testo integrale con note e bibliografia
1. L’inquadramento del personale nel regime del pubblico impiego privatizzato.
Per quanto nell’impiego pubblico privatizzato il rapporto di lavoro sia riportato ad un regime comune a quello dei rapporti di lavoro privati (art. 2, co. 1, d. lgs. 165/2001), restano significative differenze.
In particolare, l’ambito dell’inquadramento del personale, per varie ragioni di cui si andrà a dire, si discosta sensibilmente dalla disciplina privatistica, pur nelle varie connotazioni che ha assunto nel tempo l’art. 2103 c.c., manifestandosi attraverso una definizione già al livello della legge dei tratti di fondo del sistema di classificazione e per un maggior grado di rigidità complessiva.
La legge (d. lgs. 165 del 2011) disciplina sia le regole di inquadramento dei dirigenti, sia quelle del personale non dirigenziale (art. 52).
I dirigenti sono in linea di principio inquadrati in appositi “ruoli” delle singole Amministrazioni (art. 23 del d. lgs. 165/2001), suddivisi su due fasce di diverso livello ed eventualmente con ulteriori suddivisioni in sezioni in ragione della specializzazione. Regole speciali valgono per la dirigenza scolastica (art. 25 del d.lgs. cit) del Sistema Sanitario Nazionale (art. 26) e delle P.A., non statali (art. 27), ma resta comunque l’inquadramento sulla base di “ruoli”. Lo svolgimento della funzione dirigenziale opera poi sulla base di “incarichi” (art. 19 d. lgs. 165 del 2001) in cui si concretizza, nel singolo rapporto contrattuale con il dipendente, il contenuto dell’attività da svolgere.
La strutturazione in “ruoli” risale ad atti di macroorganizzazione , così come spetta alla P.A. la individuazione degli “incarichi”, peraltro con possibili vincoli derivanti dalla legge o dalla contrattazione collettiva.
Il personale non dirigenziale è invece suddiviso in “aree”, che individuano i diversi livelli di complessità della prestazione, la cui identificazione è rimessa alla contrattazione collettiva. La legge stabilisce però imperativamente che l’accesso alle diverse aree possa avvenire solo mediante concorso cui è ammesso anche chi sia esterno, salva la possibilità per la P.A. di riservare al personale interno munito dei necessari titoli una quota del 50% dei posti messi a concorso; ancora imperativamente la legge stabilisce ora che all’interno delle Aree la suddivisione del personale abbia rilievo soltanto economico e dunque non esprime diversi livelli di professionalità, ma soltanto un differente trattamento retributivo, in ragione della qualità professionali, dell’attività svolta e dei risultati conseguiti, in breve secondo criteri di merito selettivo.
2. (segue): la giurisprudenza sul personale non dirigenziale.
La giurisprudenza della S.C. si è inserita nell’indirizzo legislativo, sondandone i fondamenti e declinandone le caratteristiche.
Quanto ai fondamenti, recentemente, si è precisato che l’art. 52 d. lgs. 165/2001 - ma conclusioni non diverse valgono mutatis mutandis per le norme sulla dirigenza - va letto in diretto coordinamento con le norme (art 6, 40-bis e 48) del d. lgs. 165/2001 che regolamentano, a fini di buon andamento, tutto l’assetto dei fabbisogni e delle dotazioni proprie della P.A., in vista della programmazione e sostenibilità finanziaria del suo operato; norme la cui fisionomia verrebbe alterata dalla possibilità che comportamenti di fatto possano comportare acquisizioni di diritto ad inquadramenti superiori, a prescindere da concorsi programmati, vacanze di posti etc. . Il regime di cui si è detto, oltre la normativa primaria, affonda dunque le radici nello stesso art. 97 Cost e nei principi di legalità e buon andamento da esso posti.
