TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA

1.- Lavoro pubblico e lavoro privato: due realtà non assimilabili.
La questione della prescrizione dei crediti retributivi dei lavoratori è all’attenzione della giurisprudenza ‒ costituzionale e ordinaria ‒ da circa sessanta anni ma tuttora presenta degli aspetti critici, soprattutto per i lavoratori pubblici.
Per apprezzare meglio tali criticità può essere utile ricostruire per linee generali il quadro normativo e giurisprudenziale di riferimento, cominciando a ricordare che nel 2023 abbiamo celebrato il trentennale del d.lgs. n. 29 del 1993 che ¬ pur essendo stato nel tempo molto modificato, come sappiamo – comunque ha il merito di aver gettato le basi per una nuova pubblica amministrazione in “uno Stato diverso meno burocratizzato”.
Questo, infatti, era l’obiettivo principale della riforma non quello di “assimilare” al lavoro privato quello pubblico contrattualizzato, in quanto il lavoro pubblico e il lavoro privato “non possono essere in tutto e per tutto assimilati”, come reiteratamente affermato dalla Corte costituzionale.
Peraltro, l’obiettivo di ridurre la burocrazia in una nuova Pubblica Amministrazione era molto ambizioso e non poteva essere raggiunto in tempi brevi.
E, infatti, il processo di cambiamento si è rivelato certamente lento e difficile, sia per la difficoltà di superare strumenti e prassi di gestione fortemente radicati sia anche perché nell’ultimo trentennio a partire dalla fondamentale legge n. 241 del 1990 si sono avute ben quattro grandi riforme della Pubblica Amministrazione – tutte aventi lo stesso suindicato obiettivo e tutte di grande rilievo tecnico – che però hanno creato molti dubbi interpretativi nelle Amministrazioni e non hanno avuto il tempo di sedimentare i rispettivi risultati.
Ma si deve riconoscere che l’esperienza fin qui realizzata da molte amministrazioni dimostra che il modello organizzativo e gestionale introdotto dal d.lgs. n. 29 del 1993 e sistematizzato nel Testo Unico (d.lgs. n. 165 del 2001) appare sempre più raggiungibile, purché non si valuti l’azione delle Pubbliche Amministrazioni con la logica del profitto.
È anche bene sottolineare che, grazie a questa importante riforma, si è avuto un significativo aumento dei collegamenti tra i due comparti del lavoro pubblico e di quello privato e si è anche intensificato il dialogo tra giudici ordinari e amministrativi in materia di pubblico impiego con risultanti molto interessanti.
Comunque, è rimasta come principale differenza normativa esistente, nel nostro ordinamento, tra lavoro pubblico e privato quella relativa al reclutamento del personale delle Pubbliche Amministrazioni mediante un concorso pubblico, come stabilito dall’attuale quarto comma dell’art. 97 della Costituzione.
E la Corte costituzionale in più occasioni ha sottolineato che è questa la ragione principale per cui, anche dopo la privatizzazione della disciplina del pubblico impiego, il lavoro pubblico e il lavoro privato «non possono essere in tutto e per tutto assimilati» (Corte cost., sentenze n. 120 del 2012; n. 146 del 200; n. 367 del 2006; n. 199 e n. 82 del 2003; n. 309 del 1997, nonché n. 313 e n. 388 del 1996) sicché le differenze, pur attenuate, permangono anche in séguito all’estensione della contrattazione collettiva a una vasta area del lavoro prestato alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni (sentenze n. 159 del 2019 e n. 178 del 2015).
Dalla regola del pubblico concorso deriva la mancata possibilità di conversione del rapporto a tempo indeterminato anche in caso di abusiva utilizzazione di rapporti di lavoro flessibili da parte delle Pubbliche Amministrazioni (stante il divieto posto dal d.lgs. n. 165 del 2001, art. 36, il cui disposto non è stato modificato dal d.lgs. n. 368 del 2001) che è stata ritenuta dalla Corte costituzionale conforme agli artt. 3 e 97 Cost., dato che il principio dell’accesso mediante concorso − enunciato dall’art. 97 Cost. a presidio delle esigenze di imparzialità e buon andamento dell’amministrazione − rende non omogeneo il rapporto di impiego alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni rispetto al rapporto alle dipendenze di datori privati sicché la suddetta mancata conversione non può dare luogo ad alcuna ingiustificata discriminazione, contrastante con il principio di eguaglianza (sentenze n. 146 del 2008; n. 82 del 2003; n. 275 del 2001).
La Corte costituzionale ha altresì escluso che la previsione generale, applicabile a tutto il pubblico impiego, dell’art. 36, comma 5, del d.lgs. n. 165 del 2001 confligga con il parametro interposto, ex art. 117 Cost., primo comma, della normativa UE.
Al riguardo è stato ricordato che la Corte di giustizia (Grande Sezione, sentenza, Impact, 15 aprile 2008, C-268/06 e altre ) ha affermato che la clausola 4, punto 1, dell’accordo quadro allegato alla direttiva 1999/70/CE è incondizionata e sufficientemente precisa per poter essere invocata da un singolo dinanzi ad un giudice nazionale, mentre ciò non si verifica per la clausola 5, punto 1, del suddetto accordo quadro, onde la compatibilità UE della mancata previsione della suindicata trasformazione del rapporto purché l’ordinamento nazionale preveda un’altra misura efficace e dissuasiva, idonea al rafforzamento della tutela del lavoratore pubblico (Corte cost., sentenze 248 del 2018; n. 187 del 2016; n. 267 del 2013; CGUE sentenza 14 settembre 2016, in cause C-184/15 e C-197/15, Martínez Andrés e Castrejana López).
Si è quindi affermato che la principale misura prevista dal nostro ordinamento è quella risarcitoria di cui all’art. 36, comma 5, cit. che attribuisce al lavoratore interessato il diritto al risarcimento del danno derivante dalla prestazione di lavoro in violazione di disposizioni imperative (Corte cost., sentenze n. 146 del 2008; n. 82 del 2003; n. 275 del 2001n. 89 del 2003).
E su questa questione, dopo l’ordinanza della CGUE C-50/13 Papalia, e alcune pronunce della Sezione Lavoro della Corte di cassazione è intervenuta la nota sentenza della Corte di cassazione, Sezioni Unite civili, 15 marzo 2016, n. 5072 che ha risolto il problema con l’attribuzione del c.d. “danno comunitario” con esonero dall’onere probatorio, concessione di un’indennità di cui all’art. 32, comma 5, della legge 4 novembre 2010, n. 183, accompagnata dalla possibilità, per il lavoratore pubblico, di ottenere il risarcimento integrale del danno dimostrando, anche mediante presunzioni, la perdita di opportunità di trovare un impiego o il fatto che, qualora un concorso fosse stato organizzato in modo regolare, egli lo avrebbe superato ovvero altri pregiudizi subiti.
Quindi, con la sentenza della CGUE 7 marzo 2018, in causa C-494/16, Santoro è stata affermata la compatibilità UE delle statuizioni contenute nella citata sentenza delle Sezioni Unite n. 5072 del 2016.
2.- Il lavoro pubblico flessibile.
Ma deve essere ricordato che la Corte costituzionale ha altresì precisato che, attraverso la privatizzazione, il legislatore ha inteso garantire, senza pregiudizio della imparzialità, anche il valore dell’efficienza, grazie a “strumenti gestionali” che consentano di assicurare il contenuto della prestazione in termini di produttività ovvero una sua “più flessibile” utilizzazione (Corte cost., sentenze n. 1 del 1999; n. 309 del 1997).
Così la flessibilità del lavoro è divenuto un elemento che accomuna il lavoro privato e quello pubblico contrattualizzato e, per come si è realizzata, è stato l’elemento che maggiormente ha inciso in senso negativo sulla dignità del lavoro.
La diffusione anche nell’ambito del pubblico impiego di forme di lavoro flessibile (spesso oltre i limiti consentiti) è avvenuta sulla scia del famoso rapporto (Job Study) dell’OCSE sull’occupazione del 1994, nel quale si sosteneva che per risolvere la crisi occupazionale dell’epoca nella UE − caratterizzata da un preoccupante fenomeno di perdita occupazionale e di ridotta capacità di crescita economica, che acquisivano peculiare rilevanza al cospetto delle migliori prestazioni di economie extraeuropee come quelle di Stati Uniti e Giappone − lo strumento migliore sarebbe stato quello di rendere il lavoro “flessibile” nell’ambito di un “mercato del lavoro più libero” da pressioni sindacali e da normative a protezione dei lavoratori.
In realtà tale strategia – poco dopo modificata dalla stessa OCSE, ma non da molti degli Stati membri, come l’Italia − ha soltanto portato ad un grande aumento del lavoro flessibile e precario spesso utilizzato in modo abusivo nell’ambito sia del lavoro privato sia di quello pubblico, le cui conseguenze non sono state di tipo espansivo come si prevedeva, ma anzi hanno determinato molti guasti nella società e nell’economia, che a volte si ripropongono oggi nell’economia delle piattaforme digitali.
