Testo integrale con note e bibliografia
1. Il regime delle assunzioni nel pubblico impiego alla luce dei principi costituzionali e dell’obbligo di assunzione in ruolo mediante concorso.
La fase prodromica alla costituzione del rapporto di lavoro nel pubblico impiego, ed in particolar modo quella dedicata alla scelta, attraverso procedure selettive, degli aspiranti all’impiego, è riservata alla legge e, più in generale, alle fonti secondarie.
Sul punto, è necessario evidenziare i principi costituzionali che disciplinano la materia e che impongono lo strumento del concorso quale strumento per il reclutamento del personale, salvo ulteriori casi stabiliti dalla legge (art. 97, comma 3, Cost.).
Tale articolo, come ribadito dalla giurisprudenza costituzionale, non impone un obbligo inderogabile, essendo comunque possibile il ricorso a strumenti differenti sulla base della discrezionalità del legislatore, nel rispetto dei principi di buon andamento e imparzialità della Pubblica Amministrazione.
La Consulta ha individuato infatti come strumento preferibile per la prima ammissione in carriera quello del pubblico concorso, non erigendolo tuttavia a regola assoluta e lasciando libero il legislatore di adottare in via del tutto eccezionale forme differenti di accesso ai pubblici uffici, purché anch’essi congrui e ragionevoli al soddisfacimento di peculiari e straordinarie esigenze di interesse pubblico.
L’individuazione del vincolo del concorso all’interno dell’articolo della Costituzione dedicato all’organizzazione degli uffici (art. 97) e non in quello dedicato all’impiego pubblico (art. 98) viene letto dai costituzionalisti come volontà dei costituenti di creare una Pubblica Amministrazione non mossa da ottiche clientelari, che agisca nel pieno rispetto dei principi di trasparenza e del buon andamento e sia formata da pubblici impiegati al servizio esclusivo della Nazione .
La ragione del vincolo del pubblico concorso nell’accesso a posti di pubblico impiego è stata, sin dalla fine dell’ottocento, correlata ai principi istituzionali dell’amministrazione italiana , in particolare come norma strumentale, ma essenziale, all’affermazione del principio di imparzialità degli uffici al servizio del governo (organi politici); imparzialità a sua volta indicata come uno dei principi imprescindibili dell’idea liberale dello Stato di diritto in Italia .
La riserva di legge individuata dall’art. 97 Cost., così come il generale principio di non discriminazione contenuto nell’art. 3 Cost., vengono altresì confermati in materia di pubblico impiego dal principio contenuto nell’art. 51 Cost., nel quale viene ribadito come «tutti i cittadini dell’uno o dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge».
Questo comporta che la materia degli accessi all’impiego pubblico, con riferimento alle procedure da adottare, sia rimandata alla legge che, a sua volta, può rimandare a norme di carattere secondario, in tal senso autorizzate per la definizione dei requisiti .
Le norme sul reclutamento del personale pubblico, nella loro ultima versione, sono contenute nel D. Lgs. n. 165 del 2001 (c.d. testo unico del pubblico impiego).
L’art. 36 prevede che tanto con riferimento al reclutamento del personale a tempo indeterminato che per quello a tempo determinato, l’assunzione avvenga con contratto individuale di lavoro, nel rispetto di determinate procedure e modalità previste ai sensi dell’art. 35 del medesimo testo, finalizzate all’accertamento della professionalità richiesta, che garantisca in misura adeguata l’accesso dall’esterno .
Il concorso pubblico per esami e titoli permette non solo l’accesso a tutti i cittadini in possesso di requisiti previamente e obiettivamente definiti ma anche la formazione di una graduatoria di merito, che viene a crearsi sulla base del punteggio conseguito da ogni singolo candidato nel corso delle prove svolte. Tale meccanismo permette dunque tanto l’assunzione dei più capaci e meritevoli quanto la possibilità di garantire pari opportunità a tutti i concorrenti, nel rispetto del principio di trasparenza, imparzialità ed efficienza dall’azione amministrativa .
La necessità del pubblico concorso è stata nel corso del tempo portata oltre i limiti letterali della disposizione costituzionale, ritenendo necessario il concorso non solo per l’impiego di persone non già appartenenti all’amministrazione pubblica ma anche per ogni passaggio di rapporto di lavoro da tempo determinato a tempo indeterminato nella pubblica amministrazione – pure nei casi in cui l’amministrazione abbia proseguito il rapporto oltre i termini contrattuali - e per il reinquadramento o la promozione di coloro che già fanno parte della Pubblica Amministrazione .
Con riferimento al settore scolastico, al concorso per “titoli ed esami” si è affiancato, anche a causa dell’esponenziale crescita della scolarizzazione all’inizio degli anni Sessanta del secolo scorso che comportò un notevole aumento della domanda di insegnanti, un secondo “canale” di assunzioni, anomalo in quanto senza concorso.
Il c.d. “doppio canale”, termine coniato per indicare la prassi degli anni Ottanta e Novanta di assumere docenti a tempo indeterminato non soltanto mediante lo strumento delle selezione meritocratica del concorso ma anche attraverso l’utilizzo di corsi abilitanti e la maturazione di una determinata anzianità di servizio, venne definitivamente riconosciuto con la Legge n. 417 del 1989, che affiancò al concorso per titoli ed esami, quello definito impropriamente “concorso per soli titoli”.