La giurisprudenza ha peraltro sottolineato il fatto che la normativa primaria ha rimesso alla contrattazione collettiva la disciplina della classificazione, sotto il profilo dell’individuazione dei criteri di inquadramento. Ciò con approccio rigoroso, essendosi sottolineato come l’art. 52 cit. assegni rilievo solo al criterio dell'equivalenza formale delle mansioni, con riferimento alla classificazione prevista in astratto dai contratti collettivi, indipendentemente dalla professionalità in concreto acquisita, senza che il giudice possa sindacare la natura equivalente della mansione, non potendosi avere riguardo alla norma generale di cui all'art. 2103 c.c.
Lungo la stessa linea si è altresì ritenuto che lo stesso principio di non discriminazione, di cui all'art. 45 del d.lgs. n. 165 del 2001, per quanto operi come limite per la P.A., tenuta a garantire ai propri dipendenti parità di trattamento contrattuale nell'ambito delle previsioni dei contratti collettivi, non costituisce parametro per giudicare le differenziazioni operate in quella sede dalle parti sociali nella loro autonomia, né per sindacare le scelte operate dalla contrattazione collettiva in materia di classificazione professionale dei lavoratori, restando irrilevante l'eventuale assimilabilità contenutistica delle mansioni svolte .
Deriva dal medesimo fondamento anche l’ulteriore orientamento della giurisprudenza che ha assicurato autonomia alla contrattazione collettiva anche nel modificare gli assetti organizzativi delle mansioni. Si è infatti ritenuto che l'equivalenza formale delle mansioni possa essere definita dai contratti collettivi anche attraverso la previsione di aree omogenee nelle quali rientrino attività tutte parimenti esigibili e ciò ancorché, secondo una precedente classificazione, tali diverse attività - poi ricomprese nelle medesime aree - fossero da considerare come mansioni di diverso rilievo professionale e retributivo . Ciò fino a ritenersi anche che al dipendente che abbia svolto, nel previgente regime, mansioni considerate superiori a quelle di inquadramento, ricevendo il corrispondente maggior trattamento retributivo, e prosegua nello svolgimento delle medesime nella vigenza della nuova contrattazione - in cui sia le mansioni di cui al precedente inquadramento, sia quelle richieste, rientrino nell'ambito della stessa area - compete il solo trattamento proprio di quell'area e della posizione meramente economica di inquadramento secondo la nuova contrattazione, senza che, in mancanza di espresse previsioni contrarie di diritto transitorio della contrattazione collettiva sopravvenuta, l'assetto complessivo dei rapporti di lavoro quale definito da quest'ultima possa essere sindacato o manipolato, in vista della salvaguardia di pretese individuali fondate sulla previgente disciplina .
La centralità dell’impianto normativo di cui al d. lgs. 165/2001 è stata confermata anche rispetto allo ius variandi, ovviamente ampio nell’ambito delle declaratorie stante il principio dell’equivalenza formale, esteso fino al punto di resistere – a chiara tutela dell’efficienza e flessibilità nelle scelte operative della P.A. - anche rispetto a specifiche qualificazioni professionali del singolo dipendente interessato. Si è in tale linea ad esempio ritenuto che, qualora un avvocato o procuratore venga inserito nell'ufficio legale di un ente pubblico non economico, con costituzione di un rapporto di lavoro subordinato, come consentito dall'art. 3, comma 4, lett. b), del r.d.l. n. 1578 del 1933 (conv. dalla l. n. 36 del 1934 e modif. dalla l. n. 1949 del 1939), in deroga alla regola generale dell'incompatibilità della professione forense con impieghi retribuiti, la disciplina di tale rapporto trova prevalente applicazione, anche quanto alle disposizioni di cui all'art. 52 del d.lgs. n. 165 del 2001, sicché è consentito al datore di lavoro, nel rispetto delle classificazioni e delle altre eventuali regole di cui alla contrattazione collettiva, un ampio esercizio dello ius variandi e quindi di assegnazione ad altri compiti, nei limiti in cui non si realizzi in concreto una sottrazione pressoché integrale delle funzioni da svolgere, vietata anche nell'ambito del pubblico impiego, o un intenzionale comportamento vessatorio, causativo di danni .