In pratica, per effetto di questa strategia lentamente ma progressivamente in Europa e nel nostro Paese si è affermato un modello di occupazione che ci ha portato alla prevalenza di un lavoro poco dignitoso e a lungo tempo (se non perennemente) “flessibile”, specialmente per i giovani e per i soggetti socialmente vulnerabili (come donne, minorenni, disabili, extracomunitari) .
La flessibilità in senso più lato a volte è stata applicata – soprattutto nel lavoro privato − anche ai lavoratori a tempo pieno, con contratto a tempo indeterminato, intesa in termini di orario, sede di lavoro e mansione: come disponibilità, rispetto alle esigenze e richieste del datore di lavoro, a lavorare di più dell’orario previsto, il sabato e nei giorni festivi, a cambiare mansione, a trasferte anche di lunga durata, al trasferimento della sede di lavoro, pur avendo casa e una vita relazionale affermata in un altro luogo da diversi anni.
Mentre l’uso eccessivo da parte delle Pubbliche Amministrazioni delle forme contrattuali temporanee e flessibili ‒ di vario tipo ‒ ha determinato molteplici effetti negativi non solo per i diretti interessati, ma anche per l’efficienza e l’immagine delle Pubbliche Amministrazioni, non riuscendo a cambiare significativamente il funzionamento della P.A. nel senso di orientarlo al servizio e alla ricerca del bene comune.
Sicché, nel complesso, i contratti flessibili e la flessibilità in genere sono stati e tuttora vengono usati – sia nel lavoro privato sia in quello pubblico − soltanto come strumenti di risparmio da parte sia delle P.A, sia delle aziende e causano una crescita del precariato, in contrasto con i diritti fondamentali dei lavoratori.
Va anche sottolineato che la flessibilizzazione abusiva del lavoro nell’ambito del pubblico impiego assume contorni particolarmente “dolorosi” sia perché spesso si prolunga per molti anni sia perché viene utilizzata prevalentemente in settori-chiave della Pubblica Amministrazione come la Scuola e la Sanità sia pure perché l’accertamento dell’abuso in sede giudiziaria, come si è detto, non può comportare la c.d. “conversione del rapporto in rapporto a tempo indeterminato”, come avviene nel lavoro privato, in considerazione della regola del pubblico concorso per l’assunzione.
In questo quadro, con riferimento ai rapporti di lavoro flessibili (pubblici e privati) per effetto della direttiva 1999/70/CE e dell’accordo quadro sui contratti a tempo determinato ad essa allegato ¬ secondo cui a tutti i lavoratori precari vanno riconosciuti gli stessi diritti fondamentali riconosciuti ai lavoratori a tempo indeterminato ¬ la giurisprudenza della Corte di cassazione si è uniformata ai principi affermati nelle decisioni della CGUE in materia e, su questa base ha emesso alcune pronunce volte ad escludere qualunque tipo di discriminazione tra lavoratori pubblici precari (prevalentemente con contratto a termine, ma anche con diverse tipologie di contratti non standard come la somministrazione a termine) e a tempo indeterminato (come richiesto dalla disciplina UE), considerando, come sfondo, anche il trattamento del precariato nel lavoro privato.
Così è stato riconosciuto ai lavoratori pubblici precari immessi in ruolo (con concorso o con procedure di stabilizzazione) il diritto alla ricostruzione della carriera e al riconoscimento dell’anzianità di servizio (orientamento consolidato: tra le prime: Cass. 6 febbraio 2019, n. 3473 e di recente: Cass. 8 marzo 2022, n. 7584) nonché il diritto alle ferie retribuite al pari dei lavoratori privati (tra le tante: Cass. 8 luglio 2022, n. 21780).
3.- Prescrizione dei crediti retributivi: Corte costituzionale.
In questo percorso è rimasta una importante differenza di trattamento – tra lavoro pubblico e privato – riguardante il criterio di computo del decorso della prescrizione dei crediti retributivi.
Per entrambi i comparti alla base della disciplina della prescrizione dei crediti retributivi vi è principalmente l’art. 2948, n. 4, cod. civ. (nel testo risultante dalle sentenze della Corte costituzionale), secondo cui si prescrive in cinque anni, in generale, “tutto ciò che deve pagarsi periodicamente ad anno o in termini più brevi”, aggiungendosi, da parte della giurisprudenza, che la prescrizione quinquennale resta sospesa durante l’esecuzione del rapporto di lavoro non assistito da garanzia di stabilità.
Quest’ultimo principio è stato affermato dalla Corte costituzionale originariamente nella sentenza n. 63 del 1966 con la quale è stata dichiarata, in relazione agli artt. 36 Cost. e 2113 cod. civ., “l’illegittimità costituzionale degli artt. 2948, n. 4, 2955, n. 2, 2956, n. 1, del codice civile limitatamente alla parte in cui consentono che la prescrizione del diritto alla retribuzione decorra durante il rapporto di lavoro”.
Nella pronuncia veniva valorizzata la situazione psicologica del dipendente, da tutelare perché “contraente più debole contro la sua propria debolezza di soggetto interessato alla conservazione del rapporto”. E si precisava che i due profili, la situazione di debolezza e il timore del licenziamento, devono portare a qualificare l’inerzia del lavoratore nel corso del rapporto come una temporanea incapacità a disporre, cui consegue una imprescrittibilità temporanea del diritto alla retribuzione, da ricondurre al principio della irrinunciabilità di tale diritto ed alla funzione di sostentamento della retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro svolto e in ogni caso sufficiente ad assicurare al lavoratore e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa, come disposto dall’art. 36 Cost..
Ma si era anche sottolineato che la suindicata situazione poteva riguardare “un rapporto non dotato di quella resistenza, che caratterizza invece il rapporto d’impiego pubblico” e, nella successiva sentenza n. 143 del 1969 la Corte costituzionale ribadiva tale concetto, richiamando la precedente sentenza e sottolineando che la particolare forza di resistenza che caratterizza il rapporto di pubblico impiego “è data da una disciplina che normalmente assicura la stabilità del rapporto, o dalle garanzie di rimedi giurisdizionali contro l’illegittima risoluzione di esso, le quali escludono che il timore del licenziamento possa indurre l’impiegato a rinunziare ai propri diritti”.
Si aggiungeva che la suddetta situazione è comune ai rapporti di pubblico impiego intercorrenti con lo Stato o con gli altri enti pubblici (anche economici) e, pertanto, si considerava non contrastante con l’art. 36 della Costituzione che le relative prescrizioni dei crediti derivanti dai relativi rapporti di lavoro potessero decorrere anche in pendenza di rapporto, a differenza di quanto stabilito per i soli rapporti di lavoro regolati dal diritto privato dalla citata sentenza n. 69 del 1966.
Nella sentenza n. 143 del 1969 la Corte precisava inoltre che non si poteva giungere a diversa conclusione per i rapporti di pubblico impiego di carattere temporaneo, in quanto anche in essi l’impiegato è assistito dalle garanzie dei rimedi giurisdizionali contro l’arbitraria risoluzione anticipata del rapporto: rimedi che si estendono al sindacato sull’eccesso di potere, come è confermato dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato.
Ma, sul punto, si osservava che, secondo l’ordinamento del pubblico impiego dell’epoca, le assunzioni. Comunque, , era da escludere che la mancata rinnovazione, costituendo un evento inerente alla natura del rapporto stesso, potesse porre il lavoratore pubblico in una situazione di timore di un evento incerto, al quale egli fosse stato esposto durante il rapporto, qual è il licenziamento nel rapporto di lavoro di diritto privato quali indicate nella sentenza n. 69 del 1966.
Tuttavia, nella parte finale della sentenza, la Corte costituzionale affermava quanto segue: “spetta al giudice di merito stabilire, nei singoli casi, se è stato posto in essere un rapporto di pubblico impiego, o se lo Stato o l’ente pubblico si è assoggettato alla disciplina di diritto comune del rapporto di lavoro”.
Con la sentenza n. 174 del 1972 la Corte costituzionale è tornata ad esaminare la problematica e lo ha fatto sulla base di due leggi sopravvenute rispetto alla sentenza n. 63 del 1966, cioè:
- la legge 15 luglio 1966, n. 604, il cui art. 1 stabilisce che, nei rapporti di lavoro a tempo indeterminato per i quali la stabilità non risulti assicurata da norme di legge o di contratto, il licenziamento non possa avvenire se non per giusta causa, o per giustificato motivo, ponendo a carico del datore di lavoro l’onere di fornirne la prova;
- la successiva legge 20 maggio 1970, n. 300, che innovando con l’art. 18 alle precedenti disposizioni, aveva stabilito che, ferma restando l’esperibilità delle procedure di cui all’art. 7 di queste ultime, l’annullamento del licenziamento disposto senza giusta causa debba essere accompagnato dall’ordine al datore di reintegrare il licenziato nel rapporto di lavoro; con l’obbligo per lui, oltre che di risarcire il danno da questi subito a causa del licenziamento, di corrispondergli le retribuzioni dalla data della sentenza fino a quella dell’avvenuta reintegrazione.