Se in un primo momento tale sistema riuscì a ridurre il numero di precari scolastici, l’esistenza di un meccanismo che permetteva l’accesso in ruolo sulla base dell’anzianità di servizio e la mancata indizione di bandi di concorso per titoli ed esami – nonostante la legge li prescrivesse ogni tre anni – evidenziò ben presto delle criticità, portando alla formazione di una massa di precari non abilitati e, in quanto tali, esclusi dall’immissione in ruolo.
La Legge 124/99, a distanza di dieci anni esatti dall’ultimo intervento normativo, portò alla trasformazione di quello che formalmente veniva definito “concorso per titoli” in una graduatoria permanente riservata ai docenti in possesso di abilitazione all’atto dell’aggiornamento da inserire in una graduatoria permanente dinamica, da aggiornare ogni anno, in base ai punteggi valutati secondo una tabella di valutazione dei titoli, utilizzabile sia per l’immissione in ruolo del 50% dei posti a tal fine annualmente assegnabili sia per il conferimento delle supplenze annuali o brevi .
Tali tipologie di graduatorie, con la Legge n. 296/2006, anche a seguito dell’enorme contenzioso che si era creato – principalmente innanzi ai Tribunali Amministrativi – con riferimento all’inserimento in queste graduatorie sulla base di punteggi conseguiti attraverso corsi di aggiornamento, sono state trasformate pur mantenendo la medesima funzione in graduatorie ad esaurimento, senza cristallizzare alcuna posizione ma chiudendo l’ingresso di nuovi precari all’interno di tali liste, salvo casi di immissione straordinaria.
La reiterazione ormai cronica dei contratti a tempo determinato nel settore scolastico dovuta ad un sistema di reclutamento fondato su una norma che avrebbe dovuto essere provvisoria (la Legge n. 124/1999) ma che, sino alla declaratoria di illegittimità costituzionale del suo articolo 4 e dell’entrata in vigore della legge n. 107/2015 , è invece stata il fulcro del sistema delle assunzioni a termine, ha generato un enorme contenzioso giurisprudenziale, trasformando uno strumento da eccezionale ad ordinario, in palese violazione dei principi italiani ed europei in merito a tale particolare forma di contratto di lavoro.
2. L’illegittima reiterazione del contratto a tempo determinato nel settore scolastico: una patologia cronica del sistema ancora irrisolta
Un esame dell’attuale quadro normativo e giurisprudenziale volto a regolare il rapporto di lavoro a termine nel settore scolastico non può prescindere da un seppur breve excursus storico, utile a comprendere almeno in parte le motivazioni che avrebbero portato all’enorme contenzioso giudiziario, certamente generato – o, perlomeno, alimentato - dalle lacune legislative esistenti in materia nel nostro ordinamento.
Con la legge 19 marzo 1955, n. 160, venne introdotta, quale figura di docente «non di ruolo», la posizione dell’«incaricato».
L’articolo 3 di tale norma ne individuava la definizione, testualmente affermando che dovessero essere conferiti con incarico gli insegnamenti riferibili a:
a) cattedre di ruolo ordinario vacanti;
b) posti di ruolo transitorio o di ruolo speciale transitorio vacanti;
c) posti di insegnamento esattamente corrispondenti alle cattedre o ai posti previsti dalle precedenti lettere a) e b);
d) posti per i quali a norma delle disposizioni vigenti, non fosse prevista o non fosse possibile la istituzione della cattedra di ruolo e che si riferissero all’insegnamento di almeno un corso completo, oppure che avessero comportato un orario di almeno nove ore settimanali.
L’«incaricato», che per essere tale doveva aver superato uno specifico esame di abilitazione, non era a tempo indeterminato ma «era confermato su domanda», con limiti alla conferma, sempre quale docente non di ruolo, previsti sulla base della qualifica conseguita dai professori incaricati e dati dall’immissione in ruolo di altri docenti.
La stessa norma peraltro al successivo articolo 4 precisava chi fossero i «supplenti», individuandoli nella categoria residuale di coloro che prestavano la propria attività di insegnamento «per il periodo strettamente indispensabile» della nomina temporanea.
L’«incaricato» dunque copriva posti di ruolo vacanti, mentre il «supplente» sostituiva il docente di ruolo provvisoriamente assente per breve periodo.
Con la successiva legge del 30 dicembre 1960, n. 1728, all’art. 1, il legislatore ampliava la categoria degli incarichi statuendo che potessero essere attribuiti anche «agli aspiranti forniti di titolo di studio valido per l’ammissione agli esami di abilitazione», conferendo a tale ulteriore categoria di incaricati il diritto a percepire «il trattamento giuridico ed economico previsto dalla legge 19 marzo 1955, n. 160» ma non quello di vedersi applicare l’istituto della conferma all’insegnamento previsto solo per gli incaricati già abilitati.