Ed ancora, la S.C. ha reiteratamente precisato che i vincoli derivanti dalla disciplina legale e collettiva non possono essere superati in via negoziale da accordi tra il datore di lavoro pubblico e i singoli lavoratori interessati, sicché non è consentito assumere in via conciliativa obbligazioni che contrastino con tali previsioni ed ancor più a fondo, operando nell'organizzazione dei pubblici uffici la riserva di legge di cui all'art. 97 Cost., l'assunzione e la progressione economica del personale sono vincolate alla struttura organizzativa della P.A. ed alle previsioni organiche che della stessa sono espressione, dovendosi affermare la nullità di un verbale di conciliazione che preveda l'inserimento di un'unità di personale eccedente rispetto alla pianta organica esistente, nullità che la P.A. è legittimata a far valere astenendosi dal dare attuazione alle obbligazioni ivi assunte in violazione di norme di legge inderogabili .
3. (segue) - la giurisprudenza sui dirigenti.
Analogo rigoroso assetto ha assunto la giurisprudenza rispetto ai corrispondenti temi delle funzioni dirigenziali.
Si è infatti precisato come il principio che governa la remunerazione dirigenziale sia quello dell'onnicomprensività, sancito dall'art. 24, comma 3, del d.lgs. n. 165 del 2001, né, data l'unicità del ruolo, può configurarsi – all’interno del sistema della dirigenza - lo svolgimento di mansioni superiori ex art. 52 del citato d.lgs. ovvero ex art. 2103 c.c. Pertanto, non ogni svolgimento di attività aggiuntive rispetto al proprio incarico e già proprie di altro dirigente può giustificare, a meno che la contrattazione collettiva non lo preveda, il riconoscimento di differenze retributive, essendo invece necessario che, quanto di aggiuntivo sia attribuito, comporti - dal punto di vista qualitativo, quantitativo e temporale - il trasmodare dell'incarico originariamente attribuito in una prestazione radicalmente diversa e destinata, in assenza di regolare formalizzazione nei termini di un nuovo accordo, a far prevalere, rispetto alla regola della onnicomprensività, anche ai sensi e per gli effetti dell'art. 2126 c.c., l'attività in concreto svolta, ove rispetto a questa siano in ipotesi previste maggiori erogazioni retributive . Coerentemente precisandosi quindi che al dirigente di primo livello, che abbia svolto le funzioni di dirigente di secondo livello, non spetta né la maggiorazione retributiva per l'esercizio di fatto di mansioni superiori - non essendo applicabili alla dirigenza gli artt. 2103 c.c. e 52 del d.lgs. n. 165 del 2001 - né l'indennità cd. sostitutiva, la quale spetta o non spetta solo se lo preveda (o non la preveda) la contrattazione collettiva .
Anzi, quando l’indennità c.d. sostitutiva sia prevista, è prevalso l’orientamento per cui spetti esclusivamente essa, come nel caso dell'art. 18 del CCNL dirigenza medica e veterinaria dell'8 giugno 2000, non configurandosi svolgimento di mansioni superiori (poiché tutto avviene nell'ambito del ruolo, sicché non trova applicazione l'art. 2103 c.c.), senza che rilevi, in senso contrario, la prosecuzione dell'incarico oltre il termine di sei mesi (o di dodici, se prorogato) per l'espletamento della procedura per la copertura del posto vacante, dovendosi considerare adeguatamente remunerativa l'indennità sostitutiva specificamente prevista dalla disciplina collettiva e, quindi, inapplicabile l'art. 36 Cost.
4. L’esercizio di fatto di mansioni superiori.
I sistemi rigidi di inquadramento, che impongono l’attribuzione di mansioni di assunzione o di quelle equivalenti secondo i parametrio di cui alla contrattazione collettiva, determinano inevitabilmente l’impossibilità – peraltro espressamente sancita dall’art. 52, co. 1, cit. - di acquisire livelli superiori sulla base dell’esercizio di fatto di mansioni superiori, ma non escludono tuttavia che, in linea con l’art. 36 Cost., qualora in concreto si determini una siffatta attività, essa vada remunerata con i compensi propri del maggiore livello, ferma, su diverso piano, l’eventuale responsabilità del dirigente per l’illiceità che comunque si determina.
