Testo integrale con note e bibliografia
1. Il ‘caporalato’ come fenomeno sociale e i primi interventi normativi di contrasto.
Il termine ‘caporalato’ richiama al fenomeno sociale di intermediazione illegale e di sfruttamento del lavoro realizzata dal cd. caporale a danno di lavoratori, spesso temporanei, costretti a prestare la propria attività lavorativa con orari disumani e in condizioni di vita degradanti e spesso pericolose. Tale fenomeno è diffuso soprattutto in determinati ambiti, in primis nel settore produttivo agricolo, ma a seguire anche in quello dell’edilizia, dell’allevamento, manifatturiero e turistico, ovvero in quegli ambiti che si prestano all’impiego di manodopera anche priva di specializzazione o ad attività stagionali. Un vero e proprio fenomeno sociale allarmante, idoneo ad esporre in pericolo non solo la dignità, l’incolumità personale e, nelle ipotesi più gravi, la vita dei lavoratori, vittime di sfruttamento, ma anche foriero di conseguenze pregiudizievoli sulla leale concorrenza del mercato, ‘macchiata’ da imprese che si avvalgono di manodopera impiegata in modo illegale al solo fine di massimizzare i profitti e abbattere i costi, oltreché causa di rilevanti danni alle casse dello Stato in termini di evasione contributiva .
La complessità del caporalato è strettamente correlata e dipendente dalla sua capacità di presentarsi come un fattispecie non unitaria ma proteiforme, idonea ad assumere, nelle diverse realtà locali, delle connotazioni peculiari e caratteristiche, in particolare per quanto attiene alle modalità di reclutamento e intermediazione della forza lavoro: si pensi al caporalato etnico, alle forme di organizzazione del lavoro ai confini con la riduzione in schiavitù, all’attività di intermediazione che si sviluppa su doppio livello (caporale straniero, che recluta manodopera straniera, e a capo caporale italiano, che intrattiene rapporti direttamente con i datori di lavoro).
Peraltro, il caporalato ha subito mutamenti radicali nel tempo. Se dapprima, infatti, si presentava come un fenomeno perlopiù circoscritto alla realtà agricola, in un secondo momento invece si è innescato in modo radicale nell’ambito della criminalità organizzata di tipo mafioso. Ė chiaro, invero, che l’ingresso nel nostro paese di un sempre più consistente e incontrollato numero di immigrati clandestini ha consentito alle organizzazioni criminali la creazione di un vero e proprio business attorno al reclutamento e all’organizzazione della manodopera clandestina. Al pari, anche la crisi economica ha influito sulle dimensioni di questa distorsione nel reclutamento dei lavoratori, in quanto molte imprese, per sfuggire alle proprie difficoltà economiche, si sono viste ‘costrette’ a ridurre i costi di produzione, spesso anche mediante lo sfruttamento della manodopera con conseguenti risparmi di spesa sul piano retributivo, previdenziale e fiscale.
La figura stessa della persona del caporale è, peraltro, di pari passo variata con il variare del caporalato : egli non si limita più a consentire l’incontro tra la domanda e l’offerta di mano d’opera ma svolge un’attività a tutto campo, che va dall’intermediazione, all’organizzazione del lavoro, alla gestione degli alloggi e alla distribuzione della paga, della quale trattiene una percentuale che va dal 50% al 60% della retribuzione che, già di per sé, è molto bassa e sicuramente al di sotto delle previsione di cui ai CCNL. Spesso i lavoratori, soprattutto quelli stranieri, non hanno alcun contatto con il datore di lavoro, ma hanno come unico riferimento la persona del caporale, il quale impone ritmi di lavoro disumani, condizioni igieniche precarie e, nelle forme più gravi, li sottopone a pratiche violente, in spregio alle disposizioni dettate per la tutela dell’ambiente di lavoro e della sicurezza dei lavoratori.
Specialmente nel nord Italia si vanno diffondendo le cd. finte cooperative sociali di lavoro, in cui i lavoratori sono solo apparentemente e formalmente soci della cooperativa, ma in realtà operano come lavoratori somministrati, sprovvisti di qualsiasi potere decisionale e organizzativo all’interno della cooperativa e inseriti in un contesto lavorativo che non si ispira affatto a principi solidaristici e in cui tutte le decisioni (ore di lavoro, ferie, malattie) vengono, di fatto, assunte dal presidente della cooperativa e dai caporali interni di sua fiducia. Evidentemente il fine ultimo di queste cooperative di lavoro ‘simulate’ è quello di ridimensionare notevolmente (fino al 50%) il costo della manodopera a danno del lavoratore, privato di tutti i diritti e le garanzie riconosciute dalla contrattazione collettiva e destinatario di retribuzioni solo per una parte delle ore lavorate, e con la conseguente elusione fiscale, in quanto le restanti ore di lavoro vengono pagate ai lavoratori con modalità che consentono di aggirare il fisco (si pensi all’ormai diffusa pratica dei rimborsi spese) .
Si vede, quindi, come anche il fenomeno del caporalato, al pari di tutte le altre manifestazioni criminose, è stato con il tempo ‘affinato’: si è passati dalle tradizionali forme di sfruttamento della manodopera nel settore agroalimentare, che rasentavano la riduzione in schiavitù ed erano spesso collaterali alla malavita organizzata, a sempre più sofisticate forme di intermediazione illegale e utilizzo di manodopera, apparentemente formalmente regolari ma destinate a celare forme altrettanto gravi e subdole di sfruttamento.
La dimensione del fenomeno criminoso in esame è forse da ricondursi alla debolezza della politica di contrasto che, a sua volta, si spiega non solo alla luce della mancanza nel nostro ordinamento (quantomeno fino all’inserimento nel 2011 dell’art. 603 bis c.p. o, più correttamente, all’importante riforma ad opera della legge n. 199/ 2016) di un intervento normativo idoneo a fornire una risposta sanzionatoria adeguata, ma anche alla grande difficoltà di emersione di queste forme di sfruttamento.
Per lungo tempo il contrasto al caporalato è stato appannaggio esclusivo della disciplina in materia giuslavoristica. In particolare, si fa riferimento alla legge n. 1369 del 1960, relativa al “divieto di intermediazione ed interposizione nelle prestazioni di lavoro e nuova disciplina dell'impiego di mano d'opera negli appalti di opere e di servizi”, la quale all’art. 1 sanzionava, con l’ammenda di lire 10.000 per ogni lavoratore e per ogni giorno di lavoro, l'imprenditore che affidava in appalto, subappalto o in altra forma l'esecuzione di mere prestazioni di lavoro mediante impiego di mano d'opera assunta e retribuita dall'appaltatore o dall'intermediario, indipendentemente dalla natura dell'opera o del servizio cui le prestazioni si riferivano e, altresì, l’imprenditore che affidava ad intermediari lavori da eseguirsi a cottimo da prestatori di opere assunti e retribuiti dagli intermediari stessi.
