TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA
1. Le norme in materia di incompatibilità e la loro ratio ispiratrice. Le novità dopo la legge Madia.
Il rapporto di lavoro con il datore pubblico è storicamente caratterizzato, a dif-ferenza di quello privato, dal c.d. regime delle incompatibilità, in base al quale al dipendente pubblico, nei limiti infraprecisati, è preclusa la possibilità di svolgere attività commerciali, industriali, imprenditoriali (anche agricole), artigiane e professionali in costanza di rapporto di lavoro con il datore pubblico . E’ però possibile essere soci di società, quale forma di legittimo investimento, salvo con-flitti di interesse se la società fosse destinataria di provvedimenti o finanziamenti pubblici da parte dell’ente ove il dipendente quotista lavora e fosse lui responsa-bile del procedimento, dal quale dovrà astenersi per evidente conflitto di interes-se) .
La ratio di tale divieto, valevole per le carriere non privatizzate ma che permane anche in un sistema “depubblicizzato” a rimarcare la peculiarità dell’impiego presso la p.a., va rinvenuta nel principio costituzionale di esclusività della presta-zione lavorativa a favore del datore pubblico (“I pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione” art. 98 cost.), per preservare le energie del lavoratore e per tutelare il buon andamento della p.a. che risulterebbe turbato dall’espletamento da parte di propri dipendenti di attività imprenditoriali caratterizzate da un nesso tra lavoro, rischio e profitto. Centri di interesse alternativi all’ufficio pubblico rive-stito, implicanti un’attività caratterizzata da intensità, continuità e professionalità, potrebbero turbare la regolarità del servizio o attenuare l’indipendenza del lavo-ratore pubblico e il prestigio della p.a.
Un simile obbligo di esclusività non è rinvenibile nell’impiego privato, nel quale il codice civile si limita a vietare esclusivamente attività extralavorative del di-pendente che si pongano in concorrenza con l’attività del datore (art. 2105 cod. civ.) : solo in tale evenienza il lavoratore si espone a forme di responsabilità disci-plinare (art. 2106 cod. civ., secondo i consueti criteri di proporzionalità e senza automatismi punitivi) e civile, mentre ogni altro “doppio lavoro” è compatibile.
La giurisprudenza ha più volte ribadito che non vale ad escludere la situazione d’incompatibilità di un pubblico dipendente, che eserciti un’attività non autoriz-zata o non autorizzabile, il fatto che egli eserciti regolarmente il suo lavoro, in quanto la norma d’incompatibilità mira anche a salvaguardare le energie lavorati-ve del dipendente stesso, ai fini di un miglior rendimento nei confronti della P.A. datrice di lavoro.
Su tale disciplina delle incompatibilità si innesta in tempi più recenti la legge 6 novembre 2012 n. 190 (c.d. legge anticorruzione) che ha inteso valorizzare, tra l’altro, il conflitto di interesse , reale o potenziale, tra attività istituzionale del pubbli-co dipendente e suoi eventuali incarichi extralavorativi, normando e dettagliando situazioni di non conferibilità di incarichi (v. d.lgs. 8 aprile 2013 n. 39) e situazioni di astensione per conflitto di interesse (v. d.P.R. 16 aprile 2013 n. 62, art. 7; l. 7 agosto 1990 n. 241, art. 6-bis).
Ulteriori modifiche sono poi intervenute a seguito della c.d. riforma Madia (l. n. 124 del 2015 e decreti attuativi, soprattutto d.lgs. 25 maggio 2016 n. 97), recante “Riorganizzazione delle pubbliche amministrazioni”, che ha introdotto disposizioni in-tegrative e correttive, incidenti su un duplice ordine di disposizioni:
- gli obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni da par-te delle pubbliche amministrazioni (integrando e modificando quanto di-sciplinato dal decreto legislativo n. 33 del 2013);
- l’inconferibilità e incompatibilità di incarichi presso le amministrazioni pubbliche e presso gli enti privati in controllo pubblico (completando quanto disciplinato dal decreto legislativo n. 39 del 2013).
Al pari della disciplina delle responsabilità (civile, penale e amministrati-vo-contabile, art. 55, co. 1, d.lgs. 30 marzo 2001 n. 165), quella sulle incompatibi-lità tra l’impiego pubblico ed altre attività e sui casi di divieto di cumulo di im-pieghi e incarichi pubblici, è stata sottratta (a differenza di quella disciplinare) alla contrattazione collettiva e riservata alla legge, così come disposto dall’art. 2, comma 1, lettera c), della legge 23 ottobre 1992, n. 421, richiamato dall’art. 40, comma 1 del d.lgs. 30 marzo 2001 n. 165. La norma di legge che nell’attuale re-gime di pubblico impiego privatizzato sancisce tale obbligo di esclusività va indi-viduata nell’art. 53, co. 1 del d.lgs. 30 marzo 2001 n. 165 (già art. 58 del d.lgs. n. 29 del 1993), secondo il quale “Resta ferma per tutti i dipendenti pubblici la disciplina delle incompatibilità dettata dagli articoli 60 e seguenti del testo unico approvato con decreto del Pre-sidente della Repubblica 10 gennaio 1957, n. 3, salva la deroga prevista dall’articolo 23-bis del presente decreto, nonché, per i rapporti di lavoro a tempo parziale, dall’articolo 6, comma 2, del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 17 marzo 1989, n. 117 e dall’articolo 1, com-mi 57 e seguenti della legge 23 dicembre 1996, n. 662”. Tale norma è richiamata anche dai CCNL 2016-2018, non toccati dai CCNL 2019-2021.
La norma stabilisce una vera e propria estensione a tutti i dipendenti pubblici , contrattualizzati e non (militari, magistrati, diplomatici, prefetti etc.), della disci-plina delle incompatibilità dettata dal testo unico degli impiegati civili dello Stato agli artt. 60 e seguenti. La stessa norma, poi, ha fatto salve le disposizioni speciali in materia di incompatibilità già vigenti per il personale docente, direttivo e ispet-tivo della scuola , per il personale docente dei conservatori di musica, per il per-sonale degli enti lirici e del servizio sanitario nazionale, nonché per i dipendenti pubblici con rapporto di lavoro a tempo parziale, per i quali soltanto è richiamata la disciplina del d.P.C.M. n. 117 del 1989 e della l. n. 662 del 1996. In particolare, per i dipendenti degli enti locali , è stato abrogato dalla l. 8 giugno 1990, n. 142, art. 64, il R.D. 3 marzo 1934, n. 393, art. 241 recante il regime delle incompatibili-tà, che risulta ora chiaramente riunificato sotto la generale disciplina richiamata.
L’art. 53 citato sancisce dunque per tutti i pubblici dipendenti (centrali e locali, privatizzati e non, questi ultimi connotati da regimi settoriali, sovente più rigoro-si, che sono lex specialis) l’ultravigenza nell’attuale regime dei datati art. 60-65 del d.P.R. n. 3 del 1957, secondo i quali:
- Art. 60 (Casi di incompatibilità): l’impiegato non può esercitare il commercio, l’industria, né alcuna professione o assumere impieghi alle dipendenze di privati o ac-cettare cariche in società costituite a fine di lucro, tranne che si tratti di cariche in so-cietà o enti per le quali la nomina è riservata allo Stato e sia all’uopo intervenuta l’autorizzazione del Ministro competente;
- art. 61 (Limiti dell’incompatibilità): Il divieto di cui all’articolo precedente non si ap-plica nei casi di società cooperative. L’impiegato può essere prescelto come perito od ar-bitro previa autorizzazione del Ministro o del capo ufficio da lui delegato;
- art. 62 (Partecipazione all’amministrazione di enti e società): Nei casi stabiliti dalla legge o quando ne sia autorizzato con deliberazione del Consiglio dei Ministri, l’impiegato può partecipare all’amministrazione o far parte di collegi sindacali in so-cietà o enti ai quali lo Stato partecipi o comunque contribuisca, in quelli che siano concessionari dell’amministrazione di cui l’impiegato fa parte o che siano sottoposti al-la vigilanza di questa;
- art. 63 (Provvedimenti per casi di incompatibilità): L’impiegato che contravvenga ai divieti posti dagli artt. 60 e 62 viene diffidato dal Ministro o dal direttore generale competente, a cessare dalla situazione di incompatibilità. La circostanza che l’impiegato abbia obbedito alla diffida non preclude l’eventuale azione disciplinare. Decorsi quindici giorni dalla diffida, senza che l’incompatibilità sia cessata, l’impiegato decade dall’impiego. La decadenza è dichiarata con decreto del Ministro competente, sentito il Consiglio di amministrazione;
- art. 64 (Denuncia dei casi di incompatibilità) Il capo del servizio è tenuto a denun-ciare al Ministro o all’impiegato da questi delegato i casi di incompatibilità dei quali sia venuto comunque a conoscenza.
- art. 65 (Divieto di cumulo di impieghi pubblici).
Gli impieghi pubblici non sono cumulabili, salvo le eccezioni stabilite da leggi speciali.
I capi di ufficio, di istituti o di aziende e stabilimenti pubblici sono tenuti, sotto la loro personale responsabilità, a riferire al Ministro competente, il quale ne dà notizia alla Corte dei conti, i casi di cumulo di impieghi riguardanti il dipendente personale.
L’assunzione di altro impiego nei casi in cui la legge non consente il cumulo importa di diritto la cessazione dall’impiego precedente, salva la concessione del trattamento di quiescenza eventualmente spettante, ai sensi dell’art. 125, alla data di assunzione del nuovo impiego.
Tale risalente complesso normativo è stato oggetto di una ampia produzione giurisprudenziale che ha delimitato la portata del divieto e, quindi, dei rilevanti riflessi (decadenza) derivanti dalla sua inosservanza, chiarendo che il “secondo impiego” deve presentare connotati di subordinazione (salvo attività libe-ro-professionali), continuatività (ergo non saltuarietà) e professionalità, nonché un adeguato ritorno lucrativo . Possono dunque ritenersi vietate le attività industria-li, commerciali, artigianali, agricole e professionali svolte in modo continuativo o assumendo cariche sociali (la mera titolarità di azioni con conseguente acquisi-zione dello status di socio è ovviamente compatibile, salvo conflitti di interesse con compiti istituzionali su pratiche afferenti la società ). Deve ritenersi pari-menti vietato il cumulo di rapporti di lavoro alle dipendenze di un privato o di al-tro datore pubblico.
La ordinatorietà dell’espletamento di tali attività dà luogo a decadenza, mentre la occasionalità di tali attività imprenditoriali, pur non dando luogo a decadenza, deve comunque essere oggetto di autorizzazione di seguito analizzata, pena la comminatoria di sanzioni disciplinari.