La Corte ha sottolineato che in caso di applicabilità delle due serie di disposizioni menzionate, di cui la seconda deve considerarsi necessaria integrazione della prima, si verificava per il computo della prescrizione una situazione analoga a quella, configurata dalla sentenza n. 143 del 1969 per i rapporti di pubblico impiego statali, anche se di carattere temporaneo, in cui il rapporto di lavoro subordinato è caratterizzato da una particolare forza di resistenza (quale deriva da una disciplina che assicuri normalmente la stabilità del rapporto e fornisca le garanzie di appositi rimedi giurisdizionali contro ogni illegittima risoluzione) dato che una vera stabilità non si assicura se all’annullamento dell’avvenuto licenziamento non si faccia seguire la completa reintegrazione nella posizione giuridica preesistente fatta illegittimamente cessare.
Peraltro, la Corte precisava altresì che alla conclusione ora enunciata non poteva pervenirsi in tutti quei casi (come per esempio quelli risultanti dall’art. 11 della legge n. 604 del 1966) per i quali le disposizioni sulla giusta causa non trovano applicazione; sicché per essi deve rimanere fermo il principio che vieta di far decorrere il termine di decadenza per le impugnative in materia di crediti da lavoro dipendente nel periodo di durata del rapporto, dovendosi il medesimo spostare alla fine di questo.
Nella sentenza n. 115 del 1975 la Corte ha ribadito il proprio orientamento sottolineando che la dichiarazione di parziale illegittimità costituzionale degli artt. 2948, n. 4, 2955, n. 2, e 2956, n. 1, cod. civ. (pronunciata con la sentenza n. 63 del 1966) riguarda i soli rapporti di lavoro privati e non si estende ai rapporti d’impiego sia dei dipendenti dello Stato, sia dei dipendenti di altri enti pubblici, anche di carattere economico. Infatti, l’assimilazione del rapporto di lavoro con gli enti pubblici economici a quello di diritto privato è possibile solo al fine di identificare il giudice munito di potere giurisdizionale per dirimere le relative controversie, ma non vale a mutare il carattere pubblicistico di tale rapporto e le connesse garanzie di stabilità assicurate, nella regolamentazione organica o nella disciplina collettiva, dalla cessazione del rapporto soltanto per cause precise e determinate. Pertanto, è stata dichiarata inammissibile, per difetto di rilevanza, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2946 cod. civ., in relazione all’art. 2103 ed all’art. 13 legge n. 300 del 1970, nella parte in cui prevede che il termine di prescrizione decorra in pendenza del rapporto di lavoro. Questione sollevata in riferimento agli artt. 3, 24 e 36 Cost. con riguardo all’applicabilità di tale norma al diritto del lavoratore dipendente da ente pubblico economico, ad una qualifica superiore e alla retribuzione relativamente alle mansioni effettivamente svolte – poiché l’eventuale dichiarazione di illegittimità della norma impugnata non potrebbe riferirsi al rapporto di pubblico impiego, riguardando solo il lavoro privato.
In seguito, con cinque sentenze del 1979 (dalla n. 40 alla n. 44), la Corte costituzionale è stata chiamata a pronunciarsi sulla compatibilità del dispositivo della sentenza n. 63 del 1966 – ove era stata dichiarata l’illegittimità costituzionale degli artt. 2948 n. 4, 2955, n. 2, e 2956, n. 1, del codice civile “limitatamente alla parte in cui consentono che la prescrizione del diritto alla retribuzione decorra durante il rapporto di lavoro”, senza distinzione tra rapporti dotati di stabilità o meno (come invece indicato in motivazione) ¬ con:
- la sentenza della Corte n. 86 del 1971, ove è stato sottolineato che la sospensione del corso della prescrizione, durante il rapporto di lavoro, può riguardare solo i crediti retributivi che godono della speciale garanzia derivante dall’art. 36 della Costituzione, per il quale l’esercizio del diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità o qualità del lavoro non può tollerare alcuna rinunzia, sia pure implicita. Il che significa che il principio enunciato nella sentenza n. 63 del 1966 vale solo per la prescrizione prevista per crediti retributivi e non è principio di carattere generale che può trovare applicazione anche per la prescrizione ordinaria. Con la precisazione che la sentenza n. 63 del 1966 e poi la sentenza n. 143 del 1969 hanno posto una netta differenza fra lavoratori dell’impiego privato e lavoratori dipendenti da enti pubblici, sottolineando che i primi soltanto sussiste quel timore del licenziamento che possa indurre il lavoratore alla rinunzia ai propri diritti, mentre per i secondi, che sono garantiti dalla stabilità dell’impiego e dai rimedi giurisdizionali contro l’illegittimità di una risoluzione del relativo rapporto, non sussiste alcun motivo che possa indurre a derogare alle normali disposizioni in materia di prescrizione);
- la sentenza n. 174 del 1972 ove è stato affermato che per effetto della applicazione delle leggi n. 604 del 1966 e n. 300 del 1970, il cui art. 18 nel testo originario aveva previsto la reintegra come sanzione in caso di licenziamento illegittimo, si era venuta a creare per il computo della prescrizione nel lavoro privato una situazione analoga a quella, configurata dalla sentenza n. 143 del 1969 per i rapporti di pubblico impiego statali, anche se di carattere temporaneo, in cui il rapporto di lavoro subordinato è caratterizzato da una particolare forza di resistenza.
In tutti questi giudizi del 1979 la Corte ha dichiarato inammissibili le questioni proposte ¬ in alcuni casi anche con riguardo alla diversità di trattamento tra lavoro pubblico e lavoro privato ¬ affermando quanto segue:
a) tra i provvedimenti, necessariamente tipici, della Corte costituzionale, non si annovera, né può annoverarsi l’accertamento del contenuto di precedenti sue sentenze, costituente, cioè, una sorta, di provvedimento di secondo grado, nel quale oggetto immediato non sarebbe la disposizione o il gruppo di norme impugnati, ma altra propria sentenza;
b) ne deriva l’inammissibilità di questioni di legittimità costituzionale la questione, sollevate in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost. dell’art. 2948, n. 4, c.c., nella parte in cui consente la decorrenza, in costanza di rapporto di lavoro, della prescrizione dei crediti derivanti dal rapporto stesso, perché esse sollecitano l’interpretazione, da parte della Corte costituzionale di proprie precedenti pronunce con autorità vincolante per altri giudici;
c) pur dovendosi ribadire - come già fatto nella sentenza n. 174 del 1972 - che una vera stabilità del rapporto di lavoro non si assicura se all’annullamento dell’avvenuto licenziamento non si faccia seguire la completa reintegrazione nella posizione giuridica precedente fatta illegittimamente cessare, non compete alla Corte costituzionale verificare se i giudici delle controversie di lavoro intendano in senso conforme alla legge la duplice condizione indicata, ai fini dell’individuazione dei requisiti della stabilità dei rapporti di lavoro, dalle leggi n. 604 del 1966 e n. 300 del 1970 e, più specificamente, se sia da stimare “vera” la reintegrazione nel posto di lavoro ove si neghi la esecutorietà forzata della sentenza che tale reintegrazione ordini. (Inammissibilità, in riferimento all’art. 36 Cost., della questione di legittimità costituzionale dell’art. 2948, n. 4, cod. civ.);
d) la sospensione o meno del corso delle prescrizioni durante il rapporto di lavoro subordinato dipende dalla stabilità del rapporto medesimo, e d’altra parte l’accertamento delle condizioni di detta stabilità nel lavoro privato (annullamento dell’avvenuto licenziamento e completa reintegrazione nella posizione giuridica preesistente fatta illegittimamente cessare) è riservato al giudice della controversia di lavoro, deve pertanto ritenersi inammissibile la questione di legittimità costituzionale, sollevata in riferimento agli artt. 3, secondo comma, 36 e 38, secondo comma, Cost., degli artt. 2948, n. 4, 2955, n. 2, e 2956, n. 1, c.c., già dichiarati parzialmente illegittimi dalla Corte cost. con sentenza n. 63 del 1966 (cui si sono uniformate le sentenze n.143/del 1969, n. 174 del 1972, n. 115/ del 1975, n. 40 del 1979);
e) inammissibilità anche della questione di legittimità costituzionale, in riferimento all’art. 3 Cost., dell’art. 2948, n. 4, c.c., nella parte in cui consente il decorso della prescrizione dei crediti di lavoro in pendenza del rapporto di pubblico impiego, perché non spetta alla Corte costituzionale l’accertamento della garanzia della stabilità del posto di lavoro e del conseguente diverso regime giuridico che regola il rapporto (sentenza n. 44 del 1979);
f) peraltro, veniva ricordato che nella sentenza. n. 143 del 1969 ¬ che ebbe a dichiarare non fondata la questione di costituzionalità dell’art. 2, comma primo, d.l. 295 del 1939 sulla prescrizione decennale di stipendi, pensioni ed emolumenti dovuti dallo Stato, in riferimento agli artt. 3 e 36 Cost. ¬ venne affermato il principio, cui questa Corte intende mantenersi fedele, che “spetta al giudice di merito stabilire, nei singoli casi, se è stato posto in essere un rapporto di pubblico impiego, o se lo Stato o l’Ente pubblico si è assoggettato alla disciplina di diritto comune del rapporto di lavoro” (sentenza n. 41 del 1979);
g) in sintesi, non spetta a questa Corte, che ha avuto occasione di riaffermare l’orientamento di cui alla sentenza n. 63 del 1966 anche nella sentenza n. 11 del /1975, il compito di verificare se i giudici delle controversie intendano nel senso conforme alla legge ¬ alla quale soltanto sono, ai sensi dell’art. 101 Cost., soggetti ¬la duplice condizione, chiaramente puntualizzata nella sentenza n. 174 del 1972 (possibilità di annullamento dell’atto di licenziamento; completa reintegrazione della posizione giuridica preesistente fatta illegittimamente cessare), così come ben potrà il Parlamento approvare leggi, che pongano punti fermi nel tutt’altro che univoco contesto normativo in atto e in irrefrenabile divenire; contesto di cui fan parte - è appena il caso di rilevarlo - anche i dispositivi di pronunce di fondatezza di questioni di legittimità costituzionale rese dalla Corte e pubblicati nei modi di legge, nel senso fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse e dalla intenzione espressa da questa Corte nelle motivazioni delle pronunce medesime.