La normativa appena richiamata è stata abrogata, in parte qua, dall’art.. 85 del d.lgs. 276 del 2003, che invece continuava a disciplinare le fattispecie di somministrazione abusiva, di esercizio abusivo dell’attività di intermediazione (art. 18, comma 1), di utilizzazione illecita (art. 18, comma 2) e di somministrazione fraudolenta (art. 28). La disciplina in questione è stata fortemente modificata per effetto dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 81 del 2015, il quale ha comportato l’abrogazione degli articoli da 20 a 28 relativi alla somministrazione di lavoro.
I decreti legislativi nn. 7 e 8 del 2016, inoltre, nell’ottica di deflazione del contenzioso penale, hanno provveduto alla depenalizzazione di numerosi reati in tema di intermediazione e occupazione illecita, sia trasformando alcune fattispecie in illecito amministrativo, sia abrogandone altre e sostituendole con la previsione di corrispondenti sanzioni civili pecuniarie cumulative rispetto al risarcimento del danno. In particolare, oggetto di intervento sono stati anche i reati di cui all’art. 18 del d.lgs. 276/2003 , relativo alla somministrazione abusiva e alla utilizzazione illecita di manodopera, salvo che nell’ipotesi aggravata dallo sfruttamento di minori , per la quale ne è confermata la rilevanza penale. Infine, il reato di esercizio abusivo dell’attività di intermediazione conserva natura di illecito penale contravvenzionale, solo se commesso a scopo di lucro, altrimenti è sottoposto a sanzione amministrativa pecuniaria.
Anche la disciplina in materia di immigrazione detta(va) alcune disposizioni relative allo sfruttamento del lavoro; in particolare, l’art. 12, comma 3-ter, d.lgs. 286/1998 (T.U. immigrazione) punisce, infatti, chi favorisce l’ingresso illegale nel territorio dello Stato di stranieri anche allo scopo di reclutare persone da destinare allo sfruttamento lavorativo o al fine di trarne profitto, anche indiretto. L’art. 22, inoltre, sanziona il datore di lavoro che occupa alle proprie dipendenze lavoratori stranieri privi del permesso di soggiorno ovvero con il permesso di soggiorno scaduto, revocato o annullato.
2. L’introduzione dell’art. 603 bis nel codice penale.
Il primo intervento mirato in ambito penalistico è da attribuire al d.l. n. 138/2011, il quale ha inserito nel codice penale gli artt. 603 bis, rubricato "Intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro", e 603 ter, relativo alle "Pene accessorie". Significativa è la scelta sistematica di inserire la disciplina del delitto neo-introdotto nel corpo della Sezione I "Dei delitti contro la personalità individuale", nel Capo III "Dei delitti contro la libertà individuale", del Titolo XII "Dei delitti contro la persona”. Dalla collocazione sistematica della disposizione incriminatrice si evince infatti, chiaramente, l’intento del legislatore: tutelare il lavoratore alla stregua di ‘persona umana’ e non più, come invece nella prospettiva della disciplina giuslavoristica, esclusivamente alla stregua di parte debole del rapporto di lavoro ossia come ‘prestatore d’opera’ . Al centro della nuova normativa sul caporalato vi è quindi il lavoratore nella sua dignità e dimensione umana .
L’art. 603 bis c.p. era, nella mens legis, destinato ad assumere una posizione di primo piano, in quanto avrebbe dovuto essere devoluto a colmare una grave lacuna dell’ordinamento penalistico e a fornire un’adeguata risposta sanzionatoria a tutte quelle ipotesi di intermediazione e di sfruttamento dei lavoratori connotate da un disvalore penale troppo consistente per essere assorbite nelle mere ipotesi di intermediazione illecita, ma al contempo non così gravi da poter integrare una vera e propria forma di riduzione in schiavitù ex art. 600 c.p. (cd. caporalato ‘grigio’); tale funzione, peraltro, è stata cristallizzata anche nella clausola di sussidiarietà che fa da incipit alla disposizione incriminatrice in parola.
La previgente formulazione della disposizione in esame (ampiamente modificata ad opera della legge 199/2016) aveva attratto fin dall’inizio le più accese critiche della dottrina . Al centro delle perplessità vi era, in primis, la discutibile scelta di incentrare la condotta tipica esclusivamente sulla persona del caporale, lasciando fuori il datore di lavoro dal suo ambito di operatività soggettivo.
Con questa scelta punitiva, infatti, si esentava da qualsiasi risposta sanzionatoria penale, ex art. 603 bis c.p., proprio il naturale destinatario e beneficiario ultimo della manodopera acquisita illegalmente, ossia il datore di lavoro, con evidenti ripercussioni negative sulla efficacia della disciplina penalistica di contrasto al caporalato.
Sul piano sistematico, inoltre, la mancata inclusione del datore di lavoro tra i soggetti attivi del reato si presentava irragionevole e contraria al principio di uguaglianza riconosciuto all’art. 3 della Costituzione , a causa della disparità di trattamento tra, da un lato, il lavoratore sfruttato straniero irregolare e, dall’altro, quello italiano o straniero regolare . E infatti, l’articolo 22, comma 12-bis, T.U. immigrazione sottopone a sanzioni penali aggravate il datore di lavoro che si avvale di lavoratori stranieri privi del permesso di soggiorno ovvero con il permesso scaduto, revocato o annullato, quando i lavoratori siano sottoposti alle condizioni di particolare sfruttamento di cui al terzo comma dell’articolo 603-bis c.p., prescindendo dall’esistenza o meno a monte di un’illecita intermediazione. Al contrario, (sempre prima della riforma del 2016) il lavoratore non straniero irregolare, anche se sottoposto alle medesime condizioni di grave sfruttamento, non veniva tutelato in forza dell’art. 603 bis c.p., se non limitatamente alle ipotesi in cui fosse avviato al lavoro tramite la mediazione del caporale.
Peraltro, la disposizione risultava viziata anche da un difetto di logicità intrinseca, poiché i confini soggettivi della fattispecie incriminatrice non erano coerenti con gli indici di sfruttamento indicati al comma II della medesima disposizione, alcuni dei quali (si pensi alla corresponsione della retribuzione o alla violazione della disciplina in materia di orario di lavoro) sono in grado di attagliarsi solo ed esclusivamente alla figura e alle funzioni proprie del datore di lavoro.
Per queste ragioni la disposizione de qua è stata ritenuta dalla più attenta dottrina ‘strabica e distorsiva’ . Alla base di questa inadeguata struttura della fattispecie forse vi era un’incompleta conoscenza del fenomeno: il caporalato, infatti, si sviluppa come un rapporto trilaterale tra datore di lavoro, intermediario e lavoratore sfruttato; all’interno di questo rapporto il datore di lavoro assolve un ruolo fondamentale, ossia quello di creare l’offerta di lavoro e di avvalersi della manodopera procurata dal caporale.
