.p.c.
Infine, è tutt'altro che certo (a parere di chi scrive) che un datore di lavoro scelga di irrogare un licenziamento sapendo che verrà ritenuto illegittimo (con condanna a pagare un’indennità tra le sei e le dodici mensilità), pur di avere un vantaggio processuale che, come si è visto, è soltanto ipotetico. Nella pratica, non si è a conoscenza di situazioni del genere.
c) L’insussistenza del “fatto contestato”.
L’ultimo argomento utilizzato dalla Corte per affermare che l’omessa contestazione disciplinare porta alla reintegra muove dall’analisi letterale dell’art. 18 comma 4 legge 300/1970 (l’art. 3, comma 2, d.lgs. 23/2015 ha una statuizione analoga), che prevede la reintegra qualora vi sia “insussistenza del fatto contestato”. Il ragionamento appare lineare: qualora non vi sia la contestazione disciplinare, “il fatto contestato non esiste a priori” .
Si ritiene però che anche questo argomento, il più solido dal punto di vista ermeneutico, sia passibile di critica.
In primo luogo, permane la perplessità di fondo: l’art. 18 comma 4 legge 300/1970 e il suo omologo art. 3, comma 2, d.lgs. 23/2015, attengono ai vizi sostanziali del licenziamento, ossia a situazioni in cui lo stesso non sia giustificato dal punto di vista fattuale; la mancanza della contestazione disciplinare, invece, attiene alla procedura tramite cui si arriva al procedimento espulsivo.
In secondo luogo, come stretto corollario di quanto detto prima, è evidente che la volontà del legislatore fosse quella di applicare la reintegra nelle ipotesi in cui non vi fosse alcun inadempimento da parte del lavoratore e quindi qualora il licenziamento non rispondesse al modello legale di reazione ad una condotta disciplinarmente rilevante. Sposando la tesi qui oggetto di critica, invece si andrebbe a sanzionare più gravemente un licenziamento in ipotesi fondato nel merito ma viziato con riferimento alla procedura, rispetto ad un provvedimento espulsivo magari macroscopicamente sproporzionato.
Infine, si ritiene che si sia voluto attribuire un peso eccessivo alla locuzione "fatto contestato", proprio al fine di sostenere la tesi della equivalenza tra omessa contestazione ed insussistenza del fatto. Sebbene sia indiscutibile che il termine utilizzato dal legislatore porti un elemento a sostegno dell'interpretazione di cui si discute, vi sono diversi aspetti che inducono a ritenere che tale locuzione non debba essere sopravvalutata nella sua pregnanza.
Vi è infatti da considerare innanzitutto che le norme in oggetto si riferiscono, in prima battuta, a situazioni in cui il procedimento disciplinare sia stato correttamente svolto: in altri termini, appare agevole ritenere che l'utilizzo dell'espressione “fatto contestato” sia dovuta alla circostanza che il legislatore abbia considerato la situazione fisiologica, in cui vi è stata la contestazione di addebiti e le difese del lavoratore prima dell'adozione del provvedimento espulsivo.
Quanto appena affermato trova un riscontro indiretto proprio nell'articolo 18 comma 6 legge 300/1970 il quale, nell'affrontare le ipotesi in cui la procedura dell'articolo 7 della medesima legge è stata violata, afferma che il lavoratore può chiedere che venga accertato che vi è "anche un difetto di giustificazione del licenziamento". Quindi, dove è presupposto che il procedimento disciplinare non è stato svolto con il rispetto delle prescrizioni di legge, non si fa più riferimento al fatto contestato, ma alla giustificazione del licenziamento: il che, si può ritenere, proprio perché in tal caso può capitare che non sia stato contestato alcun fatto.
Appare più consono sostenere che, laddove il legislatore parla di "fatto contestato", in realtà dovrebbe leggersi "fatto su cui si basa il licenziamento" e ciò anche per un'altra ragione di primaria importanza: infatti, laddove si condividesse la ricostruzione propugnata dalla Corte di Cassazione, si avrebbe il paradosso per cui perderebbe ogni rilievo il contenuto della lettera di licenziamento.
Incentrare l'attenzione dell'esame giurisdizionale solo sulla lettera di contestazione significa tralasciare l'elemento fondamentale con cui il datore di lavoro manifesta la volontà di recedere, ossia la lettera di licenziamento; è solo con quest'ultimo atto che l'azienda rappresenta le ragioni che fondano il proprio recesso, mentre la contestazione disciplinare è soltanto un atto presupposto che si inserisce nella catena procedimentale. Non vi è d'altronde dubbio che, in giudizio, si va a verificare se siano veri i fatti su cui si fonda il licenziamento e non semplicemente quelli contenuti nella lettera di contestazione disciplinare: prova ne sia che se un addebito è contenuto nella contestazione ma non nel provvedimento espulsivo, non se ne terrà alcun conto, poiché il datore di lavoro ha manifestato di non voler sanzionare tale comportamento.
Se quindi appare corretto interpretare in questo modo la locuzione "fatto contestato" si apre la strada alla tesi che si va a esporre, sintetizzando il ragionamento fin qui condotto.
In conclusione, da un punto di vista logico il seguente sillogismo appare essere inattaccabile: gli articoli 18 comma 6 legge 300/1970 e 4 d.lgs. 23/2015 prevedono la tutela indennitaria c.d. debole a fronte della violazione della procedura di cui all'articolo 7 legge 300/1970; poiché l'obbligo di previa contestazione disciplinare si inserisce in tale procedura, rappresentando la violazione più grave della stessa (poiché in sua assenza non nasce il procedimento disciplinare), la tutela indennitaria prevista dalle norme richiamate si applica anche in tale ipotesi, eventualmente nella sua massima estensione.
