Abstract –
Lo scritto si occupa di tematiche relative alla retribuzione dei dipendenti pubblici, con particolare riferimento alle trattenute “ex INADEL” e alla loro dubbia legittimità
The paper deals with issues related to the remuneration of civil servants, with particular reference to "ex INADEL" deductions and their dubious legitimacy.
1. Il tema della legittimità della c.d. “Riduzione ex INADEL” ovvero “Abbattimento lordo TFR”, applicata alla retribuzione dei dipendenti pubblici, è un argomento assai dibattuto nella prassi, ma ancora poco in dottrina, il che ha agevolato l’emersione di interpretazioni contrastanti, determinate prevalentemente da incertezze applicative interne alla stessa pubblica amministrazione.
La rilevanza della questione discende dall’impatto, assai significativo, che la suddetta riduzione determina sulla retribuzione netta che viene effettivamente corrisposta al lavoratore al termine del periodo di paga.
Invero, pur trattandosi di una trattenuta apparentemente molto contenuta, pari al 2,50% della retribuzione lorda, essa comporta una notevole decurtazione reddituale, venendo applicata per tutti i mesi, nell’arco dell'intera vita lavorativa del dipendente.
L’obiettivo di questo scritto è dimostrare l’illegittimità della suddetta trattenuta, ricostruendo le ragioni giuridiche in base alle quali risulta evidente che essa, ormai, non può più essere applicata a nessun lavoratore dipendente in regime di pubblico impiego contrattualizzato.
2. A tale conclusione si perviene già solo ricostruendo la genesi dell’istituto e l’evoluzione che ha subíto nel corso degli anni.
Come è noto, infatti, nel pubblico impiego, all’atto della cessazione del rapporto, il dipendente aveva diritto a percepire l'indennità di buonuscita erogata dal Fondo di previdenza e credito o comunque egli Enti previdenziali di riferimento (ENPAS, INADEL, poi assorbiti nell’INPDAP con Legge n. 308/93).
Tale indennità era in parte finanziata con un contributo a carico del lavoratore stesso, il quale partecipava, appunto, con la suddetta trattenuta mensile in busta paga del 2,50%.
Successivamente, però, l’art. 2, comma 2, del D.P.C.M. 20 dicembre 1999 ha esteso ai pubblici dipendenti assunti dopo il 31 dicembre 2000 la disciplina privatistica del trattamento di fine rapporto di cui all’art. 2120 cod. civ. .
Con l'integrale applicazione della disciplina codicistica del trattamento di fine rapporto è, dunque, venuta meno la legittimità della suddetta trattenuta mensile del 2,50%, che era applicabile ai tempi dell’ormai superata e più favorevole disciplina delle indennità di fine rapporto pubbliche.
Infatti, ora che l’applicazione dell’art. 2120 cod. civ. è stata estesa anche ai dipendenti pubblici assunti dopo il 31 dicembre 2000, le suddette trattenute non hanno più alcuna ragion d’essere, essendo ormai palesemente incompatibili con il sistema delineato dalla “nuova” disciplina del trattamento di fine rapporto, che, come è noto, prevede che l’intero accantonamento sia a carico del solo datore di lavoro, senza alcuna compartecipazione del lavoratore.
Sicché, se i dipendenti pubblici assunti dopo il 31 dicembre 2000 hanno ormai perduto il beneficio del più favorevole trattamento di fine servizio, è evidente che essi debbano almeno conservare nella sua interezza la retribuzione lorda stabilita dai contratti collettivi, dovendosi escludere ogni sua ingiustificata riduzione che non avrebbe più alcun fondamento giuridico e, anzi, si porrebbe in aperta violazione degli articoli 3 e 36 Cost. e dell’art. 45, comma 2, del D.lgs. n. 165/01, in tema di parità di trattamento economico dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni.
3. Sul punto è intervenuta anche la Corte costituzionale, la quale ha sancito l’illegittimità della trattenuta del 2,50% per i dipendenti assunti dopo il 31 dicembre 2000, stigmatizzando le differenze nelle modalità di calcolo tra t.f.s. e t.f.r. e chiarendo che: “la differente normativa pregressa prevedeva dunque un accantonamento determinato su una base di computo inferiore e, a fronte di un miglior trattamento di fine rapporto, esigeva la rivalsa sul dipendente di cui si discute. Nel nuovo assetto dell'istituto determinato dalla norma impugnata, invece, la percentuale di accantonamento opera sull'intera retribuzione, con la conseguenza che il mantenimento della rivalsa sul dipendente, in assenza peraltro della "fascia esente", determina una diminuzione della retribuzione e, nel contempo, la diminuzione della quantità del TFR maturata nel tempo” .