Indice sintomatico per eccellenza (ma non prova di per sé assorbente, potendo una prestazione occasionale essere fatturata senza configurare attività professio-nale, ontologicamente continuativa) della non occasionalità, ma della non consen-tita stabilità dell’attività extralavorativa, è dato dalla apertura di partita IVA: in ta-le evenienza si refluisce nel regime dei divieti assoluti qualora venga accertato l’effettivo utilizzo della stessa per attività autonome svolte con continuità e pro-fessionalità. Più difficile (ma non impossibile) da accertare, soprattutto nei fre-quenti giudizi contabili ex art.53, co.7 e 7-bis, d.lgs. n.165, è l’espletamento “subdolo” di attività formalmente consulenziali ma intense e reiterate nel tempo, che diventano di fatto (e di diritto) attività libero-professionali, precluse a pubbli-ci dipendenti, compresi professori universitari a tempo pieno (o primari ospeda-lieri in regime intramoenia) a cui la normativa consente solo attività realmente consulenziali (ergo occasionali).
La più recente giurisprudenza della Cassazione ha invece ritenuto abrogata (ex art. 12 disp.prel al cod. civ.) dal predetto art. 53, d.lgs. n. 165 del 2001 la previgen-te regolamentazione in materia di incompatibilità contenuta nei commi 60 e 61 dell’art. 1, l. 23 dicembre 1996 n. 662, facendo salva di tale normative le sole pre-visioni afferenti le deroghe alle incompatibilità per il personale in part-time. L’approdo della Suprema Corte è rilevante sul piano sanzionatorio e procedurale, come si vedrà nel successivo paragrafo.
Nel contempo la Suprema Corte, nel ribadire più volte il divieto di iscrizione in albi professionali (salvo quanto si dirà per il personale in part-time ridotto) per i pubblici dipendenti, ha però fatto salve, quali deroghe al divieto (in aggiunta a quelle, per l’albo degli avvocati, concernenti professori universitari e di scuole superiori ex art. 3, r.d.l. 27 novembre 1933, n. 1578), alcune ipotesi previste in leg-gi settoriali ed ordinamenti peculiari , come oggi ribadito dall’art. 53, co. 6, d.lgs. n. 165 del 2001. Tuttavia l’art. 1, co. 56-bis, l. n. 662 del 1996 stabilisce che ai di-pendenti pubblici iscritti ad albi professionali e che esercitino attività professio-nale non possono essere conferiti incarichi professionali dalle amministrazioni pubbliche; gli stessi dipendenti non possono assumere il patrocinio “in contro-versie nelle quali sia parte una pubblica amministrazione”.
Va precisato che la mera iscrizione in un albo professionale non è oggetto di di-vieto da parte delle norme contenute nell’art. 53, d.lgs. n. 165 del 2001 e nell’art. 60 del t.u. n. 3 del 1957 (che regolano il rapporto di lavoro dei dipendenti pubbli-ci), essendo l’oggetto dei divieti posti da tali disposizioni il concreto esercizio del-la professione, mentre sono le settoriali leggi dei singoli Ordini professionali che, di regola, pongono un divieto per il pubblico dipendente ad iscriversi allo speci-fico albo professionale (salvo quelli iscrivibili in “albo speciale” in quanto eser-centi nella p.a. funzioni per le quali è indefettibile l’iscrizione: avvocati interni, architetti, ingegneri, medici etc.).
Sul peculiare regime libero-professionale intramurario del personale medico, è sufficiente rinviare a circolari esplicative in materia ed alla giurisprudenza ordina-ria (per il profilo disciplinare) e contabile che ha sovente condannato medici in regime intramoenia (o accademici a tempo pieno) che in violazione non solo dell’art. 53, d.lgs. n. 165, ma anche del d.lgs. n. 502 del 1992 e della l. n. 448 del 1998, svolgevano di fatto (talvolta in nero) attività libero professionale extramoe-nia .
Il divieto posto dall’art. 60, t.u. n. 3 del 1957 di assumere cariche sociali non trova applicazione per le società a partecipazione pubblica (argomentato ex art. 62, t.u. n. 3 del 1957).
Infine, occorre rammentare che l’art. 23-bis del d.lgs. n. 165/2001 consente lo svolgimento a pubblici dipendenti, in deroga ai divieti posti dall’art. 53, di attività, in aspettativa senza assegni, presso strutture pubbliche o private.
Inoltre, altra importante deroga è stabilita dalla l. 4 novembre 2010, n. 183, il cui art. 18 (Aspettativa) dispone: 1. I dipendenti pubblici possono essere collocati in aspettativa, senza assegni e senza decorrenza dell’anzianità di servizio, per un periodo massimo di dodici mesi, anche per avviare attività professionali e imprenditoriali. L’aspettativa è concessa dall’amministrazione, tenuto conto delle esigenze organizzative, previo esame della documenta-zione prodotta dall’interessato.
2. Nel periodo di cui al comma 1 del presente articolo non si applicano le disposizioni in te-ma di incompatibilità di cui all’articolo 53 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, e successive modificazioni.
3. Resta fermo quanto previsto dall’art. 23-bis del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, e successive modificazioni.
L’accertamento datoriale di tali attività extralavorative non consentite o non autorizzate può avvenire o tramite richieste alla Guardia di Finanza, oppure tra-mite chiarimenti (o istanze di accesso ex art. 22 segg. l. n. 241/1990) a soggetti potenzialmente erogatori di incarichi a dipendenti pubblici, oppure, più agevol-mente, all’Agenzia delle Entrate o all’Inps, presso il quale potrebbero essere aperte partite previdenziali (c.d. gestione separata) a favore di dipendenti “incari-chisti” . Queste amministrazioni sono tenute a fornire i dati richiesti per dove-rosa collaborazione istituzionale e in assenza di ostacoli connessi alla tutela della privacy, che recede rispetto al prevalente dovere di accertamento e poi sanzionato-rio della p.a.: il trattamento di acquisizione dati è dunque legittimo anche presso altri enti ex artt. 20 e 112 del d.lgs. n. 196 del 2003.
2. Le incompatibilità assolute e le conseguenze dell’inosservanza del divieto nel d.P.R. n. 3 del 1957.
L’inosservanza del predetto divieto di cui agli art. 60 seg. t.u. n. 3 del 1957 comporta, sul piano procedurale, ex art. 63, t.u. n. 3 del 1957 cit., una previa diffida datoriale (oggi da parte della sola dirigenza e non più del vertice politico), non prevista invece per le diverse ipotesi di attività svolte senza autorizzazione com-portanti sanzioni disciplinari (cfr. Cass., sez. lav., 7 maggio 2019 n. 11949), volta a far cessare l’incompatibilità e quindi, in caso di inottemperanza alla diffida, la de-cadenza dall’impiego che, secondo la giurisprudenza della Corte di Cassazione , non ha natura disciplinare. Ne consegue, secondo tale indirizzo, che la decadenza, nel caso di mancata rimozione della causa di incompatibilità con lo status del pubblico dipendente, è del tutto automatica: essa non “è la conseguenza di un inadempimento, bensì scaturisce dalla perdita di quei requisiti di indipendenza e di totale disponibilità che, se fossero mancati ab origine, avrebbero precluso la stessa costituzione del rapporto di lavoro”.
Da tale automatismo espulsivo deriva, secondo la cennata giurisprudenza di le-gittimità, la non necessità di un previo procedimento disciplinare in contradditto-rio con l’interessato, previsto in caso di violazione del regime autorizzatorio per attività espletabili ma previa autorizzazione datoriale , e l’inapplicabilità della normativa che tale contraddittorio sembrava imporre, ovvero i commi 60 e 61 dell’art. 1, l. 23 dicembre 1996 n. 662 , in quanto tali previsioni “devono ritenersi abrogate dagli interventi legislativi successivi (L. n. 59 del 1997 e art. 53, d.lgs. n. 165, n.d.a.) che hanno regolato interamente la materia (art. 12 disp. prel. al codice civile)”.
Tale assenza di contraddittorio prima della decadenza si presta a nostro avviso a critiche (da prospettare in chiave di censure di incostituzionalità) in quanto il pre-vio confronto con il lavoratore potrebbe contribuire a chiarire i termini della que-stione in fatto (es. avvenuta ottemperanza alla diffida) e in diritto (es. non ricon-ducibilità ad incompatibilità della propria situazione, saltuarietà dell’attività etc.), nell’interesse non solo del lavoratore, ma della stessa p.a., che potrebbe evitare errori destinati ad essere censurati in giudizio.
In ogni caso, poiché sul piano procedimentale, la diffida assume valenza equi-pollente alla comunicazione di avvio di procedimento (art. 7, l. 7 agosto 1990 n. 241) di decadenza, il lavoratore potrebbe egualmente presentare all’amministrazione memorie o osservazioni o chiedere di essere sentito ex art. 10, l. n. 241 del 1990 .
Inoltre, poiché l’art. 1 co. 61 l. n. 662 prevedeva quale conseguenza dello svol-gimento di qualsiasi altra attività di lavoro subordinato o autonomo il “recesso per giusta causa”, la dottrina aveva ritenuto che la previsione andava doverosa-mente coordinata con il principio di proporzionalità codificato nell’art. 2119 cod. civ., con conseguente apprezzamento giudiziale sulla sussistenza o meno della giusta causa e con possibile conversione in sanzione conservativa di quella espul-siva . Avendo la Cassazione ritenuto abrogata tale norma dall’art. 53, d.lgs. n. 165 che sancisce la decadenza (non disciplinare) per inosservanza della normativa sul-le incompatibilità assolute, alcun sindacato della p.a. o del giudice appare possibi-le su tale misura espulsiva che non risponde a principi in materia disciplinare (ergo all’art. 2119 cod. civ.).
Se invece il dipendente ottemperi alla diffida, cessando dalla situazione di in-compatibilità, non scatta l’automatismo espulsivo predetto, ma restano comunque fermi i riflessi disciplinari della (temporanea) inosservanza del divieto (fissato da legge e non da CCNL e, come tale, non abbisognevole di affissione nel codice di-sciplinare), come si desume dal chiaro dettato dell’art. 63, d.P.R. n. 3 del 1957, secondo il quale “La circostanza che l’impiegato abbia obbedito alla diffida non preclude l’eventuale azione disciplinare” . In tal caso andrà adeguatamente utilizzato il para-metro della proporzionalità sanzionatoria , valutando la specifica attività extrala-vorativa espletata, la sua durata, le mansioni affidate presso la p.a., la qualifica ri-vestita, il clamor nella collettività del fatto etc.
La più recente giurisprudenza contabile ha ipotizzato anche profili di danno erariale conseguenti allo svolgimento di tali attività .