Nella stessa ottica, con la sentenza n. 13 del 1981 la Corte costituzionale ha dichiarato non fondata la questione di legittimità dell’art. 2948, n. 4, cod. civ., in riferimento agli artt. 136, comma primo e 36 Cost., sollevata sulla premessa secondo cui, successivamente alla pubblicazione della sentenza 10 giugno 1966, n. 63, fosse consentita la decorrenza della prescrizione quinquennale del diritto alla retribuzione durante lo svolgimento di rapporti di lavoro privati soggetti all’applicazione delle leggi 15 luglio 1966, n. 604 e 20 maggio 1970, n. 300, malgrado il generale “stato di soggezione” del lavoratore. La Corte ha ricordato di avere già precisato nella sentenza n. 40 del 1979, che il rapporto tra la disciplina normativa, modificata da sentenza di accoglimento della Corte, e la disciplina successivamente adottata con legge o atto avente forza di legge dà vita a vicende di parziale o totale abrogazione tacita, competente a conoscere delle quali è il giudice ordinario, non la Corte costituzionale.
Infine, con l’ordinanza n. 332 del 2005 (che è l’unica pronuncia in materia successiva alla riforma del pubblico impiego) la Corte costituzionale ha dichiarato manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2948, numero 4, del codice civile, sollevata in riferimento all’art. 36 della Costituzione, «nella parte in cui consente che durante il rapporto di lavoro non assistito dalla garanzia di stabilità decorra la prescrizione del diritto alla retribuzione sorto in forza di precedente rapporto di lavoro subordinato intercorso fra le medesime parti», sulla base della premessa per cui fosse da qualificare principio di “diritto vivente” l’assunto secondo il quale il successivo rapporto di lavoro subordinato non ha alcun effetto sospensivo del decorso della prescrizione dei crediti sorti in virtù di un precedente rapporto di lavoro subordinato fra le stesse parti come affermato dalla sentenza n. 575 del 16 gennaio 2003 delle Sezioni Unite della Corte di cassazione in cui è stata esclusa ogni efficacia sospensiva degli intervalli temporali intercorrenti tra diversi rapporti di lavoro a termine legittimi ed efficaci che si succedano nel tempo, con la conseguenza che il termine prescrizionale dei crediti retributivi inizia a decorrere per i crediti che sorgono nel corso del rapporto lavorativo dal giorno della loro insorgenza e per quelli che vengono a maturazione alla cessazione del rapporto a partire da tale momento.
La Corte costituzionale ha rilevato che:
a) nel giudizio a quo si discuteva, fra l’altro, della pretesa di un soggetto a crediti retributivi insorti in un rapporto a tempo indeterminato intrattenuto nei confronti dello stesso datore di lavoro con il quale aveva successivamente instaurato altro rapporto sempre a tempo indeterminato, in tale vicenda la prescrizione avrebbe dovuto considerarsi compiuta qualora si fosse ammesso il suo decorso durante lo svolgimento del secondo rapporto di lavoro;
b) per sostenere la fondatezza della questione, il giudice remittente aveva fatto riferimento all’esistenza di un orientamento giurisprudenziale consolidato, da considerare quindi “diritto vivente”, secondo il quale la norma della non decorrenza della prescrizione relativa a crediti retributivi nati in un rapporto di lavoro a tempo indeterminato privo della garanzia della stabilità (cfr. sentenza n. 63 del 1966), nel perdurare dello stesso rapporto, non si applica alla diversa ipotesi di fatto della possibile decorrenza del tempo di prescrizione dei crediti retributivi concernenti un rapporto di lavoro non stabile e a tempo indeterminato durante lo svolgimento di altro rapporto tra le stesse parti avente le medesime caratteristiche del primo;
c) in particolare, il remittente aveva considerato “diritto vivente” il principio affermato dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione con la sentenza n. 575 del 2003 e dalla successiva giurisprudenza formatasi in aderenza ad essa;
d) ma, contrariamente a quanto sostenuto nell’ordinanza di rimessione, il principio enunciato delle Sezioni Unite cui essa si riferisce è stato affermato a composizione di un contrasto che si era verificato in giurisprudenza nella ipotesi di successione di contratti stagionali e quindi non a tempo indeterminato;
e) il suddetto principio si fondava proprio sulle peculiarità della situazione in cui erano nate le controversie e con specifico riferimento ad esse;
f) del tutto irrilevante doveva considerarsi il fatto che nell’esposizione storica dei precedenti le Sezioni Unite avessero incluso anche casi di pluralità di rapporti a tempo indeterminato, perché l’effettivo contenuto di un orientamento giurisprudenziale non va individuato dando rilievo ad ininfluenti circostanze marginali, bensì all’effettiva ragione del decidere identificata alla stregua degli specifici termini della controversia;
g) nella giurisprudenza successiva alla pronuncia citata delle Sezioni Unite si potevano rinvenire anche sentenze le quali, in ipotesi di successione di rapporti a tempo indeterminato tra le stesse parti, avevano fatto applicazione del diverso principio, la cui affermazione era auspicata dal giudice a quo.
Di qui la conclusione che la tesi del remittente doveva considerarsi viziata da errore nella ricognizione del “diritto vivente” e quindi sul presupposto interpretativo della questione.
Per concludere sul punto, dalle numerose pronunce della Corte costituzionale, sinteticamente ricordate, si desume che:
1) è la stabilità del rapporto di lavoro l’elemento che rende tale rapporto “resistente” e consente che la prescrizione del diritto alle retribuzioni decorra anche nel corso del rapporto stesso;
2) dopo l’entrata in vigore dell’art. 18 St.lav. (nel testo originario) la situazione di stabilità per il lavoro privato si realizza solo se ricorre la duplice condizione della possibilità di annullamento dell’atto di licenziamento e della completa reintegrazione della posizione giuridica preesistente fatta illegittimamente cessare;
3) la stabilità del rapporto di lavoro viene rinvenuta “per definizione” nei rapporti di pubblico impiego ¬ peraltro, considerati nella loro configurazione antecedente al d.lgs. n. 29 del 1993 ¬ dotati, anche se temporanei, di una peculiare forza di resistenza che “è data da una disciplina che normalmente assicura la stabilità del rapporto, o dalle garanzie di rimedi giurisdizionali contro l’illegittima risoluzione di esso, le quali escludono che il timore del licenziamento possa indurre l’impiegato a rinunziare ai propri diritti”;
4) comunque, in più occasioni si è sottolineato che “spetta al giudice di merito stabilire, nei singoli casi, se è stato posto in essere un rapporto di pubblico impiego, o se lo Stato o l’Ente pubblico si è assoggettato alla disciplina di diritto comune del rapporto di lavoro” (sentenze 143 del 1969 e n. 41 del 1979);
5) del resto, anche nel lavoro privato, compete al giudice della controversia di lavoro l’accertamento delle condizioni della stabilità del rapporto (annullamento dell’avvenuto licenziamento e completa reintegrazione nella posizione giuridica preesistente fatta illegittimamente cessare);
6) nell’ordinanza n. 332 del 2005 (che, come si è detto, è l’unica pronuncia successiva alla contrattualizzazione del pubblico impiego) la Corte non si è occupata di pubblico impiego ma ha sottolineato che non poteva attribuirsi il rango di “diritto vivente” al principio affermato dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione con la sentenza n. 575 del 2003 e dalla successiva giurisprudenza formatasi in aderenza ad essa perché tale principio era stato enunciato a composizione di un contrasto che si era verificato in giurisprudenza nella ipotesi di successione di contratti stagionali e quindi non a tempo indeterminato;
7) quindi si trattava di un principio che si fondava proprio sulle peculiarità della situazione in cui erano nate le controversie e con specifico riferimento ad esse, pertanto, esso andava letto sulla base dell’effettiva ragione del decidere identificata alla stregua degli specifici termini della controversia, essendo da considerare irrilevante la ricomprensione nella relativa esposizione storica dei precedenti anche di casi di pluralità di rapporti a tempo indeterminato.