Ancora ribadita all’articolo 3 della stessa legge quale fosse la categoria (sempre residuale) dei supplenti, la successiva legge del 13 giugno 1969, n. 282, all’art. 1, espressamente prevedeva che «alle cattedre, ai posti ad esso esattamente corrispondenti ed a tutte le altre ore di insegnamento, a cui non fosse assegnato personale docente di ruolo, si sarebbe provveduto con personale docente non di ruolo, che sarebbe stato assunto con incarico a tempo indeterminato», statuendo che così si sarebbe proceduto «anche per cattedre o posti che, pur essendo coperti da personale docente di ruolo, fossero risultati di fatto disponibili almeno per la durata di un anno scolastico».
Sempre più ampia ed ambigua la fattispecie dell’«incaricato», la legge 22 dicembre 1977, n. 951 riaffermava che «gli insegnamenti erano conferiti per incarico annuale quando si trattava di cattedre o posti orario già coperti che, per particolare posizione giuridica del personale ad essi assegnato , fossero risultati disponibili soltanto per uno o più anni previamente determinati» e che si sarebbe provveduto, «sempre con incarichi annuali», anche «quando il numero di ore di insegnamento da conferire fosse stato inferiore a quello prescritto per la costituzione della relativa cattedra» .
Ancora una volta individuata in forma residuale e di chiusura la figura della «supplenza», la stessa restava attribuibile agli «insegnamenti non conferibili né per incarico a tempo indeterminato né per incarico annuale» .
Ed in tal senso avrebbe disposto anche la previsione di cui alla legge 9 agosto 1978, n. 463, la quale, sotto il titolo «modifiche alle norme sul conferimento degli incarichi e delle supplenze – Disposizioni concernenti il personale incaricato e supplente» - all’articolo 1 espressamente prevedeva che «alla copertura delle cattedre, delle cattedre orario e di tutte le altre ore di insegnamento, a cui non fosse stato assegnato personale docente di ruolo, si doveva provvedere con personale docente non di ruolo, che veniva assunto con incarico annuale».
La continua evoluzione della figura degli «incaricati» portava ad una proroga degli stessi con il d.l. 6 giugno 1981, n. 281, per la durata dell’anno scolastico 1981/82 e alla loro successiva abrogazione: con la legge 20 maggio 1982, n. 270, all’articolo 15 veniva introdotta a far data dall’anno scolastico 1982/83 in sostituzione di quella dell’incaricato la figura della «supplenza annuale», contrapposta alla fattispecie delle «supplenze brevi» individuata al successivo articolo 17.
La nuova definizione di coloro che erano stati sino ad allora incaricati ed erano divenuti supplenti poneva non pochi problemi agli interpreti, tanto che dovette intervenire in materia la Corte Costituzionale per affermare il principio sulla base del quale «la posizione di supplente annuale non poteva essere valutata come differenziata rispetto a quella dell’incaricato, essendo conferita dalla stessa autorità scolastica – provveditore agli studi – e con gli stessi fini organizzatori ed effetti giuridici ed economici e in base ad una medesima graduatoria provinciale».
«La diversità del nomen juris - supplenti annuali in luogo di incaricati», proseguiva la Consulta, «non doveva avere alcuna rilevanza data la identità della fattispecie sostanziale» .
Tale contesto normativo restava invariato sino all’entrata in vigore della legge 3 maggio 1999, n. 124 che ridefiniva nuovamente la figura del «supplente», delineando un sistema di reclutamento che doveva essere provvisorio ma venne, come analizzato in precedenza, utilizzato fino all’introduzione della legge 13 luglio 2015, n. 107 (c.d. “Buona scuola”).
L’art. 4, in particolare, evidenziava l’esistenza di tre differenti figure di supplenze: quelle «annuali», a copertura dei posti di insegnamento che risultino effettivamente vacanti e disponibili entro la data del 31 dicembre e che rimangono prevedibilmente tali per l’intero anno scolastico (con durata dal 1 settembre al 31 agosto dell’anno successivo), qualora non sia possibile provvedere con il personale docente di ruolo delle dotazioni organiche provinciali o mediante l'utilizzazione del personale in soprannumero, e sempreché ai posti medesimi non sia stato già assegnato a qualsiasi titolo personale di ruolo; quelle «temporanee», a copertura delle cattedre e dei posti di insegnamento non vacanti che si rendano di fatto disponibili entro la data del 31 dicembre e fino al termine dell’anno scolastico (con durata dal 1 settembre al 30 giugno); quelle «temporanee per ogni altra necessità di supplenza», con una durata non predefinita ma adattabile alle esigenze.
È in tale contesto di cronica reiterazione dei contratti a tempo determinato che si è inserito l’Accordo Quadro CES, UNICE e CEEP allegato alla direttiva 28 giugno 1999, n. 1999/70/CE del Consiglio Europeo, centrale anche nel successivo dibattito giurisprudenziale , che trovava (e trova) applicazione sia nei rapporti di lavoro privato che in quelli di lavoro pubblico, riferendosi a tutti i lavoratori che forniscano prestazioni retributive nell’ambito di un rapporto di impiego a tempo determinato.
In particolare, e relativamente al punto in interesse, assumono rilievo la clausola 3, la clausola 4 e la clausola 5 del citato Accordo.