Qualora infine accada che il dipendente sia stato, per errore, autorizzato dal suo ente allo svolgimento di un’attività o incarico assolutamente incompatibile, pur non potendosi muovere addebiti disciplinari al dipendente che ha fatto affida-mento sull’autorizzazione concessa, dovrà comunque procedersi a diffidarlo a cessare dall’attività incompatibile, seconda la procedura ex art. 63, t.u. n. 3 del 1957.
3. Gli incarichi (attività extraistituzionali) autorizzabili dopo la legge n. 190 del 2012: condizioni di legittimità, modalità autorizzatorie (non postume) e pubblicità. Sanzioni in caso di mancata richiesta di autorizzazione. Gli incarichi conferiti dal datore stesso.
Il richiamato art. 53, d.lgs. n. 165 del 2001, nella versione modificata dalla legge anticorruzione n. 190 del 2012, accanto alla disciplina delle incompatibilità “asso-lute” con lo status di pubblico dipendente (sancite dal t.u. n. 3 del 1957) compor-tanti decadenza dall’impiego previa diffida a cessare, regolamenta anche le attività non già vietate, ma sottoposte ad un regime autorizzatorio , nonché le attività “liberalizzate”, ovvero espletabili da qualsiasi pubblico dipendente senza necessità di autorizzazione datoriale, né di alcun nulla-osta o benestare.
Ulteriore deroga, questa volta soggettiva, al generale regime delle incompatibi-lità è poi data dalle attività extralavorative espletabili dal solo personale in part-time. Queste ultime verranno analizzate nel successivo paragrafo 5, mentre in questa sede verrà vagliato il regime autorizzatorio e nel successivo paragrafo 4 saranno prospettate le c.d. attività liberalizzate per tutti i dipendenti pubblici.
Circa le attività sottoposte al regime autorizzatorio, che rappresentano una de-roga alla regola della incompatibilità, l’art. 53 cit., ai commi 2 seg., prevede: “2. Le pubbliche amministrazioni non possono conferire ai dipendenti incarichi, non compresi nei com-piti e doveri di ufficio, che non siano espressamente previsti o disciplinati da legge o altre fonti normative, o che non siano espressamente autorizzati.(omissis).
5. In ogni caso, il conferimento operato direttamente dall’amministrazione, nonché l’autorizzazione all’esercizio di incarichi che provengano da amministrazione pubblica diversa da quella di appartenenza, ovvero da società o persone fisiche, che svolgano attività d’impresa o commerciale, sono disposti dai rispettivi organi competenti secondo criteri oggettivi e predetermi-nati, che tengano conto della specifica professionalità, tali da escludere casi di incompatibilità, sia di diritto che di fatto, nell’interesse del buon andamento della pubblica amministrazione o situazioni di conflitto, anche potenziale, di interessi, che pregiudichino l’esercizio imparziale delle funzioni attribuite al dipendente (omissis).
7. I dipendenti pubblici non possono svolgere incarichi retribuiti che non siano stati conferiti o previamente autorizzati dall’amministrazione di appartenenza. Ai fini dell’autorizzazione, l’amministrazione verifica l’insussistenza di situazioni, anche potenziali, di conflitto di interessi. Con riferimento ai professori universitari a tempo pieno, gli statuti o i regolamenti degli atenei disciplinano i criteri e le procedure per il rilascio dell’autorizzazione nei casi previsti dal presente decreto. In caso di inosservanza del divieto, salve le più gravi sanzioni e ferma restando la re-sponsabilità disciplinare, il compenso dovuto per le prestazioni eventualmente svolte deve essere versato, a cura dell’erogante o, in difetto, del percettore, nel conto dell’entrata del bilancio dell’amministrazione di appartenenza del dipendente per essere destinato ad incremento del fon-do di produttività o di fondi equivalenti.
7-bis. L’omissione del versamento del compenso da parte del dipendente pubblico indebito per-cettore costituisce ipotesi di responsabilità erariale soggetta alla giurisdizione della Corte dei conti.
8. Le pubbliche amministrazioni non possono conferire incarichi retribuiti a dipendenti di al-tre amministrazioni pubbliche senza la previa autorizzazione dell’amministrazione di apparte-nenza dei dipendenti stessi. Salve le più gravi sanzioni, il conferimento dei predetti incarichi, senza la previa autorizzazione, costituisce in ogni caso infrazione disciplinare per il funzionario responsabile del procedimento; il relativo provvedimento è nullo di diritto. In tal caso l’importo previsto come corrispettivo dell’incarico, ove gravi su fondi in disponibilità dell’amministrazione conferente, è trasferito all’amministrazione di appartenenza del dipendente ad incremento del fondo di produttività o di fondi equivalenti.
9. Gli enti pubblici economici e i soggetti privati non possono conferire incarichi retribuiti a dipendenti pubblici senza la previa autorizzazione dell’amministrazione di appartenenza dei dipendenti stessi. Ai fini dell’autorizzazione, l’amministrazione verifica l’insussistenza di si-tuazioni, anche potenziali, di conflitto di interessi. In caso di inosservanza si applica la dispo-sizione dell’articolo 6, comma 1, del decreto legge 28 marzo 1997, n. 79, convertito, con modi-ficazioni, dalla legge 28 maggio 1997, n. 140, e successive modificazioni ed integrazioni. All’accertamento delle violazioni e all’irrogazione delle sanzioni provvede il Ministero delle fi-nanze, avvalendosi della Guardia di finanza, secondo le disposizioni della legge 24 novembre 1981, n. 689, e successive modificazioni ed integrazioni. Le somme riscosse sono acquisite alle entrate del Ministero delle finanze (omissis)”.
La ratio del regime autorizzatorio per talune attività extralavorative, quale ra-gionevole e motivata deroga alla regola della incompatibilità, va rinvenuta nella necessità-opportunità di consentire occasionali incarichi retribuiti a pubblici di-pendenti, quando questi non configurano delle stabili attività commerciali, indu-striali, professionali in costanza di rapporto di lavoro e non si pongono in contra-sto o in conflitto di interessi (quelli dell’art.7, d.P.R. n.62 del 2013, ben ampliabili dai codici aziendali di recepimento) con i compiti istituzionali dell’ente pubblico ove lavorano. Poiché è indefettibile una verifica in concreto sulle attività extrala-vorative non preponderanti che potrebbero non urtare con il divieto generale di espletamento, la legge ha attribuito tale riscontro alla stessa p.a.-datrice, che ha spesso adottato, assai opportunamente, codici di comportamento aziendali, rego-lamenti-guida o circolari interne (e, come tali, autovincolanti) sulle attività auto-rizzabili o meno e sui parametri decisori in sede autorizzativa , al fine di rendere oggettive, imparziali e trasparenti le proprie scelte.
Tali criteri-guida potrebbero a nostro avviso anche essere mutevoli tra le varie amministrazioni, in considerazione delle peculiarità che caratterizzano talune ca-tegorie di pubblici dipendenti rispetto ad altre e la mutevolezza soprattutto del concetto di “conflitto reale o potenziale di interesse” che l’art. 53, co. 5, 7 e 9, d.lgs. n. 165 valorizza dopo la novella apportata dalla legge anticorruzione n. 190 del 2012 .
Logica impone che i parametri (che sarebbe opportuno formalizzare in regola-menti o circolari interne) alla cui stregua valutare l’autorizzabilità di un incarico siano tendenzialmente:
a) la assenza di conflitti di interesse (anche potenziali: v. art. 53, co. 5, 7 e 9 e art. 7, d.P.R. n. 62 del 2013) con la p.a.-datrice di lavoro (rinvenibili, ad es., oltre che nelle ipotesi dell’art. 7, d.P.R. n. 62 del 2013, in caso di espletamento di saltuarie collaborazioni in studi o società che abbiano re-lazioni economiche con la p.a. di appartenenza o siano dalla stessa vigilate o finanziate o ne siano addirittura concessionari o fornitori); sotto altro profilo, deve verificarsi la mancanza di conflitto di interesse tra dirigente che autorizzi l’incarico e collega che ne faccia domanda (art. 7, d.P.R. n. 62 del 2013);
b) la occasionalità/saltuarietà della prestazione (valutabile secondo parametri di ripetitività, durata della prestazione) . Non rientrano in tali parametri gli incarichi automaticamente rinnovabili, che andranno autorizzati a cia-scuna scadenza; occorre comunque sottolineare che sono autorizzabili anche le collaborazioni coordinate e continuative, purché costituiscano, in relazione alla qualifica, alle funzioni e alla sede di servizio del dipendente, un impegno extra-officio valutato, in concreto, compatibile con la regola-rità del servizio e con il principio della prevalenza ‒ nell’anno ‒ del tempo di lavoro alle dipendenze dell’amministrazione di appartenenza;
c) la materiale compatibilità dello specifico incarico con il rapporto di im-piego (es. l’attività non è espletabile in concomitanza con l’orario di servi-zio salvo occasionali deroghe da valutare in concreto: giudice onorario, difensore civico, CTU, curatore fallimentare, tirocinante per il consegui-mento di abilitazione professionale; es. l’attività è estremamente logorante da un punto di vista psico-fisico, o è notturna e, come tale, incompatibile con il puntuale espletamento della prestazione lavorativa diurna ), che dovrà essere valutata di volta in volta, tenuto conto soprattutto del regime legale o contrattuale dell’orario di lavoro e delle assenze di ciascun dipen-dente (es. i dirigenti possono articolare autonomamente la loro presenza in servizio, anche al fine di svolgere attività extra-officio, pur con l’obbligo della presenza giornaliera; il dipendente in aspettativa senza as-segni per motivi personali può essere autorizzato allo svolgimento di in-carichi extralavorativi che richiedono un maggiore impegno, tenuto conto del fatto che tale impegno non può riverberarsi negativamente sulla rego-larità del servizio, stante la temporanea sospensione della prestazione la-vorativa da parte del dipendente fruente della detta aspettativa).
Tali parametri potrebbero poi, a nostro avviso, essere valutati con riferimento a concorrenti profili soggettivi, quali:
d) le specifiche mansioni o incarichi cui è adibito il singolo richiedente, po-tendo pervenirsi a soluzioni difformi sulla autorizzabilità di un incarico anche con riferimento a tali profili soggettivi, quali la peculiare dignità o terzietà delle funzioni svolte;
e) il numero di incarichi già autorizzati in precedenza al richiedente, per lo svolgimento dei quali l’impegno complessivo annuale non può comunque superare il tempo di lavoro alle dipendenze dell’ente di appartenenza sta-bilito dalle norme di legge e contrattuali di riferimento;
f) la laboriosità (desunta dai carichi di lavoro evasi, da arretrati pendenti, da carenze di organico) del lavoratore;
g) la professionalità specifica desunta dalla notorietà scientifica, dottrinale o tecnica del lavoratore, che occasiona la richiesta individuale di attribuzio-ne di incarichi da parte di terzi ‒ sia soggetti pubblici che privati ‒ che può arrecare positivi ritorni d’immagine all’ente di appartenenza e costi-tuire, in via occasionale o regolarmente, un arricchimento di professiona-lità ed esperienza per il dipendente, a beneficio dell’ente stesso, soprattut-to quando gli incarichi siano ricollegabili alle competenze attribuite dall’ordinamento all’amministrazione;
h) il profilo culturale e professionale del dipendente, che potrà rilevare anche per determinare lo specifico tempo di lavoro necessario per l’espletamento dell’incarico, soprattutto quando si tratti di lavoro intellet-tuale (es. al dipendente con un alto profilo culturale e professionale oc-correrà un minor impegno o tempo di lavoro per lo svolgimento di una consulenza).