La Corte costituzionale ha altresì ribadito i contenuti della suddetta sentenza in un’altra pronuncia, in cui ha messo in luce le differenze esistenti tra il trattamento di fine servizio ed il trattamento di fine rapporto, nonché le ricadute di tali differenze sul regime delle trattenute del 2,50%: “…il trattamento di fine servizio è, infatti, diverso e normalmente migliore rispetto al trattamento di fine rapporto disciplinato dall'art. 2120 cod. civ., per cui il fatto che il dipendente - che (in conseguenza del ripristinato regime ex art. 37 del d.P.R. 29 dicembre 1973, n. 1032) ha diritto all'indennità di buonuscita - partecipi al suo finanziamento, con il contributo del 2,50% (sull'80% della sua retribuzione), non integra un'irragionevole disparità di trattamento rispetto al dipendente che ha diritto al trattamento di fine rapporto. Per altro verso, il fatto che alcuni dipendenti delle pubbliche amministrazioni godano del trattamento di fine servizio ed altri del trattamento di fine rapporto è conseguenza del transito del rapporto di lavoro da un regime di diritto pubblico ad un regime di diritto privato e della gradualità che, con specifico riguardo agli istituti in questione, il legislatore, nell'esercizio della sua discrezionalità, ha ritenuto di imprimervi” .
I princípi di diritto enunciati dalle suddette pronunce sono stati ormai recepiti anche dalla giurisprudenza di merito.
Al riguardo si veda, in termini molto puntuali, una recente sentenza del Tribunale di Milano, che ha così motivato l’inapplicabilità della trattenuta di cui è causa: “In altri termini, occorre osservare che, per gli assunti successivamente al 31/12/2000, non spettando loro più il trattamento di fine servizio, non ha trovato più applicazione la relativa disciplina e si è verificata una carenza di fonte normativa, nonché di ragioni sostanziali, per il versamento di un contributo a carico dei dipendenti del 2,5% e così pure non trova logica una soluzione ermeneutica che addivenisse a ritenere prevista dalla legge una corrispondente riduzione della retribuzione lorda mensile. Infatti, si può notare come, nel regime del trattamento di fine servizio, il 2,5% di cui si tratta fosse comunque maturato dal lavoratore in ragione della propria prestazione lavorativa in un rapporto di corrispettività... Una volta, però, che i pubblici impiegati, per le riforme di legge, abbiano perduto la possibilità di godere del trattamento di fine servizio, tale quota della retribuzione del 2,5% è venuta a perdere ogni connotazione di tipo contributivo/previdenziale, mantenendo esclusivamente natura retributiva (cfr., su temi analoghi, Cass. Sentenza n. 1717 del 13/03/1984; Sentenza n. 5202 del 11/04/2002; Sentenza n. 5980 del 14/12/1978; Sentenza n. 20418 del 21/11/2012; Sentenza n. 19792 del 05/10/2015), cosicché avrebbe dovuto essere riconosciuta al singolo lavoratore assunto dopo il 31/12/2000 ormai sottoposto al regime del TFR, in quanto prevista nell'ambito degli emolumenti lordi del dipendente ai sensi della contrattazione collettiva utile per individuare la sua retribuzione proporzionata e sufficiente ex articolo 36 Cost.” .
4. Le conclusioni sopra esposte, secondo alcuni, sarebbero inficiate da quanto previsto dall’art. 1, commi 2 e 3, del D.P.C.M. 20 dicembre 1999 e dall’art. 6, comma 3, dell'Accordo sindacale del 29 luglio 1999, secondo cui “la retribuzione lorda viene ridotta in misura pari all’ammontare del contributo soppresso e contestualmente viene stabilito un recupero in misura pari alla riduzione attraverso un corrispondente incremento figurativo ai fini previdenziali e dell’applicazione delle norme sul TFR”.
In altre parole, tali norme, risalenti al 1999 e anteriori alle citate pronunce della Corte costituzionale del 2012 e del 2014, avrebbero sostanzialmente ripristinato la trattenuta sulla retribuzione, salvo poi prevedere una sorta di conguaglio ai soli fini della determinazione del trattamento pensionistico e, appunto, del trattamento di fine rapporto.
Tale interpretazione appare errata già solo in base al tenore testuale delle norme sopra citate, dalle quali si evince chiaramente che esse si applicano ai dipendenti assunti dopo l’entrata in vigore del D.P.C.M. cit., e cioè dopo il 30 maggio 2000, come recita l’art. 1, comma 4, ma non anche ai dipendenti assunti a partire dal 1° gennaio 2001, per i quali si è visto sopra essere applicabile esclusivamente il regime di calcolo del trattamento di fine rapporto di cui all'art. 2120 cod. civ.
Sicché sarebbe inverosimile pensare che l’art. 2, comma 2, del D.P.C.M. cit., sia in contrasto o addirittura sia stato implicitamente abrogato da quanto previsto dal precedente art. 1, ai commi 2, 3 e 4.
Mentre, se si vuole dare un senso al tenore letterale che emerge del combinato disposto degli artt. 1 e 2 del D.P.C.M. cit. , armonizzando le due norme in una logica costituzionalmente orientata, anche alla luce delle pronunce della Corte costituzionale che si sono viste sopra, deve ritenersi che l’intenzione del legislatore sia quella di estendere la trattenuta sulla retribuzione esclusivamente ai lavoratori assunti dopo l’entrata in vigore del Decreto medesimo, ma prima del 31 dicembre 2000, con conseguente inapplicabilità di tale trattenuta a tutti i lavoratori assunti successivamente a tale data.