Ciò è espressamente previsto dall’art. 52, co. 5 d. lgs. 165/2001 e presuppone un giudizio di “prevalenza“ (art. 52 cit. , co. 3) delle attività superiori rispetto a quelle di formale inquadramento.
La regola, sempre sulla base di un parametro di prevalenza , vale anche per l’assegnazione di fatto a funzioni dirigenziali di personale inquadrato a livello non dirigenziale.
A quest’ultimo proposito la giurisprudenza ha avuto modo di esprimersi con riferimento ad ipotesi di “reggenza”, precisandosi che essa si manifesta come esercizio di fatto di mansioni superiori dirigenziali allorquando siano superati i parametri di straordinarietà e temporaneità che le sono propri, dovendosi in tal caso ricomprendere, nel trattamento differenziale per lo svolgimento delle mansioni superiori, la retribuzione di posizione e quella di risultato, atteso che l'attribuzione delle mansioni dirigenziali, con pienezza di funzioni e assunzione delle responsabilità inerenti al perseguimento degli obbiettivi propri delle funzioni di fatto assegnate, comporta necessariamente, anche in relazione al principio di adeguatezza sancito dall'art. 36 Cost., la corresponsione dell'intero trattamento economico, ivi compresi gli emolumenti accessori .
5. Inquadramento e mobilità.
Il sistema della mobilità del personale presenta tratti di connessione, almeno sotto il profilo organizzativo, con il tema dell’inquadramento.
Intanto per il dato, comune, che, per realizzarsi, anche la mobilità necessita di previsioni normative che ne giustifichino a incanalino gli effetti di trasferimento dall’inquadramento presso un certo ente all’inquadramento presso altro ente.
In linea generale, il d.lgs. 165/2001 permette di individuare una serie di piani entro i quali operano i fenomeni di mobilità, potendosi richiamare, in via di massima schematizzazione, una mobilità individuale volontaria (art. 30), una mobilità collettiva per eccedenza di personale (art. 33) ed una mobilità, tendenzialmente anch’essa collettiva, quale effetto del trasferimento di attività, ovverosia del servizio che la P.A. è chiamata a rendere e cui il personale è addetto (art. 31), in quest’ultima ipotesi con interferenze rispetto al trasferimento di personale per cessione di azienda (art. 2112 c.c.).
Analizzando il fenomeno nella logica che qui interessa degli inquadramenti, va intanto sottolineato che, al fine di favorire i fenomeni di mobilità, l’art. 29-bis del d. lgs. 165/2001 prevede la definizione centralizzata di una tabella di equiparazione tra i livelli previsti dai contratti collettivi relativi ai diversi comparti di contrattazione, su cui v. il DPCM 26 giugno 2015.
Ciò posto ed iniziando dalla mobilità volontaria individuale, è pacifico che essa si riporti ad una fattispecie di cessione del contratto.
Senza dubbio appartiene alla discrezionalità amministrativa, fatti salvi i vincoli di ordine legale , la scelta di coprire un certo posto vacante mediante la mobilità individuale. Peraltro, una volta assunta tale scelta, l’attuazione di quanto ne consegue realizza un’articolata commistione di profili negoziali e vincoli normativi.