A titolo esemplificativo, ed impregiudicato quanto differentemente prefissato da ciascuna amministrazione (nei predetti regolamenti o circolari), potrebbero essere soggette ad autorizzazione l’attività di saltuaria collaborazione in società agricole o commerciali non legate all’ente di appartenenza, l’attività di insegna-mento a contratto in Università o centri di formazione pubblici o privati (anche con autorizzazione annuale complessiva), di consulente tecnico di parte (le CTU sono da ritenere liberalizzate come attività doverosa a favore della giustizia ), l’attività di amministratore del proprio condominio (tale attività svolta per più condomini assumerebbe connotati imprenditoriali e sarebbe dunque assoluta-mente incompatibile), il tirocinio per il conseguimento di abilitazioni espletato fuori orario di lavoro, curatore (non abituale e dunque non professionale) di fal-limenti in orari extralavorativi, revisore contabile in orari extralavorativi (con esclusione, qualora si trattasse di attività presso privati, dei dipendenti di alcune amministrazioni, es. di quelle fiscali), saltuarie collaborazioni di infermieri pub-blici in cliniche private in orari non d’ufficio.
Non appare comunque legittimo stabilire, nella disciplina interna dei singoli en-ti, dei limiti allo svolgimento di incarichi o attività legati ai compensi nell’anno, in-troducendo dei tetti retributivi: difatti, l’entità dei compensi offerti dai commit-tenti ai dipendenti incaricati è legata alle capacità di ciascun dipendente, che in relazione al suo profilo culturale e professionale potrà essere remunerato anche con compensi alti a fronte di prestazioni ‒ con alto valore di mercato ‒ svolte in un tempo di lavoro limitato e occasionalmente.
La normativa fa testuale riferimento, ai fini autorizzatori, ai soli incarichi retri-buiti. La limitazione appare discutibile, in quanto anche un incarico gratuito po-trebbe risultare assorbente e usurante (o incompatibile con i fini dell’ente pubbli-co di appartenenza), mentre vi possono essere incarichi onerosi ma routinari e non logoranti. Una comunicazione va dunque fatta al datore anche per attività gratuite.
Assai rigoroso è il regime punitivo, sia per chi espleta l’incarico, sia per chi (soggetto pubblico o privato) lo conferisce, in caso di inosservanza della prescritta normativa autorizzatoria.
Premesso che tale “punizione” non ha natura disciplinare e non richiede dun-que una contestazione degli addebiti , i commi 7-9 del predetto art. 53, prevedo-no per “l’incaricato” che in caso di inosservanza del divieto, salve le più gravi sanzioni e ferma restando la responsabilità disciplinare, il compenso dovuto per le prestazioni eventualmente svolte deve essere versato (nel suo importo netto, secon-do la prevalente giurisprudenza ), a cura dell’erogante o, in difetto, del percettore, nel conto dell’entrata del bilancio dell’amministrazione di appartenenza del di-pendente per essere destinato ad incremento del fondo di produttività o di fondi equivalenti . Trattasi, come detto, di sanzione di natura non disciplinare e non richiede una previa contestazione disciplinare .
Il novello comma 7-bis del d.lgs. n. 165 (introdotto dalla l. n. 190 del 2012) ha statuito che “L’omissione del versamento del compenso da parte del dipendente pubblico inde-bito percettore costituisce ipotesi di responsabilità erariale soggetta alla giurisdizione della Corte dei conti”: come chiarito in giurisprudenza , trattasi di norma, quest’ultima, inno-vativa e non meramente ricognitiva (alla luce di indirizzi della Cassazione ), volta a radicare in capo alla Corte dei conti (secondo rito ordinario cfr. C. conti, sez. riun., 31 luglio 2019 n. 26/QM), e non più all’a.g.o. come in passato, la giurisdi-zione risarcitoria e non sanzionatoria in materia nel termine prescrizionale quin-quennale. Tuttavia la Cassazione, con avallo della Consulta sulla piena legittimità del c.d. “doppio binario” civile e contabile (da ultimo C.cost., 28 luglio 2022 n.208 punto 6.), continua a ritenere percorribile, accanto all’azione giuscontabile della Procura, una azione civile datoriale per il versamento della somma ex art.53, co.7, pur nei limiti del divieto di doppia condanna .
Per chi (funzionario pubblico responsabile del procedimento) invece conferisce incarichi senza autorizzazione, salve le più gravi sanzioni, incorre in ogni caso in-frazione disciplinare e il relativo provvedimento è nullo di diritto (art. 53, co. 8). In tal caso l’importo previsto come corrispettivo dell’incarico, ove gravi su fondi in disponibilità dell’amministrazione conferente, è trasferito all’amministrazione di appartenenza del dipendente ad incremento del fondo di produttività o di fondi equivalenti.
Ovviamente, in base al comma 9 dell’art. 53, anche gli enti pubblici economici e i soggetti privati non possono conferire incarichi retribuiti a dipendenti pubblici senza la previa autorizzazione dell’amministrazione di appartenenza dei dipen-denti stessi. In caso di inosservanza si applica la disposizione dell’articolo 6, comma 1, del decreto legge 28 marzo 1997, n. 79, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 maggio 1997, n. 140, e successive modificazioni ed integrazioni . All’accertamento delle violazioni e all’irrogazione delle sanzioni provvede il Mini-stero delle finanze, avvalendosi della Guardia di finanza, secondo le disposizioni della legge 24 novembre 1981, n. 689, e successive modificazioni ed integrazioni. Le somme riscosse sono acquisite alle entrate del Ministero delle finanze.
Il d.lgs. n. 75 del 2017, nel novellare l’art. 53, d.lgs. n. 165, ha poi previsto pe-santi oneri pubblicitari e motivazionali per detti incarichi, sancendo una dove-rosa comunicazione al Dipartimento della funzione pubblica, accompagnata da una relazione nella quale sono indicate le norme in applicazione delle quali gli in-carichi sono stati conferiti o autorizzati, le ragioni del conferimento o dell’autorizzazione, i criteri di scelta dei dipendenti cui gli incarichi sono stati conferiti o autorizzati e la rispondenza dei medesimi ai principi di buon anda-mento dell’amministrazione, nonché le misure che si intendono adottare per il contenimento della spesa.
Sul piano disciplinare, di doverosa attivazione , a fronte dell’inosservanza dell’obbligo di autorizzazione (fissato da legge e, come tale, non abbisognevole di affissione nel codice disciplinare), una volta venuto meno ad opera della più re-cente giurisprudenza il licenziamento per giusta causa (o la decadenza per il per-sonale non privatizzato) sancito, quale unica sanzione del caso, dall’art. 1, co. 61 della l. n. 662 del 1996 , andrà adeguatamente utilizzato dal datore-p.a. il para-metro della proporzionalità sanzionatoria , valutando la specifica attività extrala-vorativa espletata senza autorizzazione, la sua durata, le mansioni espletate presso la p.a., la qualifica rivestita, il clamor nella collettività del fatto etc. Tale ragionevo-le approdo interpretativo, già propugnato dalla dottrina anche sotto la previgenza del recesso ex l. n. 662 cit. (non ostativo, secondo taluni, al sindacato giudiziale di proporzionalità ex art. 2106 cod. civ.) ed oggi avallato dalla Cassazione, contribui-rà a chiarire il contrasto giurisprudenziale venutosi a creare in ordine ai risvolti disciplinari derivanti dall’espletamento di incarichi non autorizzati . Per le attività non autorizzabili (incompatibilità assolute) resta invece ferma la sola decadenza non disciplinare previa diffida, non necessaria invece per le attività svolte senza autorizzazione, come chiarito da Cass., sez. lav., 7 maggio 2019 n. 11949 (v. sopra par. 2).
Sul piano procedurale, l’art. 53, co. 10, regolamenta le modalità di richiesta e di rilascio dell’autorizzazione, stabilendo che la stessa deve essere formulata all’amministrazione di appartenenza del dipendente dai soggetti, pubblici o priva-ti, che intendono conferire l’incarico, ma che può, altresì, essere richiesta, come di regola accade, dal dipendente interessato.
La richiesta, in forma scritta, deve contenere le generalità del richiedente, l’oggetto (non generico) e la durata dell’incarico, l’ente conferente, il compenso previsto (o prevedibile), la sede di espletamento dell’incarico.
L’amministrazione di appartenenza, in persona del dirigente generale compe-tente preposto alla gestione del personale (ex art. 17, d.lgs. n. 165) o suo delegato, deve pronunciarsi motivatamente sulla richiesta di autorizzazione entro trenta giorni dalla ricezione della richiesta stessa o entro 45 giorni se il dipendente presta servizio presso amministrazione diversa da quella di appartenenza (in caso con-trario scatteranno le infraprecisate ipotesi di silenzio-accoglimento per incarichi conferiti da p.a. o di silenzio-rigetto per incarichi conferiti da privati). Opportuna ci sembra l’acquisizione da parte dell’organo decidente di un parere (non vinco-lante) da parte del diretto superiore del richiedente per valutare l’incidenza dell’espletando incarico sull’attività d’ufficio, l’incarico ricoperto o le mansioni svolte, nonchè la regolarità del servizio.
La competenza a provvedere, quale atto gestionale, non spetta comunque agli organi di governo o di indirizzo politico-amministrativo dell’ente, né ai preposti agli uffici di diretta collaborazione; tuttavia, a questi ultimi, potrà essere richiesto il parere qualora l’autorizzazione venga richiesta dal dipendente al vertice dell’apparato burocratico o degli uffici di diretta collaborazione (es. nelle ammi-nistrazioni dello Stato, il capo dipartimento o segretario generale, quale vertice burocratico, il capo di gabinetto quale vertice degli uffici di diretta collaborazione: in entrambi i casi, il parere potrà essere espresso dal Ministro); qualora a richie-dere l’autorizzazione sia un dipendente in servizio presso un ufficio di diretta col-laborazione, il parere potrà essere espresso dal responsabile dell’ufficio di diretta collaborazione).