5. La ragionevolezza di questa interpretazione si coglie anche su un piano sistematico, in quanto, ove si ritenessero applicabili, anche ai dipendenti assunti dopo il 31 dicembre 2000, l’art. 1, commi 2, 3 e 4, del D.P.C.M. 20 dicembre 1999 e l’art. 6, comma 3, dell’Accordo sindacale del 29 luglio 1999, tali norme dovrebbero essere comunque disapplicate dal Giudice del lavoro per una serie di motivi che sono stati ampiamente esposti dalla giurisprudenza intervenuta in argomento.
In primo luogo, infatti, l’introduzione della trattenuta sarebbe comunque illegittima per contrasto con l’articolo 23 Cost., non potendosi imporre nessuna prestazione personale o patrimoniale se non in base alla legge.
Sicché a ciò non potrebbe essere autorizzata né la contrattazione collettiva né il D.P.C.M. cit., in quanto fonti secondarie dell’ordinamento giuridico.
Inoltre le norme secondarie citate si porrebbero in contrasto con l’art. 36 Cost., in quanto determinerebbero un abbattimento della retribuzione proporzionata e sufficiente prevista dal contratto collettivo.
Né vale sostenere che il legislatore avrebbe previsto il recupero della decurtazione mediante un corrispondente incremento contributivo e del t.f.r., in quanto tale incremento incide solo sui contributi e sulla retribuzione differita, ma non compensa una perdita della retribuzione diretta.
Per le stesse ragioni, le norme secondarie sopra citate si pongono altresì in contrasto con l’art. 3 Cost., nonché con l’art. 45 del D.lgs. n. 165/2001.
Invero, la decurtazione della retribuzione ha ragione di esistere solo per i dipendenti che sono rimasti nel più favorevole regime del t.f.s., ovvero per coloro che abbiano esercitato il diritto di opzione per il trattamento di fine rapporto, in quanto questi ultimi non solo vedono le loro competenze di fine rapporto regolate dal principio del pro rata , e cioè con una quota ancora calcolata in base alla previgente (e più conveniente) disciplina del t.f.s., ma beneficiano altresì di un incremento sulla previdenza complementare .
Viceversa, una decurtazione che determini una riduzione della retribuzione lorda del 2,50% non ha alcun senso nell’ambito della disciplina del t.f.r. di cui all’art. 2120 cod. civ., posto che i dipendenti soggetti a tale disciplina non beneficiano delle suddette condizioni di miglior favore.
Ragionando diversamente si arriverebbe all’inammissibile conclusione di disciplinare in modo eguale situazioni palesemente differenti, in aperto contrasto con quanto disposto dall’art. 3 Cost.
Senza dire che un’ulteriore violazione dell’art. 3 Cost. sarebbe integrata dall’ingiustificata disparità di trattamento tra dipendenti privati e dipendenti pubblici, prevedendo per questi ultimi un trattamento giuridico deteriore, come se l’applicabilità dell’art. 2120 cod. civ. espressamente voluta dal legislatore fosse derubricata ad una mera “dichiarazione di intenti”, priva di contenuto precettivo.
Né la suddetta disparità di trattamento potrebbe mai essere giustificata sulla base di un’asserita uniformità di trattamento fra tutti i dipendenti pubblici.
Infatti, anche a voler prescindere dalle considerazioni sopra esposte, la tesi dell’applicabilità generalizzata della suddetta trattenuta poteva avere un senso solo finché è stato in vigore l’art. 12, comma 10, del D.L. n. 78/10, che aveva applicato anche ai dipendenti in regime di t.f.s. il criterio di computo del t.f.r. previsti dall’art. 2120 cod. civ.
Sicché, all’epoca, una dottrina minoritaria aveva ritenuto che, se anche i dipendenti in regime di t.f.s. erano ormai obbligati per legge a godere di una retribuzione differita meno favorevole, non era giusto che solo a loro fosse stata applicata la trattenuta del 2,50% e non anche agli assunti dopo il 31 dicembre 2000. Il che peraltro conduceva logicamente ad un’interpretatio abrogans della trattenuta del 2,50% anche per i vecchi assunti, ma non certo ad un’interpretazione additiva, per non dire creatrice, che volesse ripristinare la suddetta trattenuta anche agli assunti dopo il 31 dicembre 2000.
Il problema è comunque superato ora che la Legge 24 dicembre 2012, n. 228 ha abrogato il suddetto art. 12, ripristinando il più favorevole regime del t.f.s. per gli assunti prima del 31 dicembre 2000; sicché neppure sotto tale profilo vi è alcuna ragione per assoggettare il personale in regime di t.f.r., assunto dopo tale data, alla trattenuta del 2.50%.
6. In questa situazione, dunque, sarebbe auspicabile un intervento del legislatore che faccia definitivamente chiarezza sulla questione e che imponga alle amministrazioni pubbliche datrici di lavoro di restituire ai propri dipendenti le somme trattenute, ovviamente nei limiti della prescrizione quinquennale, qui decorrente in corso di rapporto .