TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA
1. L’oggetto dell’indagine.
Con questo mio contributo vorrei brevemente analizzare quale sia, oggi, la portata e l’estensione del cd. repêchage nell’ambito del gmo di licenziamento individuale di tipo economico.
Per fare ciò affronterò dapprima alcuni aspetti cruciali del repêchage ex art. 3 l. 604/1966 – la norma che, ponendo per la prima volta limiti al potere di licenziamento datoriale, ha indotto la giurisprudenza, a fronte del licenziamento individuale per ragioni economiche, a ritenere sussistente anche il cd. obbligo di repêchage – per poi valutare se le modifiche introdotte dal Jobs Act all’art. 2103 c.c. ne abbiano modificato la portata.
2. Il repêchage ex art. 3 l. 604/1966: elemento strutturale del concetto di gmo oppure elemento esterno aggiunto alla struttura del gmo dalla giurisprudenza?
Com’è noto, secondo l’orientamento giurisprudenziale consolidato, il gmo di licenziamento si compone di tre elementi: 1) la riorganizzazione della struttura predisposta dal datore, che può riguardare tanto la sua componente personale quanto quella materiale (per es. la decisione di introdurre nuovi macchinari che abbia come conseguenza l’inutilizzabilità di certe mansioni; la scelta di esternalizzare fasi della produzione cui consegua l’eliminazione di alcune mansioni; la determinazione di ridurre la produzione che abbia un impatto sul numero di lavoratori da impiegare ecc.), ma che in ogni caso deve essere effettiva; 2) il nesso causale fra la riorganizzazione effettuata e le mansioni del singolo lavoratore licenziato, che devono risultare superflue nella nuova struttura predisposta dal datore; 3) il cd. repêchage, cioè l’assenza di posizioni vacanti cui il lavoratore possa essere adibito nel rispetto dell’art. 2103 c.c. (cioè – fino alle modifiche introdotte dal Jobs Act – nel rispetto del limite della “equivalenza professionale” previsto da quella norma).
Se questa lettura del gmo è da tempo condivisa in giurisprudenza, in dottrina invece l’esatta collocazione del repêchage ha continuato a rimanere oggetto di discussione, ritenendolo, alcuni, un aspetto intrinseco al gmo – e più in particolare il nesso causale visto in prospettiva negativa –, altri, un elemento estrinseco al gmo, di pura creazione giurisprudenziale .
A me pare che su questo aspetto la parola conclusiva l’abbia pronunciata la Corte costituzionale in due importantissime pronunce: Corte Costituzionale 1° aprile 2021, n. 59 e Corte Costituzionale 19 maggio 2022, n. 125.
Nella prima delle due sentenze la Corte non solo ha affermato che la nozione di “fatto” di cui all’art. 18, 7 comma, St.lav. – da intendersi in senso giuridico e non materiale (come “assenza dei presupposti di legittimità del recesso”) – si identifica totalmente con la “causale giustificatrice” prevista dalla legge, cioè appunto con il gmo, ma ha altresì chiarito che gli elementi di cui consta il gmo sono tre: la riorganizzazione, il nesso causale ed il repêchage.
Si legge, infatti, al punto 5 della parte in diritto: “Il ripristino del rapporto di lavoro, con un risarcimento fino ad un massimo di dodici mensilità, è circoscritto all’ipotesi di manifesta insussistenza del fatto, che postula una evidente assenza dei presupposti di legittimità del recesso e dunque la sua natura pretestuosa […]. Tale requisito che il remittente non censura, si correla strettamente ai presupposti di legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, che è onere del datore dimostrare. Tali sono da intendersi le ragioni inerenti all’attività produttiva, alla organizzazione del lavoro ed al suo regolare funzionamento, il nesso causale che lega il recesso alle scelte organizzative del datore di lavoro e, infine, l’impossibilità di collocare altrove il lavoratore […]. Perché possa operare il rimedio della reintegrazione è sufficiente che la manifesta insussistenza riguardi uno dei presupposti appena indicati […]”. E ancora: “Tali presupposti, pur nel loro autonomo spazio applicativo, si correlano tutti all’effettività della scelta organizzativa del datore di lavoro, che il giudice è chiamato a valutare senza sconfinare in un sindacato di congruità e opportunità. Il vaglio della genuinità della decisione imprenditoriale garantisce che il licenziamento rappresenti pur sempre una extrema ratio e non il frutto di un insindacabile arbitrio” [corsivi di chi scrive].