La valutazione in sede decisionale, sebbene ancorata a parametri guida oggettivi e soggettivi quali quelli sopra enucleati, non deve mai perdere di vista la specifi-cità del singolo incarico e le peculiarità professionali del richiedente, come riba-dito dalla stessa magistratura .
Non è preclusa, ed è anzi consentita dall’art. 10, l. n. 241 del 1990 (per il perso-nale in regime di diritto pubblico) o ammessa secondo i principi di buona fede e correttezza (per il personale in regime di diritto privato), la partecipazione del la-voratore interessato al procedimento autorizzatorio, fornendo chiarimenti atti a favorire il richiesto rilascio.
Per il personale che presta comunque servizio presso amministrazioni pubbli-che diverse da quelle di appartenenza, l’autorizzazione è subordinata all’intesa tra le due amministrazioni. In tal caso il termine per provvedere è per l’amministrazione di appartenenza del dipendente (che è la sola competente a provvedere) di 45 giorni e si prescinde dall’intesa se l’amministrazione presso la quale il dipendente presta servizio non si pronunzia entro 10 giorni dalla ricezione della richiesta di intesa da parte dell’amministrazione di appartenenza. Decorso il termine per provvedere, l’autorizzazione, se richiesta per incarichi da conferirsi da amministrazioni pubbliche, si intende accordata; in ogni altro caso, si intende de-finitivamente negata.
È difficilmente ipotizzabile, a nostro avviso, un intervento autorizzatorio postu-mo a sanatoria di incarichi già espletati , salvo, forse, per eccezionali casi di inca-richi svolti per motivi di urgenza confidando da parte del lavoratore nel sicuro ri-lascio dell’autorizzazione, trattandosi di attività abitualmente e notoriamente au-torizzate dalla p.a.-datrice di lavoro (magari proprio in base a circolari o regola-menti interni autovincolanti): la portata convalidante dell’intervento postumo della p.a., solo in questi casi-limite, escluderà ogni risvolto disciplinare o pecunia-rio in capo al lavoratore. Parimenti possibile e legittimo è un intervento autoriz-zatorio tardivo della p.a. dopo il formarsi del silenzio-rigetto previsto dall’art. 53, che dovrà intendersi come implicitamente revocato dal provvedimento espresso di assenso all’espletamento dell’incarico.
Dinieghi di autorizzazione (che non vanno preceduti dal preavviso di rigetto ex art. 10-bis, l. 7 agosto1990 n. 241 da parte del datore, se trattasi di personale in regime di diritto privato, trattandosi di attività gestionale privatizzata), dovranno essere motivati e potranno essere oggetto di impugnativa innanzi al giudice ordi-nario del lavoro , prospettando vizi quali l’inosservanza di circolari interne, il trattamento diseguale di casi identici, o l’erronea applicazione di legge etc. In tali evenienze la posizione soggettiva azionata in giudizio è riconducibile all’interesse legittimo, a cui si contrappone la ragionevole valutazione dei contrapposti inte-ressi da parte del datore e la discrezionale (ma ragionevole) ponderazione sul caso concreto secondo i parametri suprariferiti . Per il personale non privatizzato (magistrati, prefetti, diplomatici, militari etc.) le controversie sul diniego di auto-rizzazione sono invece devolute al g.a., la cui giurisprudenza è assai ricca e faro di orientamento su molte questioni.
Sempre l’art. 53, novellato dalla l. n. 190 del 2012 e poi dal d.lgs. n. 75 del 2017, regolamenta infine, per finalità sia di trasparenza che di contenimento della spesa pubblica, forme di comunicazione da parte dell’erogante dei compensi corrisposti al lavoratore alla amministrazione di appartenenza (co. 11) e forme di pubblicità degli incarichi conferiti o autorizzati a pubblici dipendenti sia nei siti del confe-rente l’incarico sia attraverso comunicazioni al Dipartimento della Funzione pub-blica (co. 12-14) in raccordo con la normativa sull’anagrafe delle prestazioni pa-trimoniali istituita dall’art. 24, l. 412 del 1991 presso il Dipartimento della Fun-zione Pubblica, che ha emanato varie circolari esplicative in materia .
Ovviamente, in base alla chiara formulazione dell’art. 53, co. 6 e 14, d.lgs. n. 165 (e tenuto conto delle circolari esplicative della Funzione pubblica), tali comunica-zioni non riguardano, sotto il profilo oggettivo (per materia) gli incarichi di cui al medesimo comma 6 (seminari, convegni diritti d’autore etc.), che non sono né autorizzati né conferiti, né riguardano, sotto il profilo soggettivo, i soggetti esclusi da tali comunicazioni (personale in part-time ridotto, professori universitari a tempo definito e di scuole superiori, medici in extramoenia); pertanto, le comuni-cazioni di cui ai commi 11, 12 e 14 dell’art. 53 del d.lgs. n. 165 del 2001, si riferi-scono agli incarichi soggetti ad autorizzazione, mentre per quelli non soggetti ad autorizzazione (lettere da a ad f-bis del comma 6 del medesimo art. 53) i soggetti pubblici e privati conferenti (al pari del lavoratore prescelto) non sono tenuti ad effettuare alcuna comunicazione.
Per concludere sugli incarichi soggetti ad autorizzazione, riteniamo che la di-screzionalità di cui gode la p.a. in sede di rilascio della stessa debba essere eserci-tata con maggior larghezza qualora, come si è già in precedenza accennato, il di-pendente si trovi in aspettativa o in congedo o in qualsiasi temporanea sospen-sione dal servizio: in tali ipotesi, difatti, una delle ragioni sottese al regime delle incompatibilità, ovvero preservare le energie lavorative del dipendente in funzione del lavoro da prestare per la p.a., si attenua e parimenti si attenua il rischio di inopportune contaminazioni gestionali tra attività d’ufficio e incarichi esterni.
Tale auspicata maggior larghezza valutativa datoriale è particolarmente sentita qualora il dipendente sia stato collocato in sospensione cautelare facoltativa o ob-bligatoria: in tali evenienze talvolta il dipendente sospeso non subisce poi in sede disciplinare una sanzione espulsiva o viene addirittura assolto (o non punito per inerzia della p.a. e sforamento dei termini perentori del procedimento disciplinare !) e acquisisce così il diritto alla c.d. restitutio in integrum retributiva (differenza tra l’assegno alimentare percepito durante la sospensione cautelare e la retribuzione piena). Orbene, se nel periodo di sospensione cautelare il dipendente avesse svol-to altra attività lavorativa, secondo univoca giurisprudenza, dalla restitutio in inte-grum predetta andrà decurtato quanto aliunde perceptum a titolo retributivo. Ecco pertanto l’opportunità che le amministrazioni autorizzino con una certa ampiezza di vedute l’espletamento di attività lavorative ai dipendenti cautelarmene sospesi: ne trarrebbero una utilità sia questi ultimi (integrando il modesto assegno ali-mentare), sia la p.a. nel malaugurato caso di successiva restitutio in integrum retribu-tiva. Tale nostro auspicio risulta essere stato rettamente recepito da talune ammi-nistrazioni (es. Agenzia delle Entrate, Guardia di Finanza ) in alcune circolari in-terne sugli incarichi autorizzabili.
È infine interessante segnalare l’autorevole indirizzo del giudice della legittimità secondo il quale la trasgressione, da parte del pubblico dipendente, del divieto di svolgere un’attività retribuita alla dipendenze dei privati può comportare sanzioni disciplinari (o decadenza, n.d.a.), ma non implica l’invalidità del contratto di lavo-ro privato stipulato in violazione del divieto e non esclude quindi che tale con-tratto produca i suoi normali effetti anche sul piano previdenziale e assistenziale (in base al suddetto principio la S.C. ha confermato la sentenza impugnata che, dopo aver affermato la natura subordinata del rapporto di lavoro intercorrente tra un insegnante elementare ed un’azienda agricola, aveva ritenuto che la coesistenza di tale rapporto di lavoro con il rapporto di pubblico impiego non escludeva l’obbligo datoriale di costituire il conseguente rapporto previdenziale) . Tuttavia, per i conferimenti da parte di enti pubblici ed espletati senza autorizzazione, tale giurisprudenza, nata per gli incarichi conferiti da privati, andrebbe rivalutata alla stregua dell’art. 53, co. 8, che sancisce la “nullità di diritto” dell’atto di conferimen-to e il versamento del compenso all’amministrazione di appartenenza del dipen-dente ad incremento del fondo di produttività o di fondi equivalenti. Inoltre, la recente novella all’art. 53, co. 6 apportata dall’articolo 2, co. 13-quinquies, lettera a), del d.l. 31 agosto 2013, n. 101, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 otto-bre 2013, n. 125, ha statuito che “Sono nulli tutti gli atti e provvedimenti comunque deno-minati, regolamentari e amministrativi, adottati dalle amministrazioni di appartenenza in con-trasto con il presente comma”, ovvero con il sopradescritto regime autorizzatorio.
Quanto sin qui detto attiene agli incarichi autorizzati dalla p.a.-datrice al lavo-ratore in quanto richiesti da soggetti (pubblici o privati). Per gli incarichi invece conferiti dalla stessa amministrazione di appartenenza, o perché da espletare per conto della stessa (es. attività formative per il personale interno, nomine in com-missioni di concorsi interni o di studio, nomine in enti partecipati etc.) o perché richiesti da terzi (pubblici o privati) impersonalmente alla amministrazione (es. un magistrato membro di una commissione di concorso per dirigenti amministrativi scelto dal suo ente di appartenenza su richiesta di altro ente) l’autorizzazione de qua appare superflua, essendo assorbita nell’atto di conferimento stesso. In tali evenienze l’unica cautela da osservare attiene al rispetto della rotazione (equa di-stribuzione) nel conferimento degli incarichi da parte dell’ente datoriale.
3.1. Incarichi (vietati) ad ex dipendenti cessati dal pubblico impiego (c.d. pantouflage).
La legge n. 190 del 2012 ha introdotto ulteriori norme in materia di incompati-bilità addirittura “postuma”: difatti l’art. 1, comma 42, lettera l), ha aggiunto il seguente comma all’art. 53: «16-ter. I dipendenti che, negli ultimi tre anni di servizio, han-no esercitato poteri autoritativi o negoziali per conto delle pubbliche amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2, non possono svolgere, nei tre anni successivi alla cessazione del rapporto di pubblico impiego, attività lavorativa o professionale presso i soggetti privati destinatari dell’attività della pubblica amministrazione svolta attraverso i medesimi poteri. I contratti con-clusi e gli incarichi conferiti in violazione di quanto previsto dal presente comma sono nulli ed è fatto divieto ai soggetti privati che li hanno conclusi o conferiti di contrattare con le pubbliche amministrazioni per i successivi tre anni con obbligo di restituzione dei compensi eventualmente percepiti e accertati ad essi riferiti» (il comma 43 dell’art. 1, l. n. 190 lascia in vita sino alla scadenza i contratti già in essere alla data di entrata in vigore della norma) .