Per porre rimedio a questo vulnus alla tutela del lavoratore sfruttato la dottrina ha elaborato due principali escamotage onde pervenire alla sanzionabilità penale ex art. 603 bis c.p. anche delle condotte del datore di lavoro, senza incorrere in violazioni del principio di tassatività e del divieto di analogia in malam partem. In primo luogo, è stata prospettata la punibilità del datore di lavoro a titolo di concorso nell’attività dell’intermediario, in forza del combinato disposto tra gli artt. 603 bis e 110 c.p. e, eventualmente, anche con l’operatività dell’art. 112, n. 2, c.p., che prevede una circostanza aggravante per aver promosso o organizzato la cooperazione nel reato o per aver diretto l’attività dei concorrenti. Questa soluzione, tuttavia, era di difficile operatività, stante l’enorme difficoltà di conseguire la prova, oltre ogni ragionevole dubbio, della rilevanza oggettiva e soggettiva della condotta posta in essere dal datore di lavoro in quelle ipotesi, peraltro non infrequenti nella prassi, in cui l’intermediario non operava su incarico o alle dipendenze del datore di lavoro .
Più creativa è stata quella parte della dottrina che, sempre al fine di eludere i deficit della disposizione ma con un’opzione ai margini del rispetto del principio di tassatività in materia penale, ha proposto un’interpretazione in chiave strettamente penalistica del concetto di intermediazione, disancorata dalle corrispondenti definizioni privatistiche e giuslavoristiche e idonea a comprendere l’intero disvalore della condotta incriminata. In particolare, si è inclusa nel concetto di intermediazione ogni “attività organizzata di reclutamento e disciplina (organizzazione) del lavoro di soggetti che svolgono le mansioni in un contesto lavorativo ed esistenziale intrinsecamente caratterizzato da sfruttamento” ; reclutamento (del caporale) e organizzazione (del datore di lavoro) dell’attività lavorativa sarebbero, pertanto, le due note modali dell’intermediazione. Così intesa la condotta tipica sarebbe riferibile direttamente anche al datore di lavoro, senza necessità di ricorrere alla configurazione del concorso di persone. L’autore appena citato ritiene, inoltre, che l’adesione a questa impostazione consenta anche di meglio definire i rapporti tra il reato di intermediazione illecita e il reato associativo: l’assurgere dell’organizzazione a elemento costitutivo tipico del reato di cui all’art. 603 bis c.p. consentiva di escludere inutili e sovrabbondanti contestazioni anche del reato associativo.
Peraltro, sempre con riguardo alla condotta incriminata, l’art. 603 bis c.p. richiedeva che il reclutamento e l’organizzazione del lavoro fossero poste in essere con particolari modalità, ossia con l’uso di violenza, minaccia o intimidazione, oltre che con l’approfittamento dello stato di necessità o di bisogno del lavoratore. La disposizione richiedeva, altresì, che dietro l’attività di reclutamento e di organizzazione della mano d’opera, vi fosse una struttura organizzativa. Di talché l’art. 603 bis c.p. non garantiva alcuna tutela al lavoratore che accettava condizioni di lavoro disumane e degradanti, perché ‘costretto’ dal suo stato di bisogno e di necessità e non anche dall’utilizzo di violenze o minacce da parte dell’intermediario .
In sintesi, nella formulazione originaria della fattispecie incriminatrice non erano suscettibili di sanzione penale ex art. 603 bis c.p. né l’attività di sfruttamento del lavoro posta in essere dal datore di lavoro, né l’intermediazione del caporale non realizzata mediante violenza, minaccia o intimidazione o non supportata da una struttura organizzativa.
Inoltre, il delitto di cui all’art. 603-bis c.p. non figurava tra i reati-presupposto idonei a determinare la responsabilità amministrativa da reato dell’ente nell’interesse o a vantaggio del quale viene prestata l’attività di intermediazione illecita e di sfruttamento del lavoro; così impedendo ai rimedi penalistici di assolvere ad una effettiva funzione sanzionatoria e deterrente nei confronti delle strutture societarie criminali che, con il passare del tempo, intensificavano la propria attività nello sfruttamento del lavoro al fine di accrescere in modo esponenziale i profitti.
A questo si aggiungeva, altresì, la mancanza di una misura in grado di incidere in modo definitivo sui profitti conseguiti dallo sfruttamento dei lavoratori, potendo trovare applicazione la misura della confisca solo nei limiti della disciplina prevista dall’art. 240 c.p., in contrasto peraltro (quantomeno con riguardo ai lavoratori stranieri) con la direttiva 2009/52/CE che prescrive agli Stati membri l’adozione di misure penali efficaci, persuasive e proporzionate per il contrasto al fenomeno dello sfruttamento del lavoro di cittadini immigrati.
A supporto della inadeguatezza della normativa esaminata a costituire un valido strumento repressivo viene in rilievo la considerazione secondo cui alle notevoli dimensioni del fenomeno non corrisponde una altrettanto consistente instaurazione di procedimenti penali per il reato di cui all’art. 603 bis c.p. . A ben vedere, come autorevolmente sostenuto, la debolezza e inefficacia del contrasto è dovuta, ancor prima che alla imprecisa formulazione legislativa della disposizione de qua, alla mancanza del ‘governo’ di un vero e proprio ‘sistema di produzione’ nelle politiche pubbliche in campo economico e sociale e alla discutibile scelta di conferire ad una fattispecie incriminatrice, peraltro inserita tra i delitti contro la libertà individuale ovvero il ‘nucleo duro’ del diritto penale, una funzione regolatoria in materia di sviluppo e occupazione .
Alla luce di queste considerazioni generali va letta e interpretata la riscrittura ad opera della legge n. 199 del 2016 (rubricata “Disposizioni in materia di contrasto ai fenomeni del lavoro nero, dello sfruttamento del lavoro in agricoltura e di riallineamento retributivo nel settore agricolo”) della fattispecie incriminatrice di intermediazione illecita e di sfruttamento del lavoro di cui all’art. 603 bis c.p., destinata a superare i limiti della pregressa disciplina.
3. La legge n. 199 del 2016 e il nuovo ‘volto’ dell’art. 603-bis c.p.
In linea con la rubrica della disposizione, l’art. 603 bis c.p. nell’attuale formulazione incrimina due differenti condotte, ossia i due momenti in cui si sviluppa il mercato illegale del lavoro: la prima di reclutamento di manodopera allo scopo di destinarla al lavoro presso terzi in condizioni di sfruttamento, approfittando dello stato di bisogno dei lavoratori ; la seconda, introdotta ex novo nel 2016, di utilizzazione, assunzione, o impiego di manodopera, sottoponendo i lavoratori a condizioni di sfruttamento e, anche in questa seconda ipotesi, approfittando del loro stato di bisogno.