Non diversa appare la presa di posizione della Corte costituzionale nella sentenza n. 125/2022 nella quale – chiamata ulteriormente a valutare la legittimità costituzionale dell’art. 18, 7 comma, St.lav. – la Consulta scrive (punto 8 della parte in diritto): “Nel peculiare sistema delineato dalla legge n. 92 del 2012, la reintegrazione, sia per i licenziamenti disciplinari sia per quelli economici, si incardina sulla nozione di insussistenza del fatto, che chiama in causa l’aspetto qualificante dei presupposti di legittimità del licenziamento […]. Il fatto che è all’origine del licenziamento per giustificato motivo oggettivo include tali ragioni e, in via prioritaria, il nesso causale tra le scelte organizzative del datore di lavoro e il recesso dal contratto, che si configura come extrema ratio, per l’impossibilità di collocare altrove il lavoratore”.
Se allora nel concetto di fatto/gmo rientrano tanto la riorganizzazione ed il nesso causale, quanto il repêchage (con la conseguenza che in caso di loro difetto – nel regime dell’art. 18 St.lav. – dovrà trovare applicazione la tutela reintegratoria), quali sono, viceversa, gli aspetti che ne sono esclusi (cosicché la loro mancanza possa dar luogo alla sola tutela indennitaria)?
Secondo la Consulta (sempre punto 8 della parte in diritto di C. Cost. n. 125/2022): “Rientrano nell’area della tutela indennitaria le ipotesi in cui il licenziamento è illegittimo per aspetti che, pur condizionando la legittimità del licenziamento, esulano dal fatto giuridicamente rilevante, inteso in senso stretto. In tale ambito si colloca il mancato rispetto della buona fede e della correttezza che presiedono alla scelta dei lavoratori da licenziare, quando questi appartengono a personale omogeneo e fungibile […]”.
Tre, dunque, sono le componenti strutturali del gmo, repêchage incluso.
La giurisprudenza di legittimità, d’altra parte, conferma questa interpretazione e pone infatti l’onere della prova anche del repêchage in capo al datore di lavoro secondo quanto previsto in generale per il gmo dall’art. 5 l. 604/1966 .
Chi scrive ritiene che la posizione della Corte costituzionale sia da condividere: il repêchage ex art. 3 l. 604/1966 appartiene alla struttura del gmo perché permette di controllare se il licenziamento di quello specifico lavoratore sia stato effettivamente disposto per una genuina ragione organizzativa in quanto le mansioni di quel lavoratore non sono più utili nella nuova struttura organizzativa liberamente predisposta dal datore di lavoro.
Il ripescaggio, dunque, altro non è che la verifica – in prospettiva negativa – del nesso causale fra riorganizzazione e mansioni del lavoratore. Come potrebbe, infatti, affermarsi la sussistenza della ragione tecnico–organizzativa di licenziamento se nella nuova organizzazione predisposta dal datore vi fossero posizioni vacanti relative a mansioni che il lavoratore può utilmente svolgere?
Il controllo sul rispetto del ripescaggio, dunque, pone in evidenza il vero interesse sotteso all’atto di licenziamento, permettendo al giudice di verificare se lo specifico licenziamento sottoposto al suo giudizio sia avvenuto davvero per quella specifica causa tecnico–organizzativa addotta dal datore di lavoro (e dunque in vista della realizzazione del suo interesse tecnico–organizzativo, protetto dall’art. 41 Cost.) oppure per altre ragioni (si tratti – com’è nella maggior parte dei casi – di ragioni vietate dal sistema – ragioni discriminatorie, ritorsive o illecite – o di ragioni che in sé sarebbero lecite, ma che avrebbero richiesto il rispetto di forme e procedure poste a tutela della persona che lavora, com’è per il licenziamento disciplinare).
Un’altra notazione mi sembra importante.
Inteso nei termini sopra descritti, il gmo – comprensivo del repêchage quale nesso causale negativo – costituisce un limite davvero minimale del potere di recesso datoriale, dal momento che richiede solo che il datore rimanga fedele alle proprie libere scelte, attuando effettivamente la riorganzzazione dichiarata e licenziando solo il lavoratore le cui mansioni non siano più utili nella nuova struttura da lui liberamente disposta.
A ben vedere, dunque, nel bilanciamento operato dalla legge – tramite il gmo – fra interesse datoriale a strutturare liberamente la propria organizzazione tecnico–produttiva e interesse del lavoratore alla conservazione dell’occupazione, è sempre il primo a prevalere.
Il limite del gmo – pur inteso in questa accezione minimale – rimane tuttavia imprescindibile alla luce del sistema (interno e sovranazionale ), se si vuole prendere sul serio la posizione della Corte costituzionale, che più volte ha ribadito che l’obbligo di giustificazione del licenziamento costituisce un diritto fondamentale della persona .