Dovendosi realizzare la confluenza tra un inquadramento (come si è visto parlando di classificazione, di natura tendenzialmente “rigida”, anche per vincoli di programmazione della spesa) il transito va effettuato sulla base di una verifica – inevitabilmente con tratti eteronomi rispetto alla mera volontà delle parti - di equivalenza fra l'inquadramento goduto dal lavoratore nell'ente di provenienza e quello allo stesso spettante presso l'amministrazione di destinazione, da operarsi in concreto, in base alle discipline collettive dei due enti interessati, individuando la qualifica "maggiormente corrispondente", nell'ambito della disciplina legale e contrattuale applicabile nell'ente di destinazione, a quella posseduta dal lavoratore prima del trasferimento
La riconduzione al piano civilistico della cessione del contratto si manifesta attraverso gli effetti conservativi dell'anzianità e di mantenimento del trattamento economico goduto presso l'amministrazione di provenienza , da salvaguardare ad personam al fine di rispettare il divieto di reformatio in peius, per quanto con riassorbimento . Il piano negoziale si salda poi a quello pubblicistico, almeno dal lato della P.A., nell’orientamento della S.C. secondo cui il dipendente la cui domanda sia stata accolta in relazione ad una specifica vacanza nell'ente di destinazione e che abbia accettato la valutazione espressa da quest'ultimo quanto alla corrispondenza fra aree e profili professionali di inquadramento, non può contestare a passaggio già avvenuto l'inquadramento riconosciutogli e pretendere di rimanere nell'ente di destinazione con un superiore profilo professionale, percependo le relative differenze retributive non essendo consentito alterare il bilanciamento di interessi che il legislatore ha inteso realizzare attraverso il meccanismo della mobilità e vanificare le esigenze di efficienza, buon andamento e contenimento della spesa complessiva che le norme generali sul rapporto di pubblico impiego mirano ad assicurare in attuazione dei principi di cui all'art. 97, avuto riguardo alle peculiarità proprie dell'istituto del passaggio diretto, che corrisponde anche all'interesse del lavoratore di conoscere il profilo di inquadramento che gli verrà riconosciuto nell'ente di destinazione, risultando quindi questi libero di non accettare il transito .
Ovviamente anche la mobilità collettiva per eccedenza di personale, di cui all’art. 34 e 34-bis del d.lgs. 165/2001 può dare luogo a problemi sul piano dell’inquadramento.
La complessità del fenomeno si giova peraltro di una disciplina normativa più articolata, che prevede l’inserimento del personale eccedentario in appositi elenchi (art. 34) e l’indicazione, ad opera dell’Amministrazione ad quem che intenda giovarsi di tale mobilità, di “area … livello e sede di destinazione per i quali si intende bandire il concorso” oltre che se necessario, delle “funzioni e .. eventuali specifiche idoneità richieste” (art. 34-bis, co. 1). La procedura dovrebbe dunque garantire, oltre alle attività di riqualificazione previste per il personale eccedentario, una confluenza governata dai ruoli alla disponibilità e quindi ai ruoli della P.A. di destinazione.
La mobilità per eccedentarietà non può dirsi fenomeno di forte ricorrenza quantitativa e la giurisprudenza di legittimità si è raramente occupata dei profili riguardanti il reinquadramento. Va peraltro segnalato un significativo arresto con cui si è precisato che l'atto di assegnazione del dipendente iscritto negli elenchi del personale in disponibilità, disposto ai sensi dell'art. 34 bis del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, rientra tra gli atti di gestione del rapporto di cui all'art. 5 del medesimo d.lgs. n. 165 e non implica esercizio di alcun potere pubblico, né di discrezionalità amministrativa, atteso che l'Amministrazione preposta all'individuazione del dipendente da ricollocare deve soltanto verificare la congruenza tra il profilo professionale richiesto dall'Amministrazione che intende coprire il posto vacante mediante concorso pubblico e quello dei dipendenti iscritti negli elenchi del personale in disponibilità, a partire da quello con maggiore anzianità di iscrizione.
In base a ciò si è ritenuto che, identificandosi l'oggetto della pronuncia in funzione della "causa petendi" ed all'intrinseca natura della posizione dedotta in giudizio appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario sia la controversia promossa dal dipendente per ottenere l'iscrizione nei ruoli del personale dell'Amministrazione "ad quem", sia anche quella da quest'ultima avviata e diretta ad ottenere - attraverso la contestazione dell'atto di assegnazione di personale adottato dalla P.A. a ciò preposta - l'accertamento negativo dell'insussistenza dell'obbligo di provvedere a detta iscrizione .
Evidentemente, problemi di inquadramento possono porsi anche in caso di mobilità collettiva conseguente al trasferimento di attività, ma non è questo il tratto che più ha interessato la giurisprudenza di legittimità, piuttosto coinvolta dal più ampio tema delle condizioni sufficienti o necessarie per il transito del personale, e di ciò si va brevemente a dire nel paragrafo che segue.