Dal raffronto tra la disposizione ante 2016 e quella risultante dalla riforma emerge che mentre prima il reclutamento era solo una delle modalità in cui poteva manifestarsi l’attività di intermediazione, sulla quale era incentrato il reato, oggi è il reclutamento stesso della manodopera ad essere la condotta incriminata al centro della fattispecie di cui alla lett. 1), comma 1, dell’art. 603 bis c.p. L’interpretazione dei due concetti può ritenersi equivalente, di talché sono da includere nell’attività di reclutamento tutte quelle operazioni di facilitazione dell’incontro tra domanda e offerta di manodopera , del resto l’adesione ad un concetto di reclutamento più stringente di quello di intermediazione si porrebbe in netto contrasto con il fine ultimo della riforma ovvero ampliare l’ambito di operatività della fattispecie de qua.
Come si evince dalla formulazione della disposizione (ovvero dalla locuzione “anche mediante l'attività di intermediazione di cui al numero 1” contenuta al comma 1, n. 2, art. 603 bis c.p.) e come rilevato dalla più attenta dottrina, l’attività di intermediazione e di sfruttamento si pongono in rapporto di progressione non necessaria . Invero, seppur sul piano empirico-fattuale il reclutamento di mano d’opera e l’incontro tra domanda e offerta di lavoro normalmente precedono l’utilizzo della forza lavoro così reclutata, a rilevare penalmente è anche il mero reclutamento della manodopera che non si traduca in un effettivo sfruttamento della stessa, in quanto la destinazione al lavoro presso terzi è solo l’oggetto del dolo specifico sotteso alla condotta e non anche elemento materiale del reato. Allo stesso modo, è penalmente sanzionato lo sfruttamento dei lavoratori anche se non intermediato dall’attività del caporale, in quanto la disposizione prevede che l’impiego del lavoro possa avvenire “anche” e, quindi, non esclusivamente mediante l’attività di intermediazione descritto al n. 1 dell’art. 603-bis c.p.
A questo rapporto di progressione tra reclutamento e sfruttamento si collega anche un’altra questione: ci si chiede, in particolare se, nel caso in cui il reclutamento abbia realizzato l’incontro tra la domanda e l’offerta di lavoro ma non sia ancora sfociato nello sfruttamento dei lavoratori, il datore di lavoro vada esente da qualsiasi responsabilità penale. A ben vedere, sembrerebbe che l’attuale formulazione della fattispecie incriminatrice sia idonea ad ampliare i margini dell’intervento penale fino al punto di incriminare il committente anche nelle ipotesi in cui non si sia poi effettivamente avvalso della forza lavoro. In particolare, il datore di lavoro potrebbe rispondere a titolo di concorso nel reato consumato di reclutamento (ai sensi degli artt. 110 e 603 bis, comma 1, n. 1, c.p.), soluzione preferibile nelle ipotesi in cui il datore di lavoro abbia sollecitato l’attività del reclutatore, o per il tentativo di sfruttamento dei lavoratori (ai sensi degli artt. 56 c.p. e 603 bis, comma 1, n. 2, c.p.), soluzione più adatta alle ipotesi in cui lo sfruttamento dei lavoratori non si sia realizzato per cause avulse dalla volontà degli autori .
All’ampliamento sul piano oggettivo delle condotte penalmente rilevanti corrisponde, sul piano soggettivo di applicazione, un’estensione della platea dei soggetti attivi del reato: intermediario e datore di lavoro, figure soggettive rispettivamente corrispondenti all’attività di intermediazione e di sfruttamento.
Si è sostenuto in dottrina che si è in presenza di un reato comune, come si desume dall’indicazione del soggetto attivo nella locuzione “chiunque”; e infatti le qualifiche di datore di lavoro e di intermediario non devono preesistere al fatto ma dipendono proprio dalla realizzazione di una, o entrambe, delle condotte incriminate. Ė, pertanto, la descrizione della condotta a determinare una selezione dei soggetti attivi in due categorie qualificate: l’intermediario e, a partire dal 2016, il datore di lavoro .
Inoltre, sempre riguardo alla condotta incriminata, la disposizione non prevede più né la violenza, minaccia o intimidazione, come elementi costitutivi della condotta, né il requisito dell’organizzazione dell’attività di intermediazione. Anche questa modifica è stata accolta con il favore della dottrina, la quale ha rilevato che si trattava di modalità esecutive della condotta che in realtà erano prive di una effettiva e concreta carica offensiva del bene giuridico a cui presidio è posta la fattispecie incriminatrice in questione . Peraltro, dalla scelta di semplificazione della struttura del reato ne consegue un rilevante alleggerimento dell’onere della prova gravante sulla pubblica accusa in sede processuale; probabilmente anche questo è un effetto previsto e voluto dal legislatore in un’ottica di ampliamento dell’operatività del reato .
L’eliminazione dell’organizzazione dagli elementi costitutivi della condotta impone una rivisitazione dei rapporti tra associazione per delinquere e intermediazione illecita. Prima della riforma, infatti, la contestazione di una condotta necessariamente organizzata del caporale induceva a contestare il reato di associazione per delinquere (art. 416 c.p.) in cui l’intermediazione illecita risultava come reato-fine . La riforma ha ridefinito sul piano formale i rapporti tra questi due reati, eliminando la configurabilità di una corrispondenza, quasi biunivoca, tra associazione e intermediazione illecita, ma nella realtà – come già si è avuto modo di rilevare nella descrizione del fenomeno sociale del caporalato – si tratta di reati che, nella prassi, vanno spesso di pari passo .
Al contrario, è stato confermato il riferimento, per entrambe le ipotesi criminose menzionate, all’approfittamento dello stato di bisogno; viene invece soppresso il richiamo allo stato di ‘necessità’ ritenuto sovrabbondante e foriero di dubbie interpretazioni.
Il legislatore non fornisce alcun supporto per l’interpretazione del concetto di ‘approfittamento dello stato di bisogno’, infatti né ne offre una definizione, né individua indici di orientamento assimilabili a quelli previsti come indici di sfruttamento. La dottrina, di conseguenza, ha fatto ricorso agli indici normativi e alla giurisprudenza affermatasi in relazione ad altre figure di reato che la contemplano come suo elemento costitutivo (si pensi alla riduzione in schiavitù) e l’ha intesa come lo stato di vulnerabilità in cui la persona non abbia altra alternativa accettabile che cedere alle richieste dell’intermediario o del datore di lavoro .