4.- La giurisprudenza della Corte di cassazione.
La Corte di cassazione ha in larga parte seguito la strada tracciata dalla Corte costituzionale, pur discostandosene con riguardo al valore attribuito alla sentenza delle Sezioni Unite n. 575 del 2003 che è stata considerata – anche in recenti pronunce /vedi, per tutte: Cass., 28 maggio 2020, n. 10219 e Cass.19 novembre 2021, n. 35676 – come un “leading case”, cioè un precedente di particolare importanza, per l’inapplicabilità del regime di sospensione della prescrizione (risultante della sentenza della Corte Costituzionale nr. 63 del 1966 e seguenti) ai rapporti subordinati di lavoro pubblico privatizzato nell’ipotesi di contratti di lavoro a termine (o flessibili, in genere) affetti da nullità.
In effetti, come affermato dalla Corte costituzionale nell’ordinanza n.332 del 2005, con la suindicata sentenza n. 575 del 2003 le Sezioni Unite hanno risolto un contrasto di giurisprudenza verificatosi in ordine alla individuazione del dies a quo per la decorrenza della prescrizione dei crediti del lavoratore nelle ipotesi di validi ed efficaci rapporti di lavoro a termine che, pur succedutisi nel tempo tra le stesse parti, non sono suscettibili di convertirsi − proprio per la loro legittimità − in un unitario rapporto lavorativo a tempo indeterminato.
Le Sezioni Unite hanno precisato che la suddetta ipotesi andava distinta da quella di una pluralità di contratti a tempo determinato, che siano illegittimi in sé e per sé perché violino (non ricorrendo alcune delle eccezionali situazioni di fatto che consentono l’apposizione del termine al contratto di lavoro) il disposto dell’art. 1 della legge n. 230 del 1962 e successive modifiche (ed ora dell’art. 1 del d.lgs. 6 settembre 2001 n. 368) o che siano stati posti in essere per finalità fraudolente.
In ordine a tale ultima ipotesi in alcune pronunce era stata affermata la non decorrenza del termine prescrizionale durante il rapporto di lavoro poi convertito a tempo indeterminato (ex plurimis da: Cass. 13 agosto 1997 n. 7565; Cass. 19 aprile 1991 n. 4220; Cass. 16 giugno 1987 n. 5303; Cass. 11 novembre 1983 n. 6696), mentre in altre pronunce era stato ritenuto che l’inizio della decorrenza del termine prescrizionale dalla cessazione dall’unitario rapporto, era possibile solo in assenza della garanzia della stabilità reale (Cass. 14 maggio 1991 n. 5344, cui adde Cass. 16 giugno 1987 n. 5303).
Per risolvere il contrasto le Sezioni Unite hanno, in primo luogo, ricordato la sentenza della Corte costituzionale n. 63 del 1966 aggiungendo che, nelle successive sentenze in materia, il Giudice delle leggi ha precisato che il principio fissato con sentenza n. 63 del 1966 non debba trovare applicazione in relazione ai rapporti di pubblico impiego – anche temporanei − in ragione della sussistenza di garanzie di efficaci rimedi giurisdizionali contro ogni illegittima risoluzione (vedi: Corte Cost. n. 143 del 1969) ed ancora che non si assicura una vera stabilità del rapporto lavorativo − capace di fare regolarmente decorrere la prescrizione in costanza di detto rapporto − se “all’annullamento dell’avvenuto licenziamento non si faccia seguire la completa reintegrazione nella posizione giuridica preesistente fatta illegittimamente cessare” (così Corte Cost. n. 174 del 1972).
Le SU hanno quindi sottolineato che l’elemento decisivo per addivenire alla suindicata dichiarazione di illegittimità costituzionale, è stato individuato nel metus del lavoratore in ordine alla mancata continuazione del rapporto che presuppone l’esistenza di un rapporto a tempo indeterminato nel quale non sia prevista alcuna garanzia di continuità.
Invece, nel contratto a termine legittimo, posto che il lavoratore ha solo diritto a che il rapporto venga mantenuto in vita sino alla scadenza concordata e che l’eventuale risoluzione ante tempus non faccia venir meno alcuno dei diritti derivanti dal contratto, non è nemmeno configurabile quel metus costituente ragione giustificatrice della regolamentazione della prescrizione nel rapporto a tempo indeterminato non assistito dal regime di stabilità reale.
In conclusione nella sentenza n. 575 del 2003 è stato affermato il principio secondo cui “nel caso che tra le stesse parti si succedano due o più contratti di lavoro a termine, ciascuno dei quali legittimo ed efficace, il termine prescrizionale dei crediti retributivi, di cui agli artt. 2948, numero 4, 2955, numero 2, e 2956, numero 1, cod. civ., inizia a decorrere, per i crediti che sorgono nel corso del rapporto lavorativo dal giorno della loro insorgenza e, per quelli che si maturano alla cessazione del rapporto, a partire da tale momento, dovendo − ai fini della decorrenza della prescrizione − i crediti scaturenti da ciascun contratto considerarsi autonomamente e distintamente da quelli derivanti dagli altri e non potendo assumere alcuna efficacia sospensiva della prescrizione gli intervalli di tempo correnti tra un rapporto lavorativo e quello successivo, stante la tassatività della elencazione delle cause sospensive previste dagli artt. 2941 e 2942 cod. civ., e la conseguente impossibilità di estendere tali cause al di là delle fattispecie da quest’ultime norme espressamente previste”.
La successiva giurisprudenza della Corte di cassazione sia in materia di lavoro pubblico sia in materia di lavoro privato, si è uniformata a questo principio e anche alle statuizioni contenute nella sentenza a proposito dei rapporti di pubblico impiego, ancorché non comprese nella effettiva ragione del decidere identificata alla stregua degli specifici termini della controversia (come affermato dalla Corte costituzionale nella citata ordinanza n. 332 del 2005).
Ciò ha profondamente influito sulle modalità di affrontare la questione della prescrizione dei crediti retributivi dei lavoratori, privati e pubblici, tanto più che, come si è detto, la Corte costituzionale in molteplici occasioni ha affermato che il principio enunciato dalla sentenza n. 63 del 1966 e dalle altre ad essa conformi – sulla diversità di decorrenza della prescrizione, nel corso oppure alla cessazione del rapporto di lavorio – è collegato alla stabilità o meno di tale rapporto e l’accertamento delle condizioni della stabilità del rapporto compete al giudice della controversia di lavoro, sicché eventuali problemi applicativi e l’individuazione del regime giuridico che regola il singolo rapporto non sono di spettanza della Corte costituzionale ma del giudice della controversia.
Sicché, in questo ambito, alle pronunce dei giudici e, in particolare, a quelle della Corte di cassazione, è stato attribuito dalla Corte costituzionale un ruolo di particolare rilevanza, ma sempre nell’idea ‒ manifestata molto prima della privatizzazione del pubblico impiego ‒ che il giudice ordinario potesse stabilire, nei singoli casi, se era stato posto in essere un rapporto di pubblico impiego, o se lo Stato o l’Ente pubblico si fosse assoggettato alla disciplina di diritto comune del rapporto di lavoro, con statuizione più volte ribadita, come abbiamo ricordato (Corte cost., sentenza n. 143 del 1969 e poi sentenza n. 41 del 1979), ma della quale non si è tenuto conto nell’evoluzione della giurisprudenza.
Le conseguenze della suddetta scelta ermeneutica basata sulla conformità alla sentenza delle Sezioni Unite n. 575 del 2003 sono state differenti, rispettivamente per il lavoro privato e per quello pubblico.