La norma, pur ispirata da afflati di tutela di trasparenza ed imparzialità e pur mossa da esigenza di evitare conflitti potenziali di interessi, si presta a censure di incostituzionalità limitando sia i diritti fondamentali di un libero cittadino (non più dipendente pubblico), quale quello al lavoro, sia la libertà di impresa di sog-getti privati interessati a conferire incarichi a meritevoli ex dipendenti di alta pro-fessionalità. Clausole di “esclusiva” o di “non concorrenza” nel lavoro privato possono essere concordate solo tra le parti (datore e lavoratore) e vengono giu-stamente retribuite, mentre per un talentuoso ex lavoratore pubblico, che venisse richiesto dal mercato privato, si impone ex lege un non remunerato divieto, dop-piato da sanzioni civilistiche (nullità contrattuale) e interdittive-restitutorie per l’impresa conferente incarichi in contrasto con il divieto stesso.
Ad una similare ratio, unita ad esigenze di risparmio di spesa, risponde anche il più risalente art. 25 della legge 23 dicembre 1994, n. 724, ritenuto costituzional-mente legittimo , che al fine di garantire la piena e effettiva trasparenza e impar-zialità dell’azione amministrativa, vieta il conferimento di incarichi di consulenza, collaborazione, studio e ricerca al personale delle amministrazioni pubbliche che cessa volontariamente dal servizio pur non avendo il requisito previsto per il pen-sionamento di vecchiaia ma che ha tuttavia il requisito contributivo per l’ottenimento della pensione anticipata di anzianità, da parte dell’amministrazione di provenienza o di amministrazioni con le quali ha avuto rapporti di lavoro o impiego nei cinque anni precedenti a quello della cessazione dal servizio .
È poi intervenuto, poco prima della l. n. 190 del 2012, l’art. 5, co. 9 del d.l. 6 lu-glio 2012, n. 95, convertito in l. 7 agosto 2012 n. 135 (c.d. “spending review 2”), che vieta alle amministrazioni pubbliche di attribuire incarichi di studio e di consu-lenza a soggetti, già appartenenti ai ruoli delle stesse e collocati in quiescenza, che abbiano svolto, nel corso dell’ultimo anno di servizio, funzioni e attività corri-spondenti a quelle oggetto dello stesso incarico di studio e di consulenza.
La disposizione ha allargato il campo di applicazione rispetto all’art. 25 della legge n. 724/94, che si limitava ad indicare quali i destinatari solamente i dipen-denti cessati per pensionamento di anzianità (e non di vecchiaia), estendendo, in-vece, il divieto a tutti i dipendenti collocati in quiescenza dall’amministrazione di appartenenza, senza alcuna distinzione. L’art. 5, co. 9 della l. n. 135 del 2012 è stato poi modificato ad opera dell’art. 6 della legge 11 agosto 2014, n. 114: la nuova versione della norma estende il divieto di attribuire incarichi di studio e di consulenza a tutti i soggetti già lavoratori privati o pubblici collocati in quiescen-za. Il successivo periodo prevede un’unica deroga alla citata disciplina, consen-tendo incarichi e collaborazioni a titolo gratuito e per una durata non superiore a un anno, non prorogabile né rinnovabile. La Corte dei conti ha sottolineato in più di un’occasione che il divieto ex art. 5, co. 9 della l. n. 135/12 non può essere applicato oltre i casi espressamente indicati dalla norma limitatrice, vale a dire gli incarichi di studio e di consulenza. Ne consegue l’inapplicabilità del divieto a tut-te le ipotesi di incarico o collaborazione non rientranti nelle suddette fattispecie.
Tuttavia, sopravvenuta la legge n. 190 del 2012, la opportuna circolare n. 6 del 2014 della Funzione pubblica ha individuato una serie di fattispecie di incarichi non ricadenti nel divieto: a) incarichi inerenti attività legale o sanitaria, non aventi carattere di studio o consulenza; b) incarichi di ricerca, per i quali occorre ricor-dare che presuppongono la preventiva definizione del programma da parte dell’amministrazione; c) incarichi di docenza; d) incarichi nelle commissioni di concorso e di gara; e) la partecipazione a organi collegiali consultivi, a commis-sioni consultive e comitati scientifici o tecnici, ove essa non dia luogo di fatto ad incarichi di studio o consulenza.
La circolare della Funzione pubblica ha altresì precisato che devono ritenersi esclusi dall’applicazione del divieto per la loro natura eccezionale anche gli inca-richi dei commissari straordinari, nominati per l’amministrazione temporanea di enti pubblici o per lo svolgimento di compiti specifici.
La giurisprudenza contabile ha chiarito, con riferimento alla spesa illegittima sostenuta dall’Ente per incarichi conferiti in violazione dell’art. 25 legge n. 724 del 1994, che la stessa non può ritenersi compensata, neppure parzialmente, dalle in-tervenute prestazioni dell’ex dipendente per le quali, invero, è da escludersi ‘‘in ra-dice’’ la rispondenza ad un pubblico vantaggio. Ciò in quanto il ricorso alle sud-dette prestazioni confligge con la prioritaria tutela dell’interesse pubblico perse-guito dalla norma ed espressamente individuato, alla stregua della scelta operata dal legislatore, nella prevalente esigenza di garantire la piena ed effettiva traspa-renza ed imparzialità dell’azione amministrativa, con la conseguenza che ogni prestazione di consulenza effettuata in violazione del divieto posto dal citato art. 25 legge n. 724 del 1994 ‒ a protezione del preminente interesse pubblico richia-mato nell’art. 97 della Costituzione ‒ è da considerare di per se stessa non utile per l’ente (o per la collettività amministrata) e, come tale, non suscettibile di com-pensatio lucri cum damno (di cui all’art. 1, comma 1-bis, della legge 14 gennaio 1994, n. 20).
4. Gli incarichi (attività extraistituzionali) liberalizzati, ovvero sottratti ad autorizzazione.
Come si è in precedenza chiarito, il rigido regime delle incompatibilità per i pubblici dipendenti incontra dei limiti soggettivi (personale in part-time, professori, medici, v. succ. par.) ed oggettivi: dopo aver analizzato le attività vietate e quelle espletabili solo previa autorizzazione, occorre adesso vagliare le c.d. attività libe-ralizzate, sottratte a qualsiasi regime autorizzatorio e liberamente espletabili.
Si tratta o di attività “de minimis”, di evidente modesta rilevanza (occasionali, poco assorbenti fisicamente o mentalmente), ovvero quelle espressive di basilari diritti costituzionalmente rilevanti di qualsiasi soggetto (libertà di pensiero, diritto di critica, tutela delle opere di ingegno etc.), e dunque anche del pubblico dipen-dente, e, come tali, non sottoponibili a regimi autorizzatori al pari delle attività gratuite, purchè, ovviamente, non in conflitto di interesse con i compiti istituzio-nali espletati per il datore di lavoro pubblico.
Il referente normativo è dato dal pluricitato art. 53, d.lgs. n. 165 del 2001 che, al comma 6, dopo le modifiche ampliative apportate sia dall’articolo 2, comma 13-quinquies, lettera a), del d.l. 31 agosto 2013, n. 101, convertito, con modificazio-ni, dalla legge 30 ottobre 2013, n. 125, sia dall’articolo 2, comma 13-quinquies, let-tera b), del d.l. 31 agosto 2013, n. 101, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 ottobre 2013, n. 125, sancisce che sono sottratti al regime autorizzatorio so-pradescritto: “i compensi derivanti: a) dalla collaborazione a giornali, riviste, enciclopedie e simili; b) dalla utilizzazione economica da parte dell’autore o inventore di opere dell’ingegno e di invenzioni industriali; c) dalla partecipazione a convegni e seminari; d) da incarichi per i quali è corrisposto solo il rimborso delle spese documentate; e) da incarichi per lo svolgimento dei quali il dipendente è posto in posizione di aspettativa, di comando o di fuori ruolo; f) da incarichi conferiti dalle organizzazioni sindacali a dipendenti presso le stesse distaccati o in aspettativa non retribuita; f-bis) da attività di formazione diretta ai dipendenti della pubblica amministra-zione nonchè di docenza e di ricerca scientifica ”.
Orbene, in tali ipotesi, solo tendenzialmente tassative e ben suscettibili di inter-pretazione estensiva (auspicabilmente in apposito regolamento d’amministrazione) in ossequio a concorrenti principi anche costituzionali , il pubblico dipendente non è tenuto a richiedere alcuna autorizzazione né, in assen-za di previsione di legge in tal senso, è tenuto a comunicare alla p.a. datrice l’avvenuto conferimento di tali incarichi anche se alcuni enti, per mal celati retag-gi inquisitori o, più condivisibilmente, per verificare l’esatta interpretazione delle vigenti norme o per opportune esigenze di riscontro su conflitti di interesse (che ben potrebbe configurarsi anche per attività astrattamente liberalizzate: es. gratui-te o in concorrenza con il datore), sono soliti richiedere, con circolari interne, una comunicazione (destinata a mera presa d’atto) da parte del lavoratore. In ogni ca-so tale mancata comunicazione, a differenza di quanto espressamente previsto dall’art. 53 in caso di mancata “autorizzazione”, non potrà avere conseguenze sul piano disciplinare in assenza di un obbligo legislativo o contrattuale sul punto.
Unici due intrinseci limiti al libero espletamento di tali attività “liberalizzate” sono pertanto dati:
a) dalla assenza di conflitti di interesse (anche potenziali di cui parlano anche l’art. 53, co. 5, 7 e 9 e l’art. 7, d.P.R. n. 62 del 2013) con la p.a.-datrice di lavoro (rinvenibili, ad es., oltre che nelle ipotesi dell’art. 7, d.P.R. n. 62 del 2013, in caso di espletamento di attività liberalizzate con persone fisiche o con società che abbiano relazioni economiche con la p.a. di appartenenza o siano dalla stessa vigilate o finanziate o ne siano addirittura concessio-nari o fornitori, oppure che siano in concorrenza con il datore); tra l’altro tale conflitto di interessi potrebbe configurarsi anche a fronte di attività svolte gratuitamente, per le quali la Civit ha opportunamente previsto la comunicazione al datore per una previa e rapida valutazione circa l’esistenza di possibile conflitto di interesse;
b) dalla loro compatibilità con l’ordinaria prestazione lavorativa presso il dato-re-p.a.: l’espletamento di una onerosa attività gratuita, oppure un inter-vento (e, soprattutto, una serie intensa attività) seminariale o convegnisti-co, o la necessità di redigere un articolo o un impegnativo volume, an-corchè astrattamente liberalizzati, non potranno mai andare a scapito dell’ordinario svolgimento delle mansioni d’ufficio. Ne consegue che tali attività, se troppo assorbenti (soprattutto poi se svolte da dipendenti lava-tivi in sede istituzionale), potrebbero essere vietate e, comunque, andran-no svolte in orari extralavorativi, periodi feriali, o, previo assenso dei ver-tici gestionali (dirigenza), in orario d’ufficio, ma con doveroso recupero delle ore non lavorate. Se poi l’oggetto dell’incarico liberalizzato ed esple-tato possa ledere l’immagine della p.a. o urtare con i suoi fini istituzionali (es. magistrato che scriva un libro su come aggirare le leggi; finanziere o funzionario delle Entrate che scriva un articolo elogiando gli evasori fi-scali; poliziotto che in un seminario esalti lo sfruttamento della prostitu-zione…) l’amministrazione potrà esercitare i tradizionali rimedi discipli-nari.