Sul piano testuale la formulazione riproduce quella della circostanza aggravante dell’usura di cui all’art. 644, comma 5, c.p., ma si è attentamente osservato che le due ipotesi non si equivalgono perché mentre quest’ultima consisterebbe nell’aver commesso il reato in danno di chi si trova in stato di bisogno, nel delitto de quo l’elemento costitutivo sarebbe rappresentato dalla condotta di approfittamento; sicché mentre la prima ipotesi è incentrata sul maggior danno della vittima ovvero su un fatto oggettivamente più dannoso, la seconda pone l’accento sulla condotta maggiormente riprovevole dell’agente con una conseguente connotazione soggettiva dell’elemento . Peraltro, lo stato di bisogno nel contesto dell’art. 603 bis c.p., se inteso in senso strettamente oggettivo, finirebbe per essere sempre considerato in re ipsa in quanto rileva in relazione all’attività lavorativa che è di regola funzionale alla soddisfazione di bisogni primari . Per questo motivo si è ritenuto che sarebbe stato più adeguato il riferimento ad una “situazione di vulnerabilità” del lavoratore, elemento che contraddistingue diverse ipotesi criminose incentrate sulla posizione di debolezza e soggezione della vittima del reato (artt. 600, 601, c.p.) . Nella Relazione illustrativa, invero, si è avuto modo di precisare che “le nozioni di sfruttamento e di stato di bisogno debbono dunque essere intese in stretta connessione tra loro, costituendo la situazione di vulnerabilità di chi versa in stato di bisogno il presupposto della condotta approfittatrice del soggetto agente, attraverso la quale realizzare lo sfruttamento” .
Ė chiaro che l’interpretazione di questo elemento della fattispecie risente in modo significativo dell’eliminazione della violenza, minaccia e intimidazione come elementi modali della condotta: a partire dal 2016, infatti, non rileva solo la situazione di ‘costrizione’ determinata dalla condotta violenta o minacciosa dell’autore del reato, ma anche la situazione di bisogno, derivante da altra causa, che induce il lavoratore a prestare la propria manodopera in condizioni degradanti . Si pensi che, in un recente arresto giurisprudenziale, si è ritenuto sussistente lo stato di bisogno nei confronti di lavoratori clandestini, poiché per le loro precarie condizioni di vita non avevano altra alternativa all’accettazione di condizioni di lavoro malsane .
La minore puntualizzazione della condotta, inoltre, consente di superare anche le critiche sollevate dalla più attenta dottrina secondo cui i confini tra riduzione in schiavitù e intermediazione illecita, nella precedente formulazione dell’art. 603 bis c.p., erano così labili da privare di qualsiasi operatività quest’ultima fattispecie incrimatrice: entrambe le disposizioni, infatti, indicavano tra gli elementi costitutivi del reato sia l’utilizzo della violenza, minaccia o intimidazione, sia l’approfittamento dello stato di bisogno della vittima; ragion per cui in presenza delle stesse poteva ritenersi integrato il reato più grave di riduzione in schiavitù, mentre in mancanza di tali elementi il fatto era da ritenersi atipico e non sussumibile neanche nella fattispecie meno grave di intermediazione illecita .
Quanto ancora al delitto di utilizzo della manodopera da parte del datore di lavoro, ai fini dell’integrazione del reato non è sufficiente una condotta isolata o occasionale, come si evince dalla struttura e descrizione del delitto de quo, per il quale si richiede che il datore di lavoro sottoponga il lavoratore a “condizioni di sfruttamento” (l’utilizzo del plurale è significativo) con l’approfittamento del suo stato di bisogno, concetti in cui è implicita la reiterazione di plurime condotte dotate di omogeneità offensiva. Questa scelta, peraltro, è confermata anche nella descrizione degli indici di sfruttamento (nn. 1 e 2) in cui si richiede espressamente la reiterazione. Il delitto, quindi, si struttura come reato abituale .
Diversa è l’ipotesi di reclutamento della manodopera, per la quale potrebbe risultare di per sé rilevante anche una singola condotta, in quanto la destinazione alle condizioni di sfruttamento attiene solo alla prospettazione soggettiva in capo al reclutatore, non è invece necessario che si verifichi sul piano fattuale .
Per quanto concerne gli indici di sfruttamento previsti al comma III, occorre prima di tutto chiarire la natura e la rilevanza degli stessi. La dottrina prevalente è concorde nel ritenere che questi non assurgono a elementi costitutivi del reato ma siano indici con una funzione di ‘orientamento probatorio’ e, pertanto, tutte le critiche sul difetto di determinatezza della loro formulazione possono essere superate, in quanto gli indici probatori non devono sottostare ai principio di determinatezza e di tassatività cui soggiacciono gli elementi costitutivi del reato.
Da questa qualificazione ne consegue che il giudice, nell’esercizio del suo libero convincimento è solo ‘guidato’ da questi indici ma non agli stessi vincolato, può escludere la configurabilità del reato qualora, pur in presenza di una o più delle ipotesi previste, non ritenga in concreto sussistente un vero e proprio sfruttamento di lavoratori. Al pari, l’asserito difetto di completezza dell’elenco, dovuto alla omessa previsione di alcune ipotesi parimenti rilevanti (come la presenza di forme di appalto fittizio realizzata in modo sintomatico e in violazione delle disposizioni previste dalla legge) non impedisce al giudice di ritenere integrato il reato in presenza di casi di sfruttamento non sussumibili negli indici previsti dal legislatore ma parimenti rilevanti; si tratta infatti di un indice ‘aperto’ ad ulteriori casi di sfruttamento.
Nei tratti generali gli indici di sfruttamento non hanno subito rilevanti modifiche; a rilevare, infatti, è sempre la sussistenza di una o più delle seguenti condizioni: la reiterata corresponsione di retribuzioni palesemente difformi dalle previsioni dei contratti collettivi nazionali o territoriali stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative a livello nazionale o comunque sproporzionate rispetto alla quantità e qualità del lavoro prestato; la reiterata violazione della normativa in materia di orario di lavoro, periodi di riposo, aspettativa obbligatoria e ferie; l’inosservanza delle prescrizioni in materia di igiene e sicurezza nei luoghi di lavoro; e, infine, la sottoposizione del lavoratore a condizioni di lavoro, a metodi di sorveglianza o a situazioni alloggiative degradanti.
Non sembra particolarmente rilevante la sostituzione dell’aggettivo ‘sistematica’ con quello più chiaro e definito di ‘reiterata’, riferito alla corresponsione di retribuzioni e alle violazioni della normativa in materia di orari di lavoro (ovvero gli indici di cui ai nn. 1 e 2); peraltro, a voler evidenziare la differenza terminologica invero molto sfumata, l’attuale formulazione appare più sensata, in quanto a connotare il disvalore penale della condotta non è tanto la corrispondenza a un modello operativo prestabilito, quanto la sua commissione in modo non occasionale ma ripetuto .
Quanto, inoltre, all’ulteriore indice consistente nella violazione della normativa in materia di sicurezza e igiene sui luoghi di lavoro, non si richiede più – come invece precisava la previgente disposizione – che siano ‘tali da esporre il lavoratore a pericolo per la salute, la sicurezza o l’incolumità personale’.