Ripetute volte la Corte di Giustizia è intervenuta al fine di chiarire la portata delle previsioni europee e indicare al legislatore e ai giudici nazionali le linee guida da utilizzare allorché si debbano valutare ipotesi di reiterazione di contratti a termine nel settore pubblico.
I Giudici dell’Unione, ribadito che l’Accordo Quadro doveva applicarsi a tutti i lavoratori pubblici e privati, hanno chiarito che le “ragioni oggettive” richiamate dalla clausola 4 al fine di giustificare il ricorso al contratto a termine devono consistere in «circostanze precise e concrete che contraddistinguono una determinata attività e, pertanto, tali da giustificare in un simile contesto particolare l’utilizzo di contratti di lavoro a tempo determinato stipulati in successione».
Su tali premesse è quindi intervenuta la sentenza CGUE, 26 novembre 2014, n. 22 (c.d. Mascolo) con la quale la CGUE ha affermato, con riferimento specificatamente al comparto scuola, che la clausola 5, punto 1, dell’Accordo Quadro sul lavoro a tempo determinato doveva essere interpretata nel senso che osta a una normativa nazionale quale quella di cui all’art. 4, commi 1 e 11, della nostra l. n. 124/1999.
L’attestazione della mancata conformità della normativa italiana con quella europea partiva dall’assunto che non potesse autorizzarsi, in attesa dell’espletamento delle procedure concorsuali per l’assunzione di personale di ruolo delle scuole statali, il rinnovo di contratti di lavoro a tempo determinato per la copertura di posti vacanti e disponibili senza che fossero indicati tempi certi per l’espletamento di dette procedure concorsuali.
Ancor più se, come aveva fatto il legislatore nazionale, si fosse esclusa qualsiasi possibilità, per tale personale, di ottenere il risarcimento del danno eventualmente subito a causa di un siffatto rinnovo.
Alla luce dell’esame compiuto dai giudici europei sulla normativa per il reclutamento dei supplenti, fatte salve le necessarie verifiche da parte dei giudici del rinvio, appariva come da un lato, la norma non consentisse la definizione di criteri obiettivi e trasparenti utili a verificare se il rinnovo dei contratti rispondesse effettivamente ad un’esigenza reale; dall’altro, non prevedeva nessuna misura alternativa diretta a prevenire e a sanzionare il ricorso abusivo ad una successione di contratti di lavoro a tempo determinato.
La Corte, in ossequio al disposto della citata clausola 5, affermava quindi che ogni Stato membro, al fine di prevenire l’utilizzo abusivo di una successione di contratti a tempo determinato, dovesse prevedere almeno una delle misure ivi previste ovvero:
- l’indicazione delle ragioni obiettive che giustifichino il rinnovo dei contratti;
- la determinazione della durata massima dei contratti stessi;
- il numero dei loro rinnovi.
In difetto di tali requisiti la reiterazione dei contratti a tempo determinato sarebbe stata da ritenersi abusiva e, al fine di garantire la piena efficacia dell’Accordo Quadro, lo Stato membro avrebbe dovuto necessariamente prevedere una misura sanzionatoria proporzionata, effettiva e dissuasiva al fine di sanzionare debitamente l’abuso posto in essere dall’Amministrazione e cancellare le conseguenze dovute alla violazione del diritto dell’Unione.
In altri termini, la Corte di Giustizia osservava come il ripetuto rinnovo di contratti a termine a fronte di un’esigenza che di fatto assumeva un carattere «non già provvisorio, ma, al contrario, permanente e durevole» (par. 100 della sentenza Mascolo) apparisse non giustificata ai sensi del disposto della clausola 5, punto 1, lett. a) dell’accordo quadro, risultando in contrasto con la premessa su cui tale accordo si fonda, e cioè il fatto che i contratti di lavoro a tempo indeterminato costituiscano la forma comune dei rapporti di lavoro, unica forma contrattuale utilizzabile «per soddisfare esigenze permanenti e durevoli del datore di lavoro in materia di personale» (par. 101 della sentenza Mascolo).
La Corte di Giustizia, pur ritenendo legittima l’eventualità che uno Stato membro potesse prevedere la mancata conversione del contratto a tempo indeterminato come soluzione per la reiterazione dei contratti a termine, elaborava quindi un principio di equivalenza fra posizioni lavorative affini, con la conseguenza che l’abusiva reiterazione di contratti a tempo determinato, nel settore pubblico, avrebbe dovuto dare luogo all’applicazione di rimedi di peso comparabile a quelli applicati nel settore privato.
E tale principio di equivalenza veniva riaffermato unitamente a quello di effettività già precedentemente richiamato dalla Corte di Giustizia, sull’assunto che «l’accordo quadro deve essere interpretato nel senso che esso osta ai provvedimenti previsti da una normativa nazionale (….) la quale, nell’ipotesi di utilizzo abusivo, da parte di un datore di lavoro pubblico, di una successione di contratti di lavoro a tempo determinato, preveda soltanto il diritto, per il lavoratore interessato, di ottenere il risarcimento del danno che egli reputi di aver sofferto a causa di ciò, restando esclusa qualsiasi trasformazione del rapporto di lavoro a tempo determinato in un rapporto di lavoro a tempo indeterminato quando il diritto a detto risarcimento sia subordinato all’obbligo, gravante su detto lavoratore, di fornire la prova di aver dovuto rinunciare a migliori opportunità di impiego, se detto obbligo ha come effetto di rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio, da parte del citato lavoratore, dei diritti conferiti dall’ordinamento dell’Unione» .