3. Il nesso causale negativo fra riorganizzazione e mansioni del lavoratore: repêchage e contenuto dell’obbligazione di lavoro ex art. 2103 c.c. vecchio testo.
Si tratta ora di discutere se le modifiche introdotte dal Jobs Act all’art. 2103 c.c. incidano anche sulla portata del repêchage quale componente del gmo di licenziamento.
Per rispondere a questo interrogativo è necessario fare un passo indietro, interrogandosi sui rapporti fra gmo di licenziamento ex art. 3 l. 604/1966 e art. 2103 c.c. vecchio testo.
Secondo l’opinione preferibile, l’art. 2103 c.c. nella versione previgente, non solo riconosceva al datore, con certi limiti, il potere di variare le mansioni del lavoratore rispetto a quelle di assunzione (o a quelle successivamente assegnate), ma al contempo fissava il contenuto dell’obbligazione di fare del lavoratore ed in conseguenza segnava i confini della cooperazione creditoria all’adempimento della prestazione .
In particolare, in conseguenza dell’integrazione del contratto ad opera dell’art. 2103 c.c. (ex art. 1374 c.c.) doveva ritenersi che l’obbligo di fare assunto dal lavoratore non includesse solo le mansioni di assunzione, ma anche quelle professionalmente “equivalenti” alle ultime effettivamente svolte disponibili nell’organizzazione esistente (ed altresì – secondo l’orientamento giurisprudenziale consolidatosi, in parte derogatorio rispetto al divieto di demansionamento contenuto nella norma – anche le mansioni inferiori con riferimento alle quali il lavoratore possedesse la professionalità richiesta e che fossero all’atto del licenziamento vacanti, cosicché nessuna modifica organizzativa era richiesta al datore).
Nel raggio di tali mansioni – che costituivano appunto oggetto dell’obbligazione del lavoratore –, il datore era poi onerato dell’esercizio del proprio potere di specificazione della mansione concretamente dovuta , in modo da consentire al lavoratore di adempiere al proprio obbligo di fare eseguendo una delle mansioni oggetto dell’obbligo lavorativo.
Se è vero che l’art. 2103 c.c. vecchio testo, così inteso, fondava un autonomo onere di “ripescaggio”, distinto dal “ripescaggio” quale limite al potere di licenziamento ex art. 3, l. 604/1966 , al contempo la norma codicistica, concorrendo ad individuare il debito del lavoratore (ex art. 1374 c.c.), nel far ciò inevitabilmente disegnava altresì il perimetro del repêchage di licenziamento per gmo.
Il test del repêchage, infatti, quale nesso causale negativo fra riorganizzazione e licenziamento del lavoratore non poteva che prendere in considerazione tutte le mansioni dovute dal lavoratore – e non solo quelle al momento esercitate – e fra esse, in virtù di legge, tanto le mansioni individuate dal contratto quanto quelle professionalmente “equivalenti” (ed altresì inferiori con riferimento alle quali il lavoratore possedesse la professionalità richiesta) che risultassero all’atto del licenziamento non coperte.
In altre parole, l’art. 2103 c.c., nel segnare l’area del debito del lavoratore, contribuiva con ciò stesso anche a fissare l’ambito del repêchage (o il controllo sul nesso casuale negativo) nel licenziamento per gmo: solo nel caso in cui nessuna delle mansioni dovute dal lavoratore fosse disponibile nella struttura predisposta dal datore il nesso fra riorganizzazione e mansioni avrebbe potuto ritenersi sussistente (e con esso, in quanto suo elemento inscindibile, altresì il gmo di tipo economico nel suo complesso).
Del resto quale ragione tecnico–organizzativa di licenziamento avrebbe potuto sussistere ove almeno una delle mansioni dovute dal lavoratore fosse invece risultata vacante nella nuova organizzazione disposta dal datore di lavoro?
Se dunque l’art. 2103 c.c. vecchio testo concorreva (individuando i contenuti del debito del lavoratore) a disegnare con ciò i confini del repêchage di licenziamento, deve tuttavia essere segnalata una particolarità derivante dagli specifici contenuti della versione allora vigente della norma codicistica: le mansioni da considerare per il test di repêchage – in quanto appunto oggetto dell’obbligo del lavoratore – erano solo quelle professionalmente “equivalenti” (e cioè quelle con riferimento alle quali il lavoratore possedesse già tutte le competenze richieste).