Questa modifica è stata accolta con favore, anche se alcuni autori, al contrario, ritengono che l’aver disancorato la violazione delle disposizioni in materia di sicurezza sul lavoro dalla loro incidenza sulla incolumità del lavoratore comporta il rischio di un’applicazione troppo generalizzata delle sanzioni penali previste dall’art. 603 bis c.p. (irrigidite peraltro con la novella del 2016 dalla previsione della responsabilità dell’ente, la confisca per equivalente, la confisca allargata) a tutte le ipotesi di violazione di disposizioni sulla regolarità delle procedure lavorative, anche se sanzionate solo in via amministrativa . A ben vedere, il rischio di estensione della repressione penale ex art. 603 bis c.p. anche a condotte solo marginali può essere evitato valorizzando il bene giuridico tutelato dalla fattispecie incriminatrice, ovvero la libertà personale e la dignità umana .
Quanto, infine, all’ultimo indice di sfruttamento il legislatore ha deciso di eliminare l’avverbio ‘particolarmente’, evitando di creare una sorta di ‘scala del degrado’ e ascrivendo così rilevanza a tutte quelle condizioni di lavoro e di alloggio qualificabili come degradanti.
Per quanto riguarda, infine, l’elemento soggettivo del reato, occorre operare una distinzione tra l’attività di intermediazione e quella di sfruttamento del lavoro .
Si ritiene che la prima ipotesi criminosa sia qualificabile come reato a dolo specifico, di talché lo sfruttamento dei lavoratori reclutati costituisce oggetto solo della prefigurazione e volizione del soggetto agente senza dover necessariamente concretizzarsi ai fini dell’integrazione del reato .
Il legislatore, infatti, ha inteso rafforzare la tutela del bene giuridico presidiato dalla disposizione, anticipando l’intervento penale alla esposizione a pericolo dello stesso. Peraltro, la sostituzione dell’‘attività organizzata di intermediazione’ (di cui al previgente art. 603 bis c.p.) con quella di reclutamento della manodopera allo scopo di destinarla allo sfruttamento presso terzi, determina lo spostamento delle condizioni di sfruttamento dal piano oggettivo al piano soggettivo del reato, così arretrando l’area del penalmente rilevante e ampliando il novero delle condotte sussumibili nella fattispecie e determinando, altresì, una semplificazione dell’onere probatorio . Come ha avuto modo di precisare la giurisprudenza di legittimità, non è richiesta in capo all’agente la volontà di perseguire un fine di lucro, come peraltro confermato dalla collocazione sistematica della disposizione nel contesto del titolo XII del libro II del codice penale riguardante i delitti contro la persona .
La seconda ipotesi criminosa, invece, si struttura come reato di danno con dolo generico, per la cui configurazione quindi è necessario che si verifichi l’assunzione e lo sfruttamento dei lavoratori assistite, sul piano soggettivo, dalla coscienza e volontà della condotta in capo all’autore.
4. Le circostanze aggravanti e attenuanti del reato.
Alla semplificazione della condotta nella fattispecie incriminatrice base corrisponde la previsione di un trattamento sanzionatorio più attenuato rispetto a quello previsto dalla disposizione previgente: la pena della reclusione da uno a sei anni e la multa da 500 a 1.000 euro sostituiscono la pena della reclusione da cinque a otto anni e della multa da 1.000 a 2.000 euro per ciascun lavoratore reclutato. Il trattamento sanzionatorio da ultimo richiamato, prima previsto per la fattispecie incriminatrice base, adesso è destinato a trovare applicazione – in forza del comma II dell’art. 603 bis c.p. – nelle fattispecie di intermediazione e sfruttamento aggravate dall’utilizzo di violenza o minaccia, in applicazione della circostanza ad effetto speciale prevista dal comma 2 dell’art. 603 bis c.p..
Per il reato de quo, inoltre, il comma 4 della disposizione citata prevede tre ulteriori circostanze aggravanti ad effetto speciale, le quali comportano un aumento della pena da un terzo alla metà, per l’ipotesi in cui il numero dei lavoratori reclutati sia superiore a tre e quella in cui uno o più dei soggetti reclutati siano minori in età non lavorativa . La dottrina è divisa tra chi ritiene che queste prime due circostanze siano applicabili solo all’intermediario, in considerazione dell’esplicito riferimento ai “lavoratori reclutati” e chi, contrario interpreta il termine ‘reclutati’ come ‘assoldati’, anche indipendentemente dall’attività di intermediazione del reclutatore, ed estende l’operatività della aggravante de qua anche al datore di lavoro .
L’ultima ipotesi, inoltre, opera nei confronti del reclutatore e del datore di lavoro i quali abbiano esposto lavoratori sfruttati a situazioni di grave pericolo, avuto riguardo alle caratteristiche delle prestazioni da svolgere e delle condizioni di lavoro; si tratta di un’ipotesi di aggravamento della pena strettamente correlata al terzo degli indici di sfruttamento già menzionati. In questo caso, stante il riferimento ai “lavoratori sfruttati”, l’aggravante può essere applicata al reclutatore solo nelle ipotesi in cui alla intermediazione tra domanda e offerta di lavoro faccia effettivamente seguito lo sfruttamento dei lavoratori.
Inoltre, in linea con la tecnica legislativa di emergenza di tipo premiale che connota la produzione normativa degli ultimi anni, il d.lgs. n. 199 del 2016 ha introdotto all’art. 603 bis1 c.p. una circostanza attenuante speciale per il delitto di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro che rende inoperante per il reato de quo la circostanza, di cui all’art. 600 septies.1 c.p., applicabile a tutti i reati contro l’incolumità individuale.
La disposizione di nuova introduzione riconosce un trattamento di favore a colui che, rendendo dichiarazioni su quanto a sua conoscenza, si attivi per evitare che l'attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori o aiuti concretamente l'autorità di polizia o l'autorità giudiziaria nella raccolta di prove decisive per l'individuazione o la cattura dei concorrenti o per il sequestro delle somme o altre utilità. La riduzione di pena è ancora più importante di quella prevista dall’art. 600 septies1 c.p.; infatti, la pena può essere diminuita da un terzo a due terzi e non da un terzo fino alla metà.
La circostanza de qua, inoltre, come si evince dalla precisazione secondo cui l’ausilio deve consistere “nel rendere dichiarazioni su quanto a sua conoscenza”, si caratterizza per una connotazione spiccatamente processuale. Inoltre, con l’avverbio ‘concretamente’ (al posto del termine ‘efficacemente’ previsto nel disegno di legge originario) sembra che a rilevare sia solo il contributo che possa qualificarsi come significativo e decisivo, ossia senza il quale la magistratura non avrebbe conseguito i medesimi risultati investigativi.
Come si evince dalla mancata indicazione del collaboratore come ‘concorrente’ (a differenza di quanto previsto dall’art. 600 septies1 c.p.), la circostanza attenuante in parola può trovare applicazione non solo nei confronti di colui che sia formalmente qualificabile come concorrente nel reato ma anche a favore di chi renda informazioni utili in relazione ad un reato che non lo coinvolge direttamente come correo .