3. Risarcimento da parte del legislatore: illegittimità costituzionale del sistema di reclutamento a termine introdotto dal d.lgs. n. 124/1999 e conversione del rapporto a termine con la c.d. “Buona Scuola”
Dinnanzi al contesto normativo e giurisprudenziale palesemente illegittimo appena evidenziato, l’intervento del nostro legislatore appariva ormai ineludibile.
Tale intervento arrivò soltanto con la legge 13 luglio 2015, n. 107 (c.d. “Buona Scuola”), non a caso titolata “Riforma del sistema nazionale di istruzione e formazione e delega per il riordino delle disposizioni legislative vigenti”.
L’art. 1, commi 95 e seguenti di tale legge, autorizzava il MIUR ad attuare un piano straordinario di assunzioni a tempo indeterminato di personale docente per le istituzioni scolastiche statali di ogni ordine e grado; statuiva la definitiva perdita di efficacia delle graduatorie ad esaurimento; ribadiva la cadenza triennale dei concorsi da indire su base regionale tenendo conto del fabbisogno espresso dalle istituzioni scolastiche nel piano dell’offerta formativa; statuiva che a decorrere dal 01 settembre 2016 i contratti a tempo determinato per la copertura di posti vacanti e disponibili non potessero superare la durata complessiva di 36 mesi, anche non continuativi.
Una rivoluzione, quindi, del sistema di reclutamento sino ad allora adottato per la stipula dei contratti a termine, utile ad evitare che si giungesse alla paventata procedura d’infrazione da parte dell’Unione nei confronti dello Stato Italiano ed attuata nella consapevolezza che il sistema stesso fosse illegittimo visto che il legislatore stesso, al comma 132 dell’art. 1, stabiliva che nello stato di previsione del MIUR fosse istituito un fondo per i pagamenti, in esecuzione di provvedimenti giurisdizionali aventi ad oggetto il risarcimento dei danni conseguenti alla reiterazione di contratti a termine per una durata complessiva superiore a trentasei mesi, anche non continuativi, su posti vacanti e disponibili .
Solo a quel punto, preso atto delle conclusioni cui era addivenuta la Corte di Giustizia con la sentenza Mascolo e del contenuto della novella c.d. della “Buona Scuola”, la Corte Costituzionale interveniva finalmente con la sentenza del 20 giugno 2016, n. 187 , per dichiarare l’illegittimità costituzionale, in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., dell’art. 4, commi 1 e 11, della legge 3 maggio 1999, n. 124 nella parte in cui autorizzava, in mancanza di limiti effettivi alla durata massima totale dei rapporti di lavoro successivi, il rinnovo potenzialmente illimitato di contratti di lavoro a tempo determinato per la copertura di posti vacanti e disponibili di docenti nonché di personale amministrativo, tecnico e ausiliario (ATA), senza che ragioni obiettive lo giustificassero.
La Consulta non si limitava, tuttavia, a dichiarare l’incostituzionalità della norma in questione ritenendo, almeno apparentemente in ossequio alle indicazioni fornite dalla Corte di Giustizia, di dover verificare se lo Stato Italiano avesse adottato misure effettive e dissuasive al fine di sanzionare debitamente l’abuso sino ad allora posto in essere dall’Amministrazione, cancellando le conseguenze della violazione del diritto dell’Unione.
Partendo da tale assunto i giudici della Corte Costituzionale esaminavano le conseguenze derivanti dalla dichiarazione di illegittimità costituzionale del citato articolo 4 alla luce delle previsioni normative sopravvenute contenute nella legge n. 107/2015, addivenendo alla conclusione che tali previsioni, «oltre a svolgere la funzione tipica preventiva-punitiva delle sanzioni, nell’interpretazione del Giudice dell’Unione influissero sull’illecito “cancellandolo”, attesa la loro natura riparatoria. Nella prospettiva dell’ordinamento comunitario quel che conta è che di fatto ne possano beneficiare i soggetti lesi: è, dunque, indubbia la rilevanza di misure anche sopravvenute».
Secondo la Consulta la combinazione dei vari interventi effettuati dal legislatore nel 2015 avrebbe dunque garantito la sussistenza di misure rispondenti ai requisiti richiesti dalla Corte di Giustizia: in particolare la L. n. 107/2015 avrebbe tutelato, attraverso la stabilizzazione del personale docente prevista con il piano straordinario di assunzioni articolato in 4 differenti fasi , le posizioni di coloro che fino all’entrata in vigore della norma erano inseriti nelle graduatorie ad esaurimento ed avevano stipulato ripetuti contratti a termine con l’Amministrazione pubblica.