L’elencazione predetta, contenuta nel sesto comma dell’art. 53, poneva un tem-po, nella sua originaria formulazione, dei problemi applicativi in ordine alla di-stinzione in concreto tra seminari/convegni (non soggetti ad autorizzazione) e docenze (soggette un tempo ad autorizzazione): per agevolare il superamento di tale ricorrente problema, la novella all’art. 53 co. 6 (art. 7-novies del d.l. 31 gennaio 2005, n. 7) ha ampliato le ipotesi liberalizzate, annoverando anche “f-bis) attività di formazione diretta ai dipendenti della pubblica amministrazione”, attività che ricompre seminari, convegni, corsi (anche telematici) o master, purchè diretti (anche solo prevalentemente e non esclusivamente: vedi corsi del CSM seguiti da taluni ascoltatori esterni alla magistratura) a dipendenti pubblici. Successivamente, l’articolo 2, co. 13-quinquies, lettera a), del d.l. 31 agosto 2013, n. 101 ha ulterior-mente attenuato queste problematiche, liberalizzando anche attività di “docenza e di ricerca scientifica” svolgibili a favore, in assenza di puntualizzazioni sul punto, anche a favore di soggetti privati conferenti, con partecipazione sia di soggetti pubblici che privati come discenti.
Va poi ben rimarcata la non conformità a legge, che non prevede tetti massimi orari o mensili all’attività seminariale, didattica, o convegnistica, di talune circolari di alcuni enti che fissano invece limiti di tal tipo. L’unico limite è a nostro avviso rappresentato dal prioritario rispetto dell’orario di lavoro e la produttività in uffi-cio: al di fuori di tali limiti, gli interventi seminariali o convegnistici non incon-trano altri ostacoli, se non la capacità fisica e mentale dell’interessato.
La richiamata basilare regola-guida (prevalenza del dovere di osservare l’orario d’ufficio sul diritto all’espletamento degli incarichi ex art. 53, co. 6, d.lgs. n. 165) deve a nostro avviso trovare applicazione anche per il personale, analizzato nel successivo paragrafo, che, per risalenti privilegi legislativi, può espletare attività professionale in costanza di rapporto di pubblico impiego: il riferimento, è all’art. 53, co. 1 e 6, che, in deroga al regime delle incompatibilità, lascia “ferme al-tresì le disposizioni di cui agli articoli 267, comma 1, 273, 274, 508 nonché 676 del decreto legislativo 16 aprile 1994, n. 297 , all’articolo 9, commi 1 e 2, della legge 23 dicembre 1992, n. 498 (enti lirici n.d.a.), all’articolo 4, comma 7, della legge 30 dicembre 1991, n. 412 , ed ogni altra successiva modificazione ed integrazione della relativa disciplina” (comma 1), e aggiunge che “I commi da 7 a 13 del presente articolo si applicano ai dipendenti delle am-ministrazioni pubbliche di cui all’articolo 1, comma 2, compresi quelli di cui all’articolo 3, con esclusione dei dipendenti con rapporto di lavoro a tempo parziale con prestazione lavorativa non superiore al cinquanta per cento di quella a tempo pieno, dei docenti universitari a tempo defini-to e delle altre categorie di dipendenti pubblici ai quali è consentito da disposizioni speciali lo svolgimento di attività libero-professionali” (comma 6).
Anche per tali peculiari pubblici dipendenti la necessità di espletare un incarico professionale non può mai andare a discapito dell’espletamento della prefissata prestazione lavorativa a favore della p.a. e degli utenti della stessa: in altre parole un professore universitario non potrà annullare o rinviare una lezione universita-ria perché impegnato, quale avvocato, in una discussione di una causa o di un ar-bitrato o, addirittura, in un consulto con un cliente. Qualora ciò avvenisse, sono ipotizzabili risvolti disciplinari, amministrativo-contabili (per violazione del sinal-lagma prestazione lavorativa-retribuzione) e, forse, anche penali e civili (per i danni arrecati all’utenza: es. spese di viaggio inutilmente sostenute da studenti fuori sede) per l’incauto comportamento.
5. Deroghe soggettive al regime delle incompatibilità: il personale in part-time c.d. ridotto e i professori universitari e di scuole secondarie.
Accanto a deroghe oggettive (previa autorizzazione o attività liberalizzate) al re-gime delle incompatibilità per il pubblico dipendente, l’attuale ordinamento (art. 1, co. 56-58 bis, l. 23 dicembre 1996 n. 662, richiamato dall’art. 53, d.lgs. n. 165 del 2001) prevede deroghe soggettive a favore del personale in part-time c.d. ridotto (ovvero con prestazione lavorativa non superiore al 50% di quella a tempo pieno) .
A differenza dei dipendenti con part-time con prestazione lavorativa superiore al 50% di quella a tempo pieno, ai quali, ai sensi dell’art. 6, comma 2, del d.P.C.M n. 117/1989, è consentito lo svolgimento di “prestazioni di lavoro” a favore di terzi (prestazioni con impegno ovviamente più intenso di quello autorizzabile ai di-pendenti a tempo pieno), ai dipendenti in part-time c.d. ridotto è consentito lo svolgimento di una libera professione, di altre attività di lavoro autonomo o la costituzione di un rapporto di lavoro subordinato (tranne che con una pubblica amministrazione).
L’art. 53, co. 1 del d.lgs. n. 165 prevede infatti che “Resta ferma per tutti i dipendenti pubblici la disciplina delle incompatibilità dettata dagli articoli 60 e seguenti del testo unico approvato con decreto del Presidente della Repubblica 10 gennaio 1957, n. 3, salva la deroga prevista dall’articolo 23-bis del presente decreto, nonché, per i rapporti di lavoro a tempo par-ziale, dall’articolo 6, comma 2, del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 17 marzo 1989, n. 117 e dall’articolo 1, commi 57 e seguenti della legge 23 dicembre 1996, n. 662”.
Il successivo comma 6 dell’art. 53 del d.lgs. n. 165 aggiunge che “I commi da 7 a 13 del presente articolo si applicano ai dipendenti delle amministrazioni pub-bliche di cui all’articolo 1, comma 2, compresi quelli di cui all’articolo 3, con esclu-sione dei dipendenti con rapporto di lavoro a tempo parziale con prestazione lavorativa non su-periore al cinquanta per cento di quella a tempo pieno, dei docenti universitari a tempo definito e delle altre categorie di dipendenti pubblici ai quali è consentito da di-sposizioni speciali lo svolgimento di attività libero-professionali”.
L’art. 1, co. 56 della l. n. 662 stabilisce che le disposizioni di cui all’articolo 58, comma 1, del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, e successive modificazio-ni ed integrazioni (oggi art. 53, d.lgs. n. 165), nonché le disposizioni di legge e di regolamento che vietano l’iscrizione in albi professionali non si applicano ai di-pendenti delle pubbliche amministrazioni con rapporto di lavoro a tempo parziale, con presta-zione lavorativa non superiore al 50 per cento di quella a tempo pieno. In virtù di tali nor-me, per i soli lavoratori in part-time ridotto sono state abrogate tutte le disposizioni che vietano (per il restante personale, anche in part-time non ridotto) lo svolgi-mento di altre attività di lavoro e di quelle che impediscono l’iscrizione ad albi professionali. Tale attenuazione del vincolo di esclusività della prestazione sancito dalla suprariferita normativa è stata ritenuta costituzionalmente legittima (e vin-colante per Regioni ed enti locali) dalla Corte costituzionale in generale e per l’espletamento della professione forense in particolare , anche se poi, per quest’ultima sola professione è intervenuta “ad castam” la l. 25 novembre 2003 n. 339 che ha ripristinato per i lavoratori in part-time ridotto il divieto di iscri-zione nell’albo degli avvocati (ma non agli altri albi professionali) previsto dal re-gio decreto-legge 27 novembre 1933, n. 1578 (derogato dalla l. n. 662 cit.) e la Consulta ha inopinatamente (ed incredibilmente) ritenuto legittima la previsio-ne: in sintesi il dipendente in part-time ridotto può iscriversi in qualsiasi albo pro-fessionale salvo quello degli avvocati !
I soli dipendenti pubblici che possono iscriversi nell’albo forense sono dunque, oltre ai legali di enti pubblici iscritti in albo speciale che possono difendere il solo ente di appartenenza, solo i docenti universitari e di scuole secondarie, come ri-badito dalla Consulta da ultimo citata . La Corte costituzionale è stata poi nuo-vamente, ma vanamente, adita sul punto dalle sezioni unite della Cassazione con una accurata ordinanza di rimessione, che non ha però sortito gli auspicati effetti abrogativi .
Tale “liberalizzazione soggettiva” dei dipendenti in part-time ridotto, oggetto anche di Circolare esplicativa della Funzione pubblica , incontra tuttavia dei li-miti legali volti a prevenire conflitti di interesse fra amministrazione e dipendente, ad evitare forme di accaparramento privilegiato della clientela pubblica, o ad evi-tare intralci alla funzionalità della p.a.; in particolare, in base all’art. 1, co. 56-bis, l. n. 662 del 1996, ferme restando le altre disposizioni in materia di requisiti per l’iscrizione ad albi professionali e per l’esercizio delle relative attività, ai dipen-denti pubblici iscritti ad albi professionali e che esercitino attività professionale:
a) non possono essere conferiti incarichi professionali dalle amministrazioni pubbliche (tale divieto, applicabile al personale in part-time ridotto, non ci sembra applicabile per i docenti universitari e di scuole secondarie) ;
b) non possono assumere il patrocinio in controversie nelle quali sia parte una pubblica amministrazione (anche tale divieto non ci sembra applica-bile per i docenti universitari e di scuole secondarie) .