Ė chiaro che l’introduzione di questa disposizione di favor per chi decide di collaborare con la giustizia, trova la propria ratio nella particolare diffusione, radicazione e difficile emersione del fenomeno del caporalato e nella conseguente sconfortante consapevolezza dell’inidoneità di una politica di contrasto incentrata esclusivamente sugli strumenti classici di coercizione e non aperta anche a qualche forma di collaborazione e resipiscenza di persone coinvolte nella commissione del reato; è questa forma di cooperazione che il legislatore del 2016 ha voluto incentivare.
Per evitare che la misura premiale sia utilizzata a fini distorsivi dalle persone coinvolte, le quali potrebbero rendere informazioni non veritiere al solo fine di beneficiare degli sconti di pena conseguenti, il comma 2 dell’articolo in esame prevede che nel caso di dichiarazioni false o reticenti trova applicazione l’art. 16 septies del d.l. 8/1991, convertito con modificazioni dalla legge n. 82 del 1991. Ne consegue che la sentenza con la quale è stata riconosciuta l’operatività dell’art. 603 bis.1, c.p. può essere sottoposta a revisione qualora la circostanza attenuante sia stata applicata per effetto di dichiarazioni false o reticenti, oltreché quando chi ne ha beneficiato commette, entro dieci anni dal passaggio in giudicato della sentenza, un delitto per cui è previsto l’arresto in flagranza obbligatorio.
5. Il regime sanzionatorio e la responsabilità delle persone giuridiche.
La legge n. 199 del 2016 ha inserito nel codice penale anche l’art. 603 bis.2. rubricato “confisca obbligatoria”, affiancando così alla pena della reclusione da uno a sei anni e della multa da 500 a 1.000 euro anche una misura di carattere patrimoniale destinata ad inibire la formazione di patrimoni di provenienza criminale. La disposizione de qua prevede la confisca obbligatoria, anche nella forma per equivalente , del prezzo, del prodotto e del profitto proveniente dal reato di intermediazione illecita, salvo che appartengano a persona estranea al reato.
Qualora la confisca diretta non sia possibile, allora è ammessa la confisca obbligatoria nella forma per equivalente, avente ad oggetto i beni di cui il reo ha la disponibilità, anche per interposta persona, per un valore corrispondente al prodotto, prezzo o profitto del reato. Questa ipotesi di confisca consentirebbe peraltro di evitare di bloccare la prosecuzione dell’attività lavorativa e, quindi, di garantire la conservazione del posto di lavoro a quei lavoratori in regola.
Inoltre, a completamento del quadro delle misure di carattere patrimoniale si evidenzia che il comma 5 della legge n. 199 del 2016 ha inserito l’art. 603 bis c.p. tra i reati indicati nell’art. 12-sexies, comma 1, D.L. 306/1992 (convertito con modificazioni nella legge n. 356/1992) per i quali è prevista anche l’operatività della confisca allargata, avente ad oggetto il denaro, i beni o le altre utilità di cui il condannato risulti essere titolare o avere la disponibilità a qualsiasi titolo, per un valore sproporzionato rispetto al proprio reddito e dei quali non può giustificare la provenienza.
Sempre nell’ottica della prosecuzione dell’attività di impresa e della conseguente conservazione dei posti di lavoro va intesa la ratio sottesa alla previsione della possibilità per il giudice di disporre, in luogo del sequestro, il controllo giudiziario dell’azienda presso cui è stato commesso il reato, in tutte quelle ipotesi in cui l’interruzione dell’attività imprenditoriale possa comportare ripercussioni negative sul livello occupazionale o sul valore economico del complesso aziendale. Il giudice nomina uno (o più) amministratore giudiziario, iscritto nel relativo albo, il quale affianca l'imprenditore nella gestione dell'impresa e autorizza lo svolgimento degli atti di amministrazione utili per l’attività imprenditoriale, tenendo informato il magistrato ogni tre mesi o comunque ogni qualvolta riscontri irregolarità nella prosecuzione dell’attività. In particolare, l’amministratore giudiziario procede alla regolarizzazione dei lavoratori che svolgevano le mansioni lavorative senza un regolare contratto e adotta tutte le misure idonee a prevenire la reiterazione delle violazioni contestate .
Tale disposizione, seppur apprezzabile nel fine di preservare il valore commerciale dell’impresa e di assicurare l’impiego ai lavoratori, ha destato fin da subito dubbi; alcuni autori si sono chiesti infatti se il controllo giudiziario possa trovare applicazione sia all’imprenditore individuale che all’imprenditore societario, giungendo a soluzioni diametralmente opposte. Invero, se da un lato si è sostenuto che impedire l’operatività alle imprese societarie dello strumento in questione si porrebbe in contrasto con le finalità della normativa ; dall’altro lato, al contrario, si è rilevato che, in seguito all’introduzione dell’art. 603 bis c.p. tra i reati presupposto per la responsabilità amministrativa degli enti, per le società possa trovare applicazione il solo sequestro funzionale alla confisca, disciplinato dall’art. 53 d.lgs. 231/2001 . Quest’ultima soluzione, tuttavia, apre la strada ad un’ulteriore problematica, ossia la disparità di trattamento che si verrebbe a creare tra l’imprenditore individuale e quello societario, il primo dei quali è sottoposto ad un regime di sequestro dell’azienda più severo.
Infine, l’art. 6 della legge n. 199 del 2016 ha inciso anche sull’art. 25-quinquies del d.lgs. 231/2001, inserendo l’art. 603 bis c.p. tra i reati -presupposto per la responsabilità dell’ente a vantaggio o nell’interesse del quale è commessa l’attività criminosa, così ponendo rimedio ad uno dei principali limiti della precedente disciplina. Si era in presenza di una lacuna legislativa che non solo arrecava un grave vulnus all’effettività della repressione penale, ma che si presentava anche particolarmente contraddittoria, in totale spregio al principio di ragionevolezza dell’ordinamento giuridico, se si pensa che il d.lgs. 231/2001 già prevedeva la responsabilità delle persone giuridiche sia per il reato di riduzione in schiavitù, sia per il reato di impiego di cittadini di paesi terzi il cui soggiorno è irregolare. Peraltro, questa omissione si poneva anche in contrasto con le previsioni delle direttive comunitarie e, in particolare, con l’art. 11 della direttiva 52/2009/CE.
Per raggirare i limiti dell’impianto legislativo e trovare il modo di incidere anche sulle persone giuridiche, destinatarie ultime dei vantaggi economici perseguiti dallo sfruttamento della forza lavoro, la dottrina aveva ideato una soluzione, invero ai limiti con il principio di tassatività e determinatezza oltreché di difficile applicazione pratica: l’ente avrebbe potuto rispondere, ex art. 25 octies d.lgs. 231/2001, per il reato-presupposto di autoriciclaggio, destinato ad operare sia per il fatto del caporale che reimpieghi in attività solo apparentemente lecite il denaro ottenuto illecitamente dai lavoratori, sia per il fatto del datore di lavoro che investa nella sua attività di impresa i vantaggi economici ottenuti dal suo concorso nel reato .