6. Cenni alla mobilità per trasferimento di attività o di organizzazione.
L’art. 31 del d. lgs. 165/2001 stabilisce che in caso di trasferimento di attività al personale che transita presso la P.A. che svolge il servizio si applichi l’art. 2112 c.c.
Premesso che secondo la Corte di Giustizia anche il trasferimento di attività economiche organizzate della P.A., impone l’applicazione della Direttiva 2001/23/CE e quindi dell’art. 2112 c.c. e quindi di riconoscere il transito di diritto del personale al cessionario , l’art. 31, estendendo il principio di continuità dal trasferimento di azienda al mero trasferimento dell’attività, potrebbe lasciare il dubbio , in assenza di espressa previsione del transito del personale (“al personale che transita”), che sia necessaria altra fonte, legale o negoziale, per giustificare il trasferimento del personale.
In realtà, la giurisprudenza intende la norma nel senso che il trasferimento dell’attività sia in sé ragione di transito del personale al trasferitario, con gli effetti poi di cui all’art. 2112. c.c. e quindi con continuità dei rapporti di lavoro. In questo senso sembra da leggere il consolidato principio per cui il passaggio diretto di personale tra amministrazioni diverse, in mancanza di espresse disposizioni normative sul contenuto e sulle modalità del relativo trasferimento, è disciplinato dal principio, espresso dall'art. 2112 c.c., dell'inerenza del rapporto contrattuale al complesso aziendale (o all'attività di competenza di un soggetto pubblico), in tutti i casi in cui questo, pur cambiando la titolarità, resti immutato nella sua struttura organizzativa e nell'attitudine all'esercizio dell'impresa (o della funzione perseguita), in quanto i due termini utilizzati dall'art. 31 del d.lgs. n. 165 del 2001, ai fini dell'applicazione del suddetto articolo, cioè quelli di trasferimento o di conferimento di attività, esprimono la volontà del legislatore di comprendere nello spettro applicativo di tale disposizione ogni vicenda traslativa riguardante l'attività dell'ente cedente .
Con principio ancora più netto allorquando si è ritenuto che l'art. 202, comma 6, del d.lgs. n. 152 del 2006 - prevedendo, in caso di passaggio di personale al nuovo gestore del servizio integrato dei rifiuti urbani, l'applicabilità, ai sensi dell'art. 31 del d.lgs. n. 165 del 2001, della disciplina del trasferimento del ramo di azienda di cui all'art. 2112 c.c. -, configura una fattispecie legale tipica di passaggio, da ente pubblico a gestore privato, di attività, per il quale è sancito "ope legis" un travaso diretto e immediato del personale, a prescindere da ogni accertamento sull'assimilabilità della vicenda traslativa ad una cessione di azienda in senso proprio .
In definitiva, ne deriva che nel pubblico impiego privatizzato il trasferimento del personale si realizza ope legis non solo in presenza di trasferimento di azienda, che suppone il transito di un’autonoma entità organizzata e produttiva di beni e servizi, ma per il solo transito dell’attività e della porzione organizzata del cedente attraverso l’attività era svolta, senza necessità di tutti gli elementi altrimenti richiesti per l’individuazione, almeno, di un autonomo ramo d’azienda.
Di certo, mentre l’0individuazione di un’azienda o di un suo ramo, come unità organizzativa autonoma ed idonea a produrre verti beni o servizi, manifesta una maggiore oggettività, anche i fini dell’9idneviduazione del personale che deve transitare, il mero richiamo all’ “attività” potrebbe lasciare maggiori margini di incertezza. Il che per certi versi potrebbe riaprire il tema della decisività della fonte, esterna all’art. 31, che stabilisca il passaggio del personale, fornendo gli elementi per individuarlo.
Sotto altro profilo, l’art. 31 è stato ritenuto applicabile, coerentemente del resto con il tenore della norma, anche al caso di trasferimento di attività a impresa privata e con le medesime caratteristiche, ovverosia a prescindere dal fatto che il trasferimento riguardi anche un’azienda nella sua autonomia .