Nel senso che, per il lavoro privato, si è affermato quanto segue:
a) la non decorrenza della prescrizione dei crediti di lavoro durante il rapporto di lavoro solo per quei rapporti non assistiti dalla garanzia della stabilità, quali i rapporti a tempo indeterminato non assistiti dalla tutela della reintegra;
b) analogamente, nel caso di una serie di contratti di lavoro a tempo determinato, poi convertiti in un unico contratto a tempo indeterminato in conseguenza della ritenuta nullità dell’apposizione del termine, la prescrizione dei crediti derivanti dal rapporto non decorre dalla scadenza dei singoli contratti a termine e resta sospesa sino alla cessazione del rapporto lavorativo, non rilevando che a seguito della conversione il rapporto medesimo risulti assistito dalla garanzia della stabilità reale (Cass. 7 giugno 2018, n. 14827);
c) viceversa, si era ritenuta possibile la decorrenza della prescrizione nel corso del rapporto nel caso di rapporti a tempo indeterminato ai quali fosse applicabile l’art. 18 St.lav. nella sua originaria formulazione, in quanto tale normativa garantiva la sussistenza della duplice condizione della possibilità di annullamento dell’atto di licenziamento e della completa reintegrazione della posizione giuridica preesistente fatta illegittimamente cessare;
e) nel caso di successione tra stesse parti di due o più contratti di lavoro a termine, ciascuno dei quali legittimo ed efficace, il termine prescrizionale dei crediti retributivi, di cui agli artt. 2948, numero 4, 2955, numero 2, e 2956, numero 1, cod. civ., inizia a decorrere, per i crediti che sorgono nel corso del rapporto lavorativo dal giorno della loro insorgenza e, per quelli che si maturano alla cessazione del rapporto, a partire da tale momento, dovendo − ai fini della decorrenza della prescrizione − i crediti scaturenti da ciascun contratto considerarsi autonomamente e distintamente da quelli derivanti dagli altri, senza che possano produrre alcuna efficacia sospensiva della prescrizione gli intervalli di tempo tra i rapporti lavorativi, stante la tassatività delle cause sospensive previste dagli artt. 2941 e 2942 c.c., o possa ravvisarsi, in tali casi, il "metus" del lavoratore verso il datore che presuppone un rapporto a tempo indeterminato non assistito da alcuna garanzia di continuità (Cass. 5 agosto 2019, n. 20918).
Per il lavoro pubblico, invece, anche dopo la relativa privatizzazione:
a) si è mantenuto l’orientamento secondo cui in ogni caso la prescrizione dei crediti retributivi decorre nel corso del rapporto sia che si tratti di rapporto a tempo indeterminato sia che si sia in presenza di rapporti a termine anche illegittimi, perché pure in quest’ultimo caso, va applicato il principio secondo cui la prescrizione decorre per i crediti che sorgono nel corso del rapporto lavorativo dal giorno della loro insorgenza, e per quelli che si maturano alla cessazione del rapporto a partire da tale momento. Ciò in quanto nel pubblico impiego anche per i rapporti di lavoro flessibile il dipendente è sempre assistito dalle garanzie dei rimedi giurisdizionali contro l’arbitraria risoluzione anticipata del rapporto (vedi, per tutte: Cass. 28 maggio 2020, n. 10219);
b) del resto, ciò che va apprezzato per escludere la decorrenza della prescrizione in costanza di rapporto non è la mera precarietà in sé del rapporto stesso quanto l’esistenza di una condizione psicologica di metus, che nel lavoro alle dipendenze di pubbliche amministrazioni non si presenta in modo analogo a quanto avviene in quello privato, perché l’azione del datore di lavoro pubblico, istituzionalmente vincolata al rispetto dei principi di buon andamento e di imparzialità, è astretta da parametri legali significativi, oltre che da vincoli organizzativi, che permangono anche dopo la contrattualizzazione dell’impiego e che pongono il datore di lavoro pubblico, la cui discrezionalità è vincolata dalla legge e dalla contrattazione collettiva, in condizione di operare sui dipendenti una pressione decisamente ridotta rispetto a quella che può esercitare il datore privato (vedi, per tutte: Cass. 28 maggio 2020, n. 10219 cit.);
c) lo stesso regime vale per il caso di contratto di lavoro formalmente autonomo, del quale sia successivamente accertata la natura subordinata, precisandosi che, nel lavoro pubblico contrattualizzato, in tale ipotesi la decorrenza della la prescrizione dei crediti retributivi in costanza di rapporto, si giustifica per la mancanza di ogni aspettativa del lavoratore alla stabilità dell’impiego e la conseguente inconfigurabilità di un metus in ordine alla mancata continuazione del rapporto suscettibile di tutela (Cass. 19 novembre 2021, n. 35676).
Per il lavoro privato questa impostazione, tuttavia, ha avuto di recente una importante evoluzione con la sentenza della Sezione Lavoro 6 settembre 2022, n. 26246 secondo cui nel lavoro privato, il rapporto di lavoro a tempo indeterminato, come modulato per effetto della legge n. 92 del 2012 e del d.lgs. n. 23 del 2015 non può considerarsi assistito da un regime di stabilità, mancando dei presupposti di predeterminazione certa delle fattispecie di risoluzione e di una loro tutela adeguata, sicché, per tutti quei diritti che non siano prescritti al momento di entrata in vigore della legge n. 92 del 2012, il termine di prescrizione decorre, a norma del combinato disposto degli artt. 2948, n. 4, e 2935 cod. civ., dalla cessazione del rapporto di lavoro.
In questa sentenza la Corte ha ritenuto che la duplice sopravvenienza normativa rappresentata dall’emanazione prima della legge n. 92 del 2012 (c.d. Legge Fornero) e poi del d.lgs. n. 23 del 2015 (c.d. riforma del Jobs Act) abbia portato ormai ad escludere, per i lavoratori privati, il regime della stabilità reale, con l’effetto che il termine di prescrizione non può che tornare a decorrere per loro dalla fine del rapporto, essendo venuta meno la tutela fornita dalla legge n. 300 del 1970, in termini di “stabilità reale” generalizzata. In questo modo, è caduto un altro dei presupposti sui quali erano state fondate le decisioni della Corte costituzionale del 1969 e del 1972 e, quindi, le pronunce delle Sezioni Unite n. 1268 del 1976 e n. 575 del 2003.
Per il lavoro pubblico non è stato attribuito il medesimo effetto alla riforma del pubblico impiego, benché la Corte costituzionale, prima nella sentenza n. 143 del 169 e poi nella sentenza n. 41 del 1979 abbia affermato che “spetta al giudice di merito stabilire, nei singoli casi, se è stato posto in essere un rapporto di pubblico impiego, o se lo Stato o l’Ente pubblico si è assoggettato alla disciplina di diritto comune del rapporto di lavoro”, come abbiamo più volte ricordato.
Infatti, con la sentenza 28 dicembre 2023, n. 36197 le Sezioni Unite ‒ chiamate a risolvere alcune questioni di massima di particolare importanza in materia proposte dalla Sezione Lavoro, con ordinanza interlocutoria 28 febbraio 2023, n. 6051 ‒ hanno affermato il seguente principio: “la prescrizione dei crediti retributivi dei lavoratori nel pubblico impiego contrattualizzato ¬ sia nei rapporti a tempo indeterminato, sia in quelli a tempo determinato, e anche in caso successione di contratti a termine, tanto legittimi quanto illegittimi ¬ decorre, per i crediti che nascono nel corso del rapporto lavorativo, dal giorno della loro insorgenza e, per quelli che maturano alla cessazione, a partire da tale data, perché non è configurabile un metus del cittadino verso la pubblica amministrazione e perché, nei rapporti a tempo determinato, il mancato rinnovo del contratto integra un’apprensione che costituisce una mera aspettativa di fatto, non giustiziabile per la sua irrilevanza giuridica”.
L’aspetto di maggiore impatto riguarda il caso successione di abusiva successione di contratti a termine (o flessibili, in genere) per il quale nel lavoro privato la prescrizione dei crediti retributivi non decorre dalla scadenza dei singoli contratti a termine e resta sospesa sino alla cessazione del rapporto lavorativo, non rilevando che a seguito della conversione il rapporto medesimo risulti assistito dalla garanzia della stabilità reale, mentre nel lavoro pubblico anche in questa ipotesi il termine prescrizionale dei crediti retributivi, di cui agli artt. 2948, numero 4, 2955, numero 2, e 2956, numero 1, cod. civ., inizia a decorrere, per i crediti che sorgono nel corso del rapporto lavorativo dal giorno della loro insorgenza e, per quelli che si maturano alla cessazione del rapporto, a partire da tale momento, dovendo − ai fini della decorrenza della prescrizione − i crediti scaturenti da ciascun contratto considerarsi autonomamente e distintamente da quelli derivanti dagli altri, senza che possano produrre alcuna efficacia sospensiva della prescrizione gli intervalli di tempo tra i rapporti lavorativi, al pari di quanto previsto per i contratti flessibili legittimi per entrambi i comparti.