La difesa in giudizio: un diritto inviolabile (per entrambi)
La tesi fatta propria dalla giurisprudenza sin qui richiamata, identificando l'oggetto dell'indagine in sede giudiziale con il contenuto della lettera di contestazione disciplinare, porta come corollario l'impossibilità, per il datore di lavoro, di difendersi in giudizio offrendo in prova dei fatti che non sono stati già enucleati nella lettera di addebiti.
Si ritiene però che quest'interpretazione non sia la più corretta sulla base della formulazione letterale e della ratio della legge 92/2012 e del successivo d.lgs. 23/3015. Come rilevato in precedenza, tali riforme hanno voluto riservare la tutela reintegratoria, oltre ai casi di nullità del licenziamento, alle sole ipotesi in cui questo non sia sostenuto da alcun elemento fattuale; in altre parole, solo dove non ci sia l'inadempimento del lavoratore (o questo non sia affatto provato in giudizio). A sostegno di quanto appena affermato, soccorrono gli articoli 18, comma 1, legge 300/1970 e 2 d.lgs. 23/2015, che prevedono la reintegra per un solo aspetto formale del licenziamento, ritenuto di fondamentale importanza: l'assenza di forma scritta.
La violazione delle garanzie procedimentali a tutela del lavoratore rientra, per espressa volontà legislativa, sotto l’applicazione della tutela indennitaria c.d. debole; è peraltro espressamente prevista la possibilità di accertare il difetto di giustificazione del licenziamento anche in tali ipotesi, proprio per evitare qualunque comportamento opportunistico del datore di lavoro, che anche in caso di violazione degli art. 2 legge 604/1966 e 7 legge 300/1970 sarà comunque onerato di dimostrare la sussistenza della giusta causa o del giustificato motivo. D'altronde, al di là di ogni argomentazione giuridica, appare indiscutibile che l'intimazione di un licenziamento privo del proprio substrato fattuale sia un'ipotesi molto più grave e quindi da tutelare più severamente rispetto ad un provvedimento espulsivo che, seppur adottato in assenza delle garanzie procedimentali, si poggia su un fatto effettivamente accaduto.
La tesi che si manifesta come preferibile è quindi quella per cui la violazione delle norme procedimentali, più o meno grave che sia, debba trovare tutela con l'applicazione delle norme espressamente deputate a tale scopo, ossia i più volte richiamati articolo 18 comma 6 legge 300/1970 e 4 d.lgs. 23/2015. Come argomentato in precedenza, è una chiara forzatura distinguere l'ipotesi in cui si attivi il procedimento disciplinare ma si violino le norme che lo regolano rispetto a quella in cui il procedimento non vi sia per mancanza della contestazione dell'infrazione: la norma violata è infatti la medesima. La differente gravità dello scostamento dal modello legale è sanzionata dall'applicazione di un'indennità più o meno cospicua. Ovviamente, il comportamento limite di un datore di lavoro che ometta la contestazione disciplinare e non indichi nella lettera di licenziamento le ragioni per cui intende recedere è sanzionabile non solo ai sensi delle norme che prevedono la tutela indennitaria, ma può rappresentare un chiaro indice di motivo illecito, comportante la nullità dell'atto espulsivo.
Una volta affermato ciò, si deve ritenere che, anche in assenza di una contestazione disciplinare, o quando questa sia del tutto generica, deve essere possibile per il datore di lavoro allegare e tentare di dimostrare i fatti a sostegno del licenziamento. L'opposta opinione, sostanzialmente, introduce una sorta di decadenza pre-processuale che, in ultima analisi, cozza contro il diritto di difesa in giudizio che, come già rammentato, è l'unico che trova tutela costituzionale.
Si noti che ciò non significa favorire i datori di lavoro sbadati o astuti, in quanto:
- il licenziamento sarà in ogni caso illegittimo, con diritto del lavoratore (quantomeno) alla tutela indennitaria;
- l'onere della prova è comunque a carico del datore di lavoro; anzi, una maliziosa omissione o genericità della contestazione disciplinare potrebbe costituire un indizio di un diverso (e magari illecito) motivo posto a base del licenziamento;
- vi sono gli strumenti processuali per permettere al lavoratore di prendere posizione in merito ai fatti che apprenderà con la memoria difensiva, salvaguardando quindi il suo diritto di difesa in giudizio consacrato dall'articolo 24 della Costituzione.
Il limite a questa facoltà del datore di lavoro di indicare, per la prima volta in giudizio, i fatti posti a base del provvedimento espulsivo si deve individuare nella lettura combinata delle lettere di contestazione disciplinare e di licenziamento; soprattutto è fondamentale il contenuto di quest'ultima, in quanto è la manifestazione di volontà con cui si identificano quali fatti siano stati considerati così gravi da interrompere il nesso fiduciario. Di conseguenza, qualora il datore di lavoro abbia dichiarato al proprio dipendente le ragioni per cui intende recedere dal rapporto, non potrà introdurne di nuove e ulteriori, avendo ormai fissato il motivo sottostante il recesso.
Come ricordato nel titolo del paragrafo, il diritto a difendersi in giudizio è costituzionalmente garantito per entrambe le parti: introdurre una preclusione ai fatti che il datore di lavoro può utilizzare ai fini della propria difesa giudiziale è una conclusione di una certa gravità che, a parere di chi scrive, dovrebbe trovare un diretto sostegno nella legge. Nel caso di specie, come si è cercato di argomentare sinora, sia la lettera, sia la lettera che la ratio delle riforme intervenute negli anni 2012 e 2015 portano a concludere in senso opposto, senza con questo si pregiudichi l'esigenza di tutela dei lavoratori, per i motivi sopra esplicitati.