Piuttosto articolato è il panorama delle vicende traslative inverse, ovverosia del passaggio di attività o aziende da privati alle P.A.
Sul punto si è consolidato l’indirizzo per cui nel caso di "reinternalizzazione di funzioni o servizi esternalizzati" da parte di un ente pubblico, il riassorbimento delle unità di personale già dipendenti a tempo indeterminato da amministrazioni pubbliche e transitate alle dipendenze della azienda o società interessata dal processo di reinternalizzazione può avvenire mediante applicazione della disciplina generale di cui all'art. 31 del d.lgs. n. 165 del 2001, e con essa dell'art. 2112 c.c., purché ricorrano le seguenti condizioni: superamento di un pubblico concorso, provenienza dei dipendenti dallo stesso ente locale dal quale vengono "riassorbiti", vacanza nella pianta organica, disponibilità delle risorse e, infine, assenza di ulteriori vincoli normativi all'assunzione .
Resta da definire – anche sotto il profilo della compatibilità eurounitaria – le sorti di effettivi trasferimenti di azienda che da organizzazioni pubbliche (ad es. aziende speciali) o private, si verifichino verso un ente pubblico economico.
In ogni caso, la giurisprudenza di legittimità ha chiarito che il ritrasferimento alla P.A. dei rapporti di lavoro, già ceduti da quest'ultima ad un privato in concomitanza con la stipula di un rapporto di concessione, è ammissibile solo nelle specifiche ipotesi di retrocessione previste dalla legge (art. 31 d.lgs. n. 165 del 2001 o art. 2112 c.c.), sicché è nulla la clausola del contratto di concessione che preveda tale retrocessione quale effetto della cessazione del rapporto concessorio . In altre parole, l’effetto traslativo del personale non può essere oggetto di meri accordi che non si sorreggano, a monte, su di una delle fattispecie normative tipiche che consentono (ed anzi possono anche imporre) alla P.A. di acquisire il personale di un’entità ad essa esterna.
Ritornando, dopo questo breve excursus sui fondamenti della mobilità collettiva conseguenti a fenomeni traslativi di organizzazioni ed attività, al piano dell’inquadramento o più strettamente classificatorio, la giurisprudenza di legittimità ha chiarito che al personale trasferito ex art. 31 del d.lgs. n. 165 del 2001, stante anche il rinvio all'art. 2112 c.c., si applica il contratto collettivo in vigore per i dipendenti del cessionario, dal momento che la temporanea ultrattività della contrattazione collettiva applicata dal cedente, di cui al comma 3 dell'art. 2112 c.c., è limitata alla sola ipotesi in cui il cessionario non abbia recepito alcun contratto, evenienza che nell'impiego pubblico contrattualizzato è esclusa dall'operatività della disciplina di cui al citato d.lgs. n. 165 .
Sembra peraltro potersi dire che il transito del personale, qualora comporti mutamenti di inquadramento o retributivi, resti soggetto alle medesime regole di fondo (divieto di reformatio in peius attraverso assegno ad personam riassorbibile) che in generale governano i fenomeni di mobilità e di cui si è fatto cenno a proposito delle altre forme di trasferimento tra enti di dipendenti pubblici.
Principi cui del resto si ispira il recente arresto secondo cui, nell'ipotesi di passaggio di personale dall'Ente sviluppo agricolo siciliano all'Agenzia regionale per i rifiuti e le acque, ai sensi dell'art. 7 della l.r. Sicilia n. 19 del 2005, il lavoratore trasferito mantiene il diritto a conservare, se maggiore, il livello del trattamento economico precedente, il quale va calcolato tenendo conto di tutti gli elementi della retribuzione, la corresponsione dei quali sia certa nell'"an" e nel "quantum" e, quindi, anche del trattamento di anzianità professionale edile (cd. "APE"), previsto dall'art. 29 del CCNL del 20 maggio 2004 per le imprese edili ed affini, fatto salvo l'effetto del riassorbimento, che opera sulla medesima retribuzione nella sua globalità e non sulle singole voci di quest