Alla suddetta conclusione le Sezioni Unite sono giunte sul presupposto secondo cui “nonostante l’evoluzione socio-economica dei rapporti di lavoro e i significativi mutamenti normativi che hanno interessato la materia del pubblico impiego, per effetto della sua contrattualizzazione”, “bene evidenziati con perspicua sensibilità dall’ordinanza interlocutoria”, tuttavia la disciplina del pubblico impiego contrattualizzato non può che continuare a muoversi nel segno della continuità rispetto alle linee tracciate, in primis, da Cass. S.U. 16 gennaio 2003, n. 575 e successivamente da Cass. 28 maggio 2020, n. 10219 e dalla consolidata giurisprudenza conforme (tra le altre: Cass. 24 giugno 2020, n. 12443; Cass. 30 novembre 2021, n. 37538; Cass. 29 dicembre 2022, n. 38100; Cass. 18 luglio 2023, n. 20793).
Nella sentenza è stata anche “affermata con chiarezza l’inconfigurabilità di una situazione psicologica di soggezione del cittadino verso un potere dello Stato, quale la pubblica amministrazione, nella fisiologia del sistema”, benché l’ordinanza di rimessione si riferisse al comportamento della pubblica amministrazione come datrice di lavoro e non come potere dello Stato.
Inoltre, le Sezioni Unite non hanno neppure contemplato l’orientamento giurisprudenziale (richiamato nella ordinanza di rimessione) secondo cui in materia di pubblico impiego privatizzato, l’illegittima reiterazione dei contratti di lavoro flessibile, con il medesimo lavoratore, produce una situazione di incertezza sulla stabilità occupazionale, definita danno c.d. da precarizzazione, che lede la dignità della persona, quale diritto inviolabile, di cui è proiezione anche il diritto al lavoro come tale, riconosciuto nel diritto interno dagli artt. 2 e 4 Cost, e nel diritto UE dagli artt. 1 e 15 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, c.d. Carta di Nizza (Cass. 9 giugno 2020 n. 10999 e nello stesso senso, fra le molte, Cass. 15 dicembre 2022 n. 36851; Cass. 21 settembre 2021 n. 25594).
5.- Possibili scenari futuri.
Comunque, a questo punto, la questione del computo della prescrizione dei crediti retributivi dei lavoratori nel pubblico impiego contrattualizzato in caso di successione di contratti temporanei “abusiva” (secondo Cass. n. 5072 del 2016) ¬ che riverbera i suoi effetti anche nella ricostruzione della carriera e sulla anzianità di servizio ¬ nella giurisprudenza di legittimità si può considerare al momento “chiusa” e, in base alla giurisprudenza della Corte costituzionale, neppure può essere oggetto di una questione di legittimità costituzionale, in quanto si tratta di questione per la quale il Giudice delle leggi ha escluso la propria competenza affermando che la relativa soluzione ientra nella competenza del giudice ordinario cui spetta di accertare, caso per caso, la ricorrenza della stabilità del rapporto di lavoro.
D’altra parte, è improbabile un intervento legislativo in materia.
Deve essere, però, ricordato che per la Corte EDU l’istituto della prescrizione dei diritti, non è di per sé non lesivo del diritto d’accesso ai tribunali garantito dall’art. 6 della Convenzione (Stubbings e altri c. Regno Unito, ric. n. 22083/93, 22 ottobre 1996), a condizione che rispetti il limite della ragionevolezza, tanto nella durata del termine quanto nel suo inizio. E la Corte manifesta una maggiore sensibilità verso l’interesse del creditore, a conservare il proprio diritto, ancorché a lungo non esercitato, piuttosto che a qualificare l’istituto come mezzo di protezione dell’interesse del debitore a conseguire la definitiva liberazione dal vincolo, con ciò si discostandosi dalla impostazione della prevalente dottrina italiana , come dimostrato emblematicamente dalla sentenza Hoare c. Regno Unito.
Inoltre, può considerarsi come comune acquisizione negli Stati aderenti alla CEDU il principio secondo cui il creditore non può essere privato del diritto senza avere avuto la materiale possibilità di esercitarlo.
D’altra parte, la CGUE ha dimostrato una grande sensibilità nel condannare trattamenti discriminatori in danno dei lavoratori a termine o flessibili in genere.
Quindi, si potrebbe ipotizzare eventuale pronuncia della CGUE muovendo dalla premessa che, per effetto del suindicato orientamento consolidato della Corte di cassazione oggi suggellato dalle Sezioni Unite, il regime applicabile alla prescrizione dei crediti retributivi in caso di abusiva utilizzazione di contratti flessibili nel lavoro pubblico (che si riferisce al comportamento della amministrazione come datore di lavoro e certamente non come potere dello Stato) appare ingiustamente diverso rispetto a quello riservato ai lavoratori privati nella medesima situazione, sul presupposto che per entrambe queste categorie di dipendenti la “stabilità” del rapporto non è garantita e, anzi, per i lavoratori privati è raggiungibile in sede giudiziaria con la conversione del rapporto mentre per i lavoratori pubblici questo non è possibile.
Inoltre, tale diversità di trattamento si potrebbe anche considerare discriminatoria per i lavorati pubblici con riguardo alla eventuale ricostruzione di carriera che, anche se giudizialmente riconosciuta, potrebbe comportare la perdita del diritto al pagamento delle differenze retributive nel frattempo prescritte (oltre i cinque anni), oltretutto in una situazione in cui viceversa il datore di lavoro pubblico – qualora dovesse accorgersi di un erroneo inquadramento in una fascia stipendiale superiore – ha ben dieci anni di tempo per recuperare le somme versate in eccedenza (arg.ex CGUE sentenze 20 settembre 2018, C-466/17, Motter; 18 luglio 2006, C-119/04, Commissione UE c. Italia).
Un regime che, oltre a discriminare i lavoratori pubblici rispetto a quelli privati (nella medesima situazione di vittime di una abusiva successione di contratti flessibili), prevede altresì una evidente disparità di trattamento, a vantaggio del datore di lavoro e non del lavoratore, considerato il soggetto debole del rapporto sia nella giurisprudenza della Corte costituzionale (anche nella presente materia), sia in quella della Corte di giustizia UE (vedi, per tutte: sentenza CGUE 5 ottobre 2004, cause riunite da C-397/01 a C-403/01, Pfeiffer e a., punto 80, nonché sentenza 20 novembre 2010, causa C-429/09, Fuß, punti 80 e 81), secondo cui non è possibile realizzare un contemperamento di interessi a favore del soggetto forte, peraltro inadempiente in caso di abusivo utilizzo di contratti flessibili, realizzandosi in tal caso una doppia sperequazione a favore del soggetto meno meritevole, perché inadempiente ad obblighi legalmente dati, nonché soggetto forte.
Per un eventuale rinvio pregiudiziale alla CGUE si potrebbe ricordare che il glorioso percorso del “danno comunitario” (conclusosi con Cass. SU n. 5072 del 2016) ha avuto inizio con l’ordinanza della CGUE Papalia che, nella sostanza, ha ritenuto incompatibile con la normativa UE il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, in base al quale, in caso di ricorso abusivo ai contratti a termine da parte della PA, il diritto al risarcimento del danno era subordinato all’obbligo, gravante sul lavoratore, “di fornire la prova di aver dovuto rinunciare a migliori opportunità di impiego”, avendo la CGUE sottolineato che detto obbligo può avere “come effetto di rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio, da parte del citato lavoratore, dei diritti conferiti dall’ordinamento dell’Unione”.
E va precisato che, per quanto riguarda il diritto al pagamento dell’indennità “forfetizzata” e “onnicomprensiva”, prevista dall’art. 32, comma 5, della legge n. 183 del 2010 (c.d. danno comunitario) per l’ipotesi di illegittima reiterazione di contratti di lavoro a tempo determinato (o flessibile) sia per il lavoro privato sia per quello pubblico è pacifico che esso sia soggetto al termine di prescrizione ordinario, essendo inapplicabili i termini prescrizionali stabiliti dagli artt. 2948, n. 4, 2955, n. 2, e 2956, n. 1, cod. civ. e che il termine decennale di prescrizione decorra dall’ultimo di tali contratti, in considerazione della natura unitaria del predetto diritto (vedi, per tutte: Cass. 12 dicembre 2023, n. 34741 per il lavoro pubblico e Cass. 7 settembre 2012, n. 14996 per il lavoro privato) e anche il termine di impugnazione previsto a pena di decadenza dall’art. 32, comma 4, lett. a), della legge n. 183 del 2010, deve essere osservato e decorre dall’ultimo (ex latere actoris) dei contratti intercorsi tra le parti, atteso che la sequenza contrattuale che precede l’ultimo contratto rileva come dato fattuale, che concorre ad integrare l’abusivo uso dei contratti a termine e assume evidenza proprio in ragione dell’impugnazione dell’ultimo contratto (Cass. 16 febbraio 2023, n. 4960).