La scelta operata dal legislatore veniva ritenuta, dalla Corte Costituzionale, «più lungimirante rispetto a quella del risarcimento del danno» che «avrebbe lasciato il sistema scolastico nell’attuale incertezza organizzativa e il personale in uno stato di provvisorietà perenne», mentre il personale ATA, per il quale non era stata prevista la stabilizzazione, sarebbe stato tutelato attraverso l’applicazione della sanzione del risarcimento.
Proprio il risarcimento del danno, previsto anche in caso di superamento del termine di 36 mesi di servizio prestato presso il M.I.U.R. previsto dall’art. 1, comma 131, della l. n. 107 del 2015 , avrebbe rappresentato inoltre la misura utile a sanzionare le situazioni future di abuso perpetrato nei confronti del personale docente ed ATA.
Sulla scorta di tali linee guida è quindi intervenuta anche la Corte di Cassazione che, nella sua elaborazione interpretativa, ha inizialmente posto limiti ancor più stringenti alla possibilità del lavoratore di ottenere un risarcimento nell’ipotesi di abusivo ricorso allo strumento del contratto a termine, definendo un quadro sostanzialmente favorevole per la Pubblica Amministrazione .
Nelle ipotesi di reiterazione dei contratti a termine stipulati ai sensi dell’art. 4, comma 1, della l. n. 124/1999, realizzatesi prima dell’entrata in vigore della l. n. 107/2015, la misura della stabilizzazione prevista da tale norma veniva ritenuta misura proporzionata, effettiva, sufficientemente energica ed idonea a sanzionare debitamente l’abuso ed a «cancellare le conseguenze della violazione del diritto dell’Unione» .
In tale ipotesi citata non sarebbe stata comunque preclusa al lavoratore la possibilità di proporre la domanda utile ad ottenere il risarcimento dei danni ulteriori e diversi rispetto a quelli esclusi dall’immissione in ruolo, ma l’onere della prova del danno sarebbe gravato in tal caso sul lavoratore.
Nel caso di reiterazione di contratti a termine stipulati ai sensi dell’art. 4, comma 1, della l. n. 124/1999, realizzatesi prima dell’entrata in vigore della l. n. 107/2015, ai docenti e al personale ATA applicati su cattedre di diritto che non fossero stati stabilizzati e non avessero alcuna certezza di stabilizzazione, doveva essere invece riconosciuto il diritto al risarcimento del danno nella misura richiamata dalla sentenza della Corte di Cassazione a Sezioni Unite n. 5072/2016 .
Nelle ipotesi, infine, di reiterazione di contratti a termine in relazione ai posti individuati per le supplenze su organico di fatto e per le supplenze temporanee, previste rispettivamente dall’art. 4, commi 2 e 3 della suddetta legge, non sarebbe stato in sé configurabile alcun abuso ai sensi dell’accordo quadro, fermo il diritto del lavoratore di allegare e provare il ricorso improprio o distorto a siffatta tipologia di supplenze, prospettando non già la «sola reiterazione ma le sintomatiche condizioni concrete della medesima (quali il susseguirsi delle assegnazioni presso lo stesso Istituto, con riguardo alla stessa cattedra e per il periodo superiore ai 36 mesi previsto dalla legge sulla Buona Scuola)» .
Nel 2020 la giurisprudenza di legittimità ha, peraltro, attenuato la propria rigida interpretazione chiarendo che, nell’ipotesi di illegittima reiterazione di contratti a tempo determinato nel pubblico impiego privatizzato, la successiva immissione in ruolo del lavoratore costituirebbe misura sanzionatoria idonea a reintegrare le conseguenze pregiudizievoli dell’abuso solo laddove ricollegabile alla successione dei contratti a termine con rapporto di causa-effetto, che si verifica quando l’assunzione a tempo indeterminato avvenga in forza di specifiche previsioni legislative di stabilizzazione del personale precario vittima dell’abuso ovvero attraverso “percorsi riservati” a detto personale .
L’efficacia sanante della assunzione in ruolo presuppone, quindi, una “stretta correlazione” tra abuso del contratto a termine e procedura di stabilizzazione sia sotto il profilo soggettivo – nel senso che entrambe devono provenire dal medesimo ente pubblico datore di lavoro – sia sotto il profilo oggettivo – nel senso della esistenza di un rapporto di causa-effetto tra abuso e assunzione: affinché sussista il rapporto di derivazione causale non è, pertanto, sufficiente che la assunzione in ruolo sia stata “agevolata” dalla successione dei contratti a termine ma occorre che essa sia stata determinata da quest’ultima.
La relazione causale tra abuso del contratto a termine e stabilizzazione per assumere valenza riparatoria deve, peraltro, essere “diretta ed immediata” poiché solo una relazione di questo tipo si pone sullo stesso piano del rapporto intercorrente, ai sensi dell’art. 1223 c.c., tra abuso e danno risarcibile intervenendo, con effetto opposto, a neutralizzare l’effetto pregiudizievole.