Più in generale, per il personale in part-time, altri limiti vengono posti dal legi-slatore (art. 1, co. 58, l. n. 662 del 1996, come modificato dall’art. 73 del d.l. n. 112/2008):
c) la trasformazione del rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale (che in precedenza avveniva automaticamente, ma ora è soggetta a valuta-zione da parte dell’amministrazione) può essere concessa entro sessanta giorni dalla domanda (nella quale è indicata l’eventuale attività di lavoro subordinato o autonomo che il dipendente intende svolgere): l’amministrazione, entro il predetto termine, nega la trasformazione del rapporto nel caso in cui l’attività lavorativa di lavoro autonomo o subor-dinato comporti un conflitto di interessi con la specifica attività di servi-zio svolta dal dipendente. Sul punto la legislazione precisa (art. 1, co. 58-bis, l. n. 662) che, ferma restando la valutazione in concreto dei singoli casi di conflitto di interesse, le amministrazioni provvedono, con decreto del Ministro competente , di concerto con il Ministro per la fun-zione pubblica, ad indicare le attività che in ragione della interferenza con i compiti istituzionali, sono comunque non consentite ai dipendenti con rapporto di lavoro a tempo parziale con prestazione lavorativa non supe-riore al 50 per cento di quella a tempo pieno;
d) identico diniego di trasformazione può essere opposto nel caso in cui la trasformazione comporti, in relazione alle mansioni e alla posizione orga-nizzativa ricoperta dal dipendente, pregiudizio alla funzionalità dell’amministrazione stesso (in precedenza, prima delle modifiche operate con il d.l. n. 12/2008, il pregiudizio doveva essere “grave” e l’amministrazione aveva la possibilità solo di differire fino a sei mesi la concessione del part-time) .
Il dipendente è tenuto, inoltre, a comunicare, entro quindici giorni, all’amministrazione nella quale presta servizio, l’eventuale successivo inizio o la variazione dell’attività lavorativa.
Va da ultimo segnalato il peculiare regime che, in base alla legge Gelmini (l. 30 dicembre 2010 n. 240), connota i professori universitari, per i quali attività extrai-stituzionali sono consentite con maggior ampiezza al fine di migliorare e arric-chire la resa didattica testando sul campo le nozioni da trasmettere agli studenti, a cui va insegnato il “saper fare” oltre al mero “sapere” .
Tale deroga al più restrittivo regime generale è più marcata per i docenti che optino, rinunciando però a cariche accademiche apicali e a maggiore retribuzione, per il regime a tempo definito , che consente di svolgere attività libe-ro-professionale, pur rispettando impegni didattici e di ricerca con la Facoltà e salvi i conflitti di interesse con la propria Facoltà . Più ristretti sono i margini per i docenti a tempo pieno, a cui è consentita attività consulenziale occasionale o al-tre attività minimali previste dalla legge Gelmini .
La violazione di tale regime comporta, anche per i professori universitari, con-seguenze penali (truffa e/o falso in atto pubblico), disciplinari (sino alla destitu-zione) e amministrativo-contabili (per indebita percezione di maggiorazioni sti-pendiali e per violazione dell’art. 53, co. 7 e 7-bis, d.lgs. n. 165).
Il base all’art. 6, co. 9 della legge Gelmini “la posizione di professore e ricercatore è in-compatibile con l’esercizio del commercio e dell’industria fatta salva la possibilità di costituire società con caratteristiche di spin off o di start up universitari, ai sensi degli articoli 2 e 3 del decreto legislativo 27 luglio 1999, n. 297, anche assumendo in tale ambito responsabilità for-mali, nei limiti temporali e secondo la disciplina in materia dell’ateneo di appartenenza, nel ri-spetto dei criteri definiti con regolamento adottato con decreto del Ministro ai sensi dell’articolo 17, comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400”.
La suddetta norma chiarisce poi, come detto, che “L’esercizio di attività libe-ro-professionale è incompatibile con il regime di tempo pieno. Resta fermo quanto disposto dagli articoli 13, 14 e 15 del decreto del Presidente della Repubblica 11 luglio 1980, n. 382, fatto salvo quanto stabilito dalle convenzioni adottate ai sensi del comma 13 del presente articolo”.
Tale quadro normativo è stato di recente oggetto di recente novella ampliativa. Il d.l. n.44 del 2023, all’art. 9, co. 2-bis e 2-ter ha infatti introdotto, con effetto dal 22 giugno 2023, delle nuove largheggianti disposizioni nella legge Gelmini:
2-bis. All’articolo 6 della legge 30 dicembre 2010, n. 240, dopo il comma 10 è aggiunto il seguente:
“10-bis. I professori e i ricercatori a tempo pieno possono altresì assume-re, previa autorizzazione del rettore, incarichi senza vincolo di subordinazione presso enti pubblici o privati anche a scopo di lucro, purchè siano svolti in regime di indipendenza, non comportino l’assunzione di poteri esecuti-vi individuali, non determinino situazioni di conflitto di interesse con l’universà di appartenenza e comunque non comportino detrimento per le at-tività didattiche, scientifiche e gestionali loro affidate dall’università di apparte-nenza”.
2-ter. Il primo periodo del comma 10 dell’articolo 6 della legge 30 dicembre 2010, n. 240, con specifico riferimento alle attività di consulenza, si inter-preta nel senso che ai professori e ai ricercatori a tempo pieno è con-sentito lo svolgimento di attività extra-istituzionali realizzate in favore di priva-ti o enti pubblici ovvero per motivi di giustizia, purchè prestate senza vin-colo di subordinazione e in mancanza di un’organizzazione di mezzi e di persone preordinata al loro svolgimento, fermo restando quanto previsto dall’articolo 23-ter del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n.214”.
Sarà la giurisprudenza contabile (per i profili di violazione dell’art. 53, co.7), amministrativa (per i profili disciplinari) e penale (per i profili di reato: truffa o falso) a vagliare la portata di tale novella del 2023.
La realtà giudiziaria, soprattutto in sede giuscontabile (ma anche penale e disci-plinare), ha comunque da anni evidenziato (da qui l’intervento ampliativo del 2023), a seguito di vaste indagini della Guardia di Finanza , rilevanti inosservan-ze della normativa Gelmini e soprattutto problemi in ordine alla individuazione dei limiti alle attività consentite ai professori a tempo pieno che, talvolta, dietro l’apparente attività consulenziale o di collaborazione scientifica (testualmente consentita dall’art. 6, co. 10 della legge Gelmini, soprattutto dopo la novella del 2023) svolgono di fatto attività libero-professionale non consentita se non ai pro-fessori a tempo definito, così esponendosi a restituzioni delle maggiori retribu-zioni percepite quali formali “tempopienisti” ed al versamento all’Università degli introiti extralavorativi non espletabili o non autorizzati ai sensi dell’art. 53, co. 7, d.lgs. n. 165.
Il sottile e complesso distinguo tra attività libero-professionale (vietata) e atti-vità consulenziale (consentita) ai docenti a tempo pieno è oggetto di molte sen-tenze della Corte dei conti , fatalmente da aggiornare alla luce delal novella del 2023, occasionate da vaste indagini nazionali della GdF, che dovranno approccia-re il tema in modo pacato ed equilibrato, partendo dalla astrattamente lecita atti-vità consulenziale (come statuito dalla l. Gelmini), ma valutando sul piano quali-tativo e quantitativo (e non tanto sul piano economico dei compensi, in quanto è pur sempre occasionale una sola consulenza annua ancorchè milionaria) le singole consulenze esterne, per verificare se trasmodino in una attività libe-ro-professionale “camuffata”.
Più difficile è ritenere invece che compensi percepiti quali diritti d’autore su pareri astratti e generali (ed editi su riviste o in pubblicazioni interne) resi da pro-fessori a tempo pieno a soggetti pubblici (o privati) possano configurare attività professionale vietata: una pur intensa attività consultiva non tesa a contenziosi in atto (ma solo in potenza, o per istruttorie amministrative in atto) e tradottasi in pareri astratti e generali è difficilmente riconducibile alla nozione di attività pro-fessionale, se non in casi limite connotati da rilevante reiterazione nel tempo, produzione poderosa di pareri e utilizzo contenzioso degli stessi con frequenza. Il punto andrebbe però normato sul piano legislativo (la novella del 2023 si muove in tal senso) o di Regolamento di ateneo.
E in tale indagine sulla violazione o meno della normativa Gelmini, non assu-mono rilevanza, a nostro avviso, largheggianti (e sovente compiacenti) autorizza-zioni rettorali allo svolgimento di attività extralavorative che la legge Gelmini vieta, ovvero attività (sostanzialmente) professionali per i tempopienisti: l’autonomia universitaria non può spingersi a violare i limiti fissati dalla legge n. 240.
Cosa però sia una vera consulenza e non un incarico professionale, quale sia la soglia numerica e qualitativa che faccia trasmodare la consulenza in attività professio-nale, richiederebbe un chiarimento normativo (che la novella del 2023 ha cercato di dare, ma non in modo decisivo), ma già la più agile fonte Regolamentare po-trebbe far chiarezza in singoli atenei (magari tarandosi su scelte uniformi sul pia-no nazionale tra vari atenei sotto la guida uniformante del Ministero dell’Università), illuminando e pungolando il più pigro e riflessivo legislatore, che comunque qualcosa ha fatto con il d.l. n.44 del 2023. Nelle more di questi inter-venti normativi, la magistratura contabile ha fatto (e continuerà a fare dopo la novella del 2023) il suo lavoro di equilibrata esegesi normativa e di valutazione delle singole, concrete e assai diversificate, evenienze fattuali, primo presupposto valutativo per una corretta sentenza.
A tale limite va poi aggiunto un ulteriore limite fissato dalla stessa legge Gel-mini per ogni attività esterna di un qualsiasi docente: un conto è il profilo libera-lizzatorio (per talune attività) o autorizzatorio (per altre attività) legato al rispetto della normativa Gelmini (e dell’art. 53, co. 7, d.lgs n. 165), altro è il concorrente profilo di possibile conflitto di interesse mutuato dal d.P.R. n. 62 del 2013 (come re-cepito dal Ministero dell’Università e dalle singole Università) che potrebbe im-pedire lo svolgimento di attività consentite, liberalizzate o autorizzabili se tale at-tività si ponesse in contrasto con compiti istituzionali dell’Ateneo.
Quanto sopra detto per i professori universitari vale, con i dovuti distinguo normativi, per i docenti di istituti primari e secondari (che sottostanno all’art. 267, co. 1, 273, 274, 508 nonché 676 del d.lgs. 16 aprile 1994, n. 297) e per i medici in regime, a seconda dei casi, intramoenia o extramoenia (sottoposto all’art. 4, co. 7, della legge 30 dicembre 1991, n. 412 e succ.int.), tematica affrontata in alcune sentenze della Corte dei conti a fronte di esercizio di attività extramoenia di fatto (sovente “in nero”) da parte di medici (talvolta primari e professori universitari a tempo pieno) in regime intramoenia .