Per completare il quadro delle conseguenze sanzionatorie occorre fare un cenno alle sanzioni accessorie disciplinate all’art. 603 ter c.p. Nel caso di condanna per il delitto in parola, è prevista l’interdizione dagli uffici direttivi delle persone giuridiche o delle imprese, nonché il divieto di concludere contratti di appalto, di cottimo fiduciario, di fornitura di opere, beni o servizi riguardanti la pubblica amministrazione e i relativi subcontratti. La condanna, inoltre, importa l’esclusione per un periodo di due anni da agevolazioni, finanziamenti, contributi o sussidi da parte dello Stato o di altri enti pubblici, nonché dell'Unione europea, relativi al settore di attività in cui ha avuto luogo lo sfruttamento.
La durata di questa esclusione è aumentata a cinque anni quando il fatto è commesso da soggetto al quale sia stata applicata la recidiva ai sensi dell'articolo 99, secondo comma, numeri 1) e 3), c.p.
Infine, l’intervento legislativo del 2016 ha introdotto anche delle modifiche di natura spiccatamente processuale. L’art. 4 ha modificato l'articolo 380, comma 2, del codice di procedura penale, inserendo dopo la lettera d) la seguente “d.1) delitti di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro previsti dall'articolo 603-bis, secondo comma, del codice penale”; così includendo il reato de quo tra quelli per i quali è previsto l’arresto obbligatorio in flagranza.
6. La tutela del lavoratore.
Una delle principali cause della difficile emersione del fenomeno del caporalato e dello sfruttamento della forza lavoro è sempre stata l’assenza di una qualsiasi forma di tutela del lavoratore. La ritrosia a presentare una denuncia si spiega, infatti, in ragione dei rischi a cui si espone il lavoratore denunciante: si tratta spesso di stranieri irregolari che rischiano di essere espulsi dal territorio dello Stato o, ancora, di stranieri provvisti di permesso di soggiorno che, in caso di perdita del lavoro e dell’alloggio, sono privati delle condizioni per soggiornare regolarmente sul territorio nazionale. A partire da questa consapevolezza si è avvertita l’esigenza di una misura che incentivasse i lavoratori reclutati a denunciare gli sfruttamenti subiti e che, quindi, attenuasse le conseguenze pregiudizievoli per il lavoratore e fosse in grado di fornirgli una adeguata tutela.
E infatti, solo l’art. 18 del d.lgs. 286/1998 prevedeva il rilascio allo straniero di un permesso di soggiorno per motivi di protezione sociale per consentirgli di sottrarsi alla violenza e ai condizionamenti dell'organizzazione criminale e di partecipare ad un programma di assistenza ed integrazione sociale; questa previsione tuttavia era limitata solo alle ipotesi particolarmente gravi di sfruttamento (come la riduzione in schiavitù). A ben vedere, tale normativa definsice il suo ambito di applicazione mediante rinvio ai reati di cui all’art. 380 c.p. (arresto obbligatorio in flagranza), tra i quali è ad oggi incluso, in seguito alla riforma apportata dall’art. 4 della legge n. 199 del 2016, anche il reato di intermediazione illecita; pertanto, sembrerebbe che l’ambito di operatività di questa tutela sia esteso anche a questo reato.
In materia di tutela dei lavoratori sfruttati è successivamente intervenuta la direttiva 2009/52/UE, riportante le “norme minime relative a sanzioni e a provvedimenti nei confronti di datori di lavoro che impiegano cittadini di paesi terzi il cui soggiorno è irregolare”, che prevede la concessione di un permesso di soggiorno per le vittime di grave sfruttamento lavorativo nel caso in cui, denunciando il fenomeno, collaborino con l’autorità giudiziaria (art. 13, direttiva) . Il d.lgs. n. 109 del 2012 ha recepito tale direttiva, introducendo nell’art. 22 del d.lgs. 286/1998 i commi da 12 bis a 12 quinques. In particolare, il comma 12 quater prevede il rilascio di un permesso di soggiorno da parte del questore, su proposta o con il parere favorevole del procuratore della Repubblica, a favore dello straniero che abbia presentato denuncia e cooperi nel procedimento penale instaurato nei confronti del datore di lavoro. La concessione di questo strumento premiale è consentita solo per motivi umanitari ed è subordinata alla sussistenza di condizioni di ‘particolare sfruttamento’, inteso quest’ultimo però in modo più restrittivo (ossia, quella del comma III dell'art. 603-bis c.p. nella formulazione previgente) rispetto alla interpretazione cui ha aderito il legislatore comunitario; sfruttamento integrato solo quando i lavoratori sfruttati siano in numero non inferiore a tre, o siano minori in età non lavorativa, o il fatto sia stato commesso esponendo i lavoratori a situazioni di grave pericolo. La portata dell’intervento di tutela è stata, quindi, particolarmente ridimensionata rispetto alle prospettive comunitarie, infatti, anche la Commissione dell’Unione Europea con comunicazione del 22 maggio 2014 ha ritenuto che il recepimento della direttiva da parte del legislatore nazionale sia stato incompleto e insoddisfacente .
La dottrina più attenta ha sostenuto che la modifica intervenuta nel 2016 potrebbe aver superato anche questo limite, perché il comma III dell’art. 603 bis c.p. – richiamato dalla disposizione in forza di un rinvio che potrebbe definirsi ‘dinamico’ - prevede oggi gli indici di sfruttamento e non più le situazioni di grave pericolo quali circostanze aggravanti del reato, così consentendo l’accesso alla concessione del permesso di soggiorno anche a lavoratori stranieri che prima erano ingiustificatamente sprovvisti di questa tutela.
Prima del 2016, tuttavia, l’ordinamento giuridico era sfornito di qualsiasi tutela a favore dei lavoratori italiani o dei cittadini dell’UE regolarmente presenti sul territorio nazionale. Una lacuna legislativa che causava una disparità di trattamento ingiustificata e sempre più inaccettabile se si considera che, come già rilevato, il fenomeno del caporalato ha vissuto dei grandi cambiamenti negli ultimi anni e coinvolge, ad oggi, non più soltanto gli stranieri irregolari ma anche gli extra-comunitari muniti di permesso di soggiorni, i cittadini comunitari e i cittadini italiani.
L’articolo 7 della legge n. 199 del 2016, nella prospettiva di assicurare una tutela risarcitoria di più ampio raggio alle vittime del reato de quo, ha modificato l’art. 12 della legge n. 228 del 2003, prevedendo l’assegnazione al Fondo anti-tratta dei proventi delle confische disposte a seguito della condanna o del patteggiamento per il reato di cui all’art. 603 bis c.p., i quali saranno destinati ad indennizzare le vittime del reato.