Detto rapporto diretto e immediato sussiste nei casi di effettiva assunzione in ruolo: per effetto automatico della reiterazione dei contratti a termine come accadeva in virtù dell’avanzamento nelle graduatorie ad esaurimento o comunque all’esito di procedure riservate ai dipendenti reiteratamente assunti a termine e bandite allo specifico fine di superare il precariato che offrano già ex ante una ragionevole certezza di stabilizzazione come nelle ipotesi del piano straordinario di assunzioni del personale docente ex L. 107/2015.
Quando, invece, l’immissione in ruolo avviene all’esito di una procedura di tipo concorsuale, l’assunzione non è in relazione immediata e diretta con l’abuso ma, piuttosto, è l’effetto diretto del superamento della selezione di merito, in ragione di capacità e professionalità proprie del dipendente, con la conseguenza che in tale caso sussiste il diritto al risarcimento del danno anche se il lavoratore è stato assunto a tempo indeterminato dall’Amministrazione.
Il principio della inidoneità di una procedura concorsuale per l’immissione in ruolo a sanzionare l’abuso del contratto a termine neppure è messo in discussione nelle ipotesi in cui l’amministrazione bandisca concorsi riservati, interamente o per una quota di assunzioni, ai dipendenti già impiegati con una successione di contratti a termine, procedure svincolate da qualsiasi finalità di riparazione dell’abusiva successione di detti contratti. In caso di concorsi riservati l’abuso opera come mero antecedente (remoto) della assunzione ed offre al dipendente precario una mera chanche di assunzione, chanche la cui valenza riparatoria è stata esclusa dalla giurisprudenza di legittimità sin dal 2016.
Tanto chiarito con riferimento alle ipotesi in cui il lavoratore vanti il diritto al risarcimento del danno, si rende opportuno ancora precisare, con riferimento all’onere probatorio gravante sul docente che sia stato vittima di un abusivo ricorso al contratto a termine, che allo stato vige il principio dell’Unione Europea secondo cui «l’accordo quadro deve essere interpretato nel senso che esso osta ai provvedimenti previsti da una normativa nazionale…..la quale, nell’ipotesi di utilizzo abusivo, da parte di un datore di lavoro pubblico, di una successione di contratti di lavoro a tempo determinato, preveda soltanto il diritto, per il lavoratore interessato, di ottenere il risarcimento del danno che egli reputi di aver sofferto a causa di ciò, restando esclusa qualsiasi trasformazione del rapporto di lavoro a tempo determinato in un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, quando il diritto a detto risarcimento è subordinato all’obbligo gravante su detto lavoratore, di fornire la prova di aver dovuto rinunciare a migliori opportunità di impiego, se detto obbligo ha come effetto di rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio, da parte del citato lavoratore, dei diritti conferiti dall’ordinamento dell’Unione» .
Tale principio era stato seguito dalla Corte di Cassazione già nel 2014 allorché si era ricondotto, in ossequio a quanto previsto dalla Corte di Giustizia, il danno richiamato dall’art. 36 del D.Lgs. n. 165/2001 alla categoria del cd. “danno sanzione” che, com’è noto, configura la tutela patrimoniale ivi prevista non solo come forma di rifusione dei danni effettivamente subiti dal lavoratore ma come vera e propria sanzione a carico della P.A. per il comportamento illegittimamente tenuto nei confronti dei dipendenti .
Il dipendente pubblico che avesse prestato servizio in violazione di disposizioni imperative non avrebbe, quindi, dovuto allegare e provare il concreto pregiudizio derivato dalla reiterata sottoscrizione di contratti a termine atteso che:
a) il risarcimento previsto dal citato art. 36 costituiva «una sorta di sanzione ex lege a carico del datore di lavoro – che può provare l’esistenza di eventuali ripercussioni negative evitabili dall’interessato che possono essere escluse – mentre l’interessato [doveva] limitarsi a provare l’illegittima stipulazione di più contratti a termine sulla base di esigenze “falsamente indicate come straordinarie e temporanee” essendo esonerato dalla costituzione in mora del datore di lavoro e dalla prova di un danno effettivamente subito (senza riguardo, quindi, ad eventuale aliunde perceptum)»;
b) il relativo regime probatorio era «analogo – mutatis mutandis – a quello che si applica per le discriminazioni secondo cui basta che il ricorrente fornisca elementi di fatto idonei a fondare, in termini precisi e concordanti, la presunzione dell’esistenza di una situazione di abusivo ricorso ai contratti a termine in suo danno, spettando alla amministrazione convenuta l’onere di provare l’insussistenza dell’abuso» .
La Suprema Corte aveva tuttavia modificato nel 2016 il proprio orientamento, ritenendo di porre a carico del soggetto debole del rapporto l’onere di provare, nel caso di supplenze su cattedre asseritamente “di fatto” o temporanee, la sussistenza di un abuso nella reiterazione dei contratti a termine.
Contrariamente ad ogni regola del processo del lavoro, la Cassazione aveva imposto al lavoratore la dimostrazione del «ricorso improprio o distorto a siffatta tipologia di supplenze, prospettando non già la sola reiterazione ma anche le sintomatiche condizioni concrete della medesima», ponendo ulteriormente a carico del lavoratore la prova dei «danni ulteriori e diversi rispetto a quelli esclusi dall’immissione in ruolo stessa» .