6.- Problemi comuni di tutti i lavoratori precari
Certo non è facile prendere l’iniziativa del suddetto rinvio pregiudiziale e sperare di ottenere una risposta positiva da parte della Corte di giustizia UE perché, da un lato, si deve superare il pregiudizio, diffuso nel nostro Paese, secondo il lavoro pubblico è di per è privilegiato e dall’altro di devono considerare le ricadute, in termini di spesa pubblica, dell’auspicata parità di trattamento.
Quanto al suddetto pregiudizio potrebbe essere sufficiente rilevare che le principali ragioni per le quali si utilizzano forme contrattuali di lavoro flessibile sono state individuate: a) dal lato dell’offerta nel fatto che tali forme contrattuali sono considerate strumenti di promozione di nuove opportunità e modalità occupazionali per favorire l’introduzione nel mercato del lavoro di giovani, donne ossia di quelle fasce di lavoratori che in Italia, ma non solo, faticano maggiormente ad entrare nel mercato del lavoro; b) dal lato della domanda nel fatto che tale tipo di lavoro è reputato uno strumento idoneo a favorire le cosiddette esigenze di flessibilità delle imprese e quindi la competitività.
Pertanto, da quest’ultimo punto di vista, mentre si può giustificare che possano farvi ricorso le organizzazioni produttive, molti studiosi non comprendono perché siamo ampiamente utilizzate pure dalle Pubbliche Amministrazioni, o meglio individuano tali ragioni esclusivamente nel risparmio della spesa per il personale che, però, non sempre risulta conveniente per la qualità dei servizi e per l’immagine delle Amministrazioni.
A ciò va aggiunto che tutti i lavoratori precari, pubblici e privati, si trovano a dovere affrontare una condizione di perenne incertezza economica ed esistenziale che può influire negativamente sulla qualità della vita, sulla salute mentale e sul loro benessere e che li costringe a non potere programmare un futuro professionale e personale e che, infatti, è una delle cause della tendenza alla denatalità che continua a manifestarsi in modo severo specialmente in molti Paesi UE e soprattutto in Italia, dimostrando così come la flessibilità estrema e abusiva sia una scelta anche anti-economica, come del resto è sottolineato in numerose analisi economiche e socio-statistiche.
Senza contare che si tratta di una situazione nella quale più frequentemente si registrano infortuni sul lavoro, anche mortali e che se protratta nel tempo diviene patologica con differenti manifestazioni rispettivamente nel lavoro privato ¬ ove spesso si collega a situazioni di evasione fiscale e contributiva ¬ e nel lavoro pubblico, ove può collegarsi a situazioni di “maladministration”.
Quanto alle ricadute di spesa pubblica può essere ricordato che per entrambe le Corti europee centrali, le ragioni di bilancio e di contenimento della spesa, pur costituendo uno scopo legittimo, non rispondono ai principi di proporzionalità nel momento la loro applicazione determina la lesione di diritti fondamentali delle persone (vedi, fra le tante: Corte EDU, sentenza 7 giugno 2011, Agrati e altri contro Italia e sulla medesima vicenda CGUE sentenza 6 settembre 2011, C 108/10, Scattolon c. Italia, queste ultime entrambe relative alla annosa vicenda del personale ATA, che ha comportano notevoli problemi di spesa pubblica per il nostro Paese).
Nella specie, è indubbio che venga in considerazione un diritto fondamentale delle persone che è il diritto al lavoro dignitoso e che non si tratti solo di trattamento retributivo, ma, come si è detto, anche di diritto alla ricostruzione della carriera e alla anzianità di servizio ai fini economici che comunque rileva anche ai fini giuridici, in una ottica ben più ampia di quella meramente stipendiale, ottica non dissimile (facendo le dovute differenze) a quella che ha portato a sottoporre vittoriosamente alla attenzione delle due Corti europee centrali il famoso caso ATA.
Nella nostra Costituzione il diritto al lavoro dignitoso è stato concepito quale valore fondante dell’ordinamento, come risulta dal primo comma dell’art. 1, secondo cui «l’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro».
Si tratta di un lavoro configurato come principale strumento di integrazione sociale e di riconoscimento della pari dignità di tutte le persone e quindi finalizzato al benessere del singolo e della società e intimamente connesso con la tutela della salute, secondo la definizione accolta dall’OMS, in termini di “stato di completo benessere fisico, mentale e sociale non consistente solo in un’assenza di malattia o d’infermità” da cui muovono tutte le fonti internazionali, UE e nazionali in materia.
Accedere a questa ottica significa non solo ridurre il precariato ma anche puntare a creare ambienti di lavoro positivi nei quali sia messo al centro il c.d. “capitale umano” e, da varie rilevazioni, risulta che simili ambienti di lavoro – come più volte sottolineato anche in sede UE – favoriscono la produttività e diminuiscono l’incidenza delle discriminazioni e delle malattie professionali.
Come è confermato dall’esperienza di alcuni imprenditori avveduti, i cui fatturati sono in crescita anche grazie alla creazione di ambienti di lavoro inclusivi pure per le donne e i disabili .
Anche nel settore pubblico si possono riscontrare i medesimi benefici effetti in termini di efficienza e di immagine delle Pubbliche Amministrazioni.
Impegnarsi per sanare la anzidetta disparità di trattamento in materia di prescrizione dei crediti retributivi vuol dire impegnarsi per diffondere la suddetta ottica, con adeguati investimenti sia di mezzi materiali sia di risorse umane ma per avere diverse Pubbliche Amministrazioni, come ci si è ripromessi con il d.lgs. n. 29 del 1995.
Oggi questo appare necessario e funzionale all’attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR), perché significa puntare su un’organizzazione positiva del sistema, muovendo dalla premessa che ambienti di lavoro sani, sicuri e inclusivi che sono fattori che migliorano anche le performances del sistema economico e delle imprese, e di riflesso l’efficienza, l’immagine e quindi la competitività di tutto il sistema in un’ottica di responsabilità sociale, come da tempo si sostiene in ambito OIL e UE.
E dovrebbero essere proprio le Pubbliche Amministrazioni a dare l’esempio, a partire dal trattamento offerto ai propri dipendenti perché esse sono lo “specchio dello Stato” e quindi di tutti noi cittadini.
Del resto, diventa difficile pensare che, ad esempio, per le migliaia di maestre di nidi e materne del Comune di Roma definite “precarie storiche” che rischiano di perdere il posto anziché ottenere finalmente la stabilizzazione il mancato rinnovo del contratto ovvero il mancato ottenimento di un rapporto a tempo indeterminato (dopo oltre dieci anni di precariato) integrino “un’apprensione che costituisce una mera aspettativa di fatto, non giustiziabile per la sua irrilevanza giuridica”, anziché una situazione di lesione della loro dignità e del loro diritto fondamentale al lavoro derivante da un comportamento dell’Amministrazione non conforme ai criteri generali di correttezza e buona fede (art. 1175 e 1375 cod. civ.) che nel lavoro pubblico contrattualizzato la parte datoriale deve osservare alla stregua dei principi di imparzialità e di buon andamento di cui all'art. 97 Cost. (vedi, per tutte: Cass. SU 23 settembre 2013, n. 21671).
Infatti, come sottolineano le stesse interessate, “la condizione di instabilità economica e incertezza lavorativa. minano drammaticamente la vita di una persona, logorando pian piano i principi di dignità, equità e libertà ai quali la nostra Costituzione si ispira”, eppure si tratta di persone che hanno competenze professionali molto importanti e svolgono un delicato lavoro che serve per creare una società migliore, a partire dai bambini fino a sei anni, le quali, anno dopo anno, fiduciose hanno aspettato dalla PA un miglioramento delle condizioni lavorative con l’adozione di misure avverso gli abusi sia contrattuali che professionali subiti.
Certamente per loro la cosa più importante è non perdere il lavoro, un lavoro che prevalentemente svolgono con passione, ma se anche venissero stabilizzate comunque, con il suddetto criterio applicativo della prescrizione, non otterrebbero un completo riconoscimento di tutto il loro impegno, non avendo interrotto la prescrizione in corso di rapporto.
Eppure, è evidente che se lo avessero fatto avrebbero, con ogni probabilità, perso il lavoro precario che avevano e che comunque dava loro un reddito.
In simile situazione, anche se non si vuole parlare di metus diventa difficile non considerare queste lavoratrici come soggetti contrattuali deboli.

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