La lettura congiunta dell’art. 3 l. 604/1966 e dell’art. 2103 c.c. escludeva, pertanto, che sul datore – sia nella fase fisiologica del rapporto (con riferimento all’estensione dell’onere di cooperazione all’adempimento), sia nella fase estintiva (con riferimento al limite del gmo di licenziamento) – gravasse – al fine di mantenere in servizio il lavoratore – un qualche obbligo di modificare la struttura organizzativa (anche personale ) da lui liberamente predisposta .
Oggi però lo scenario è cambiato. Infatti le modifiche dell’art. 2103 c.c. introdotte dal Jobs Act determinano un importante impatto in primis sulla estensione del debito del lavoratore e di riflesso sulla struttura del repêchage di licenziamento per gmo.
4. Segue: repêchage e contenuto dell’obbligazione di lavoro ex art. 2103 c.c. nuovo testo.
Come anticipato il nuovo testo dell’art. 2013 c.c. amplia in modo significativo il raggio del potere datoriale di specificare le mansioni dovute dal lavoratore (ius variandi) e di riflesso – giusta l’impostazione dottrinale che si ritiene preferibile e di cui si è dato conto nel paragrafo che precede – ridisegna anche (ex art. 1374 c.c.) l’area del debito del lavoratore, che è esteso fino a ricomprendere: in orizzontale non più le sole mansioni professionalmente “equivalenti”, ma tutte le “mansioni riconducibili allo stesso livello e categoria legale di inquadramento delle ultime effettivamente svolte” (comma 1) la cui individuazione è rimessa – in modo implicito – alla contrattazione collettiva; in verticale – in linea con l’orientamento già consolidatosi in giurisprudenza – “in caso di modifica degli assetti organizzativi aziendali che incide sulla posizione del lavoratore” le “mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore, purché rientranti nella medesima categoria legale” (comma 2).
Il potere del datore di adibire il lavoratore all’una o all’altra delle mansioni dovute costituisce del pari – come in precedenza – onere di cooperazione all’adempimento.
Tale onere tuttavia riveste oggi rispetto al passato – almeno potenzialmente – un contenuto assai più esteso, perché le tabelle di inquadramento poste dal contratto collettivo (a cui la norma codicistica nella sostanza rinvia) in uno stesso livello possono includere (ed in effetti spesso in concreto includono) mansioni per svolgere le quali sono richieste competenze, abilità, conoscenze molto diverse fra loro, che è possibile non siano tutte al momento in possesso del lavoratore, il quale però è gravato comunque per legge dell’obbligo di svolgerle ove il datore lo richieda.
Proprio per questo – per rendere tutte le mansioni cui il lavoratore si obbliga possibili (art. 1346 c.c.) – l’art. 2103, comma 3, c.c. pone in capo al datore un obbligo accessorio di formazione, che sorge in conseguenza dell’adibizione a quelle nuove mansioni per le quali il lavoratore non possegga al momento adeguata competenza, obbligo che – in virtù di una clausola generale – opera nei casi e nei limiti in cui si dimostri “necessario”.
Ma se così stanno le cose l’abbandono della “equivalenza professionale” – quale limite dello ius varandi ed al contempo criterio ex lege di individuazione del contenuto dell’obbligazione lavorativa – comporta come conseguenza un cambiamento significativo: in tutti i casi in cui l’inquadramento previsto dal contratto collettivo contempli, nello stesso livello di provenienza (o nel livello inferiore), mansioni per le quali il lavoratore non possiede allo stato la necessaria competenza l’onere datoriale di cooperazione (in virtù dell’obbligo accessorio di formazione) si trasforma in un onere di modificare “qualitativamente” l’organizzazione personale esistente (con i costi che ciò comporta) adeguando/aggiornando le competenze professionali possedute dal lavoratore.
Certo nell’intento del Jobs Act l’ampliamento del raggio dello ius variandi realizzato dal nuovo art. 2103 c.c. – e con esso del debito del lavoratore e del connesso onere di cooperazione all’adempimento del datore di lavoro – avrebbe dovuto trovare argine e razionalizzazione nella contrattazione collettiva. Quest’ultima – preso atto del nuovo ruolo assegnato dalla legge all’inquadramento (non solo quello di fissare la retribuzione, ma anche di definire l’area del debito del lavoratore) – avrebbe infatti dovuto procedere alla revisione dei criteri di classificazione, così assicurando opportuna flessibilità alle imprese, ma al contempo individuando opportuni percorsi di sviluppo professionale per i lavoratori ed altresì contenuti e limiti dell’obbligo accessorio di formazione.
Ciò tuttavia è avvenuto solo in alcuni casi .
La giurisprudenza si è dunque trovata in un impasse. Infatti adottare una lettura coordinata dell’art. 2103 c.c. nuovo testo e dell’art. 3 l. 