Solo di recente la Corte di Cassazione ha, peraltro, confermato l’orientamento del 2014, ritenendo che il lavoratore che abbia invocato la tutela di cui all’art. 36 del D.Lgs. n. 165/2001 a fronte di contratti a termine illegittimi, debba essere assistito dalla presunzione di danno codificata dalla L. n. 183/2010, art. 32, comma V, ferma restando la possibilità di provare, assumendone il relativo onere, di avere subito danni ulteriori .
Tale ultima interpretazione appare pienamente condivisibile, dato che la disamina dei contratti a tempo determinato consentirebbe da sola di dimostrare attraverso la prova documentale l’illegittimità del comportamento tenuto dal Ministero dell’Istruzione che, in totale spregio al disposto delle previsioni contrattuali collettive che, agli articoli 47 del CCNL 1995-1997, art. 37 del CCNL 2002-2005 ed all’art. 40 del CCNL 2006-2009, esplicitamente stabilivano e stabiliscono che «nei casi di assunzione in sostituzione di personale assente, nel contratto individuale [deve essere] specificato per iscritto il nominativo del dipendente sostituito», ha mai indicato nei contratti su cattedre di diritto o di fatto il nominativo del docente titolare (temporaneamente assente) della cattedra medesima.
In ultimo merita ancora rilevare che il Ministero dell’Istruzione è mai stato in grado di fornire dati precisi in merito all’organico annuale di fatto e di diritto, nonostante disponesse di tutti gli elementi necessari per la sua determinazione: parrebbe dunque logicamente ed assolutamente assurdo porre a carico del lavoratore l’onere di provare ciò che il datore, titolare della propria struttura e del proprio organico, non è in grado di attestare, sui docenti a termine altrimenti posta una probatio diabolica contraria ad ogni principio di diritto.
Tanto precisato con riferimento al corretto significato che si deve attribuire alla nozione di danno richiamata dall’art. 36 del D.Lgs. n. 165/2001, merita rilevare ancora come la giurisprudenza di legittimità non abbia raggiunto un intendimento unanime avuto riguardo ai criteri utili alla quantificazione del danno da abusivo ricorso al contratto a termine.
Pur correttamente richiamando i principi di effettività, proporzionalità ed eguaglianza che devono stare alla base del risarcimento del danno la Corte di Cassazione ha, infatti, in talune ipotesi, applicato, ai fini della determinazione del quantum, la previsione contenuta nell’art. 8 della Legge n. 604/1966, in altre la previsione contenuta nell’art. 32, comma V, della Legge n. 183/2010 negando, di contro e fatte salve isolate prnunce di merito iniziali, la tutela risarcitoria di cui all’art. 18 della Legge n. 300/1970 e/o all’art. 63 del D.Lgs. n. 165/2001, sull’assunto che l’illegittima reiterazione del contratto a termine non può essere equiparata al licenziamento in quanto il dipendente pubblico che subisce la precarizzazione per effetto di una successione di contratti a termine connotata da abusività non perderebbe alcun posto di lavoro alle dipendenze dell’Amministrazione pubblica per la quale ha lavorato ed al quale non avrebbe avuto diritto non avendo superato il vaglio di un concorso pubblico per un posto stabile .
Le Sezioni Unite della Suprema Corte hanno affermato che nel caso di specie «il lavoratore è esonerato dalla prova del danno nella misura in cui questo è presunto e determinato tra un minimo ed un massimo … La trasposizione di questo canone di danno presunto esprime anche una portata sanzionatoria della violazione della norma comunitaria, sì che il danno così determinato può qualificarsi come ‘danno comunitario’».
Hanno altresì precisato che «L’indennità risarcitoria ex art. 32, comma 5, cit. ha una diversa valenza secondo che sia collegata, o no, alla conversione del rapporto. Per il lavoratore privato l’indennizzo ex art. 32, comma 5, è in chiave di contenimento del danno risarcibile per essere o poter essere l’indennizzo meno del danno che potrebbe conseguire il lavoratore secondo i criteri ordinari. Per il lavoratore pubblico invece l’indennizzo ex art. 32, comma 5, è, all’opposto, in chiave agevolativa, di maggior tutela nel senso che, in quella misura, risulta assolto l’onere della prova del danno che grava sul lavoratore».
Con la conseguenza che «L’indennità ex art. 32, comma 5, quindi, per il dipendente pubblico che subisca l’abuso del ricorso al contratto a tempo determinato ad opera di una pubblica amministrazione, va ad innestarsi, nella disciplina del rapporto, in chiave agevolativa dell’onere probatorio del danno subito».
Tenuto conto che, come noto, il citato art. 32, comma V, è stato abrogato a seguito dell’entrata in vigore del D.Lgs. n. 81/2015, si potrà applicare, per analogia, la previsione contenuta nell’art. 28, comma II, del D.Lgs. n. 81/2015 che prevede nel caso di violazione delle norme in materia di contratti a termine il riconoscimento in capo al dipendente di un'indennità onnicomprensiva nella misura compresa tra un minimo di 2,5 e un massimo di 12 mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto, avuto riguardo ai criteri indicati nell'articolo 8 della legge n. 604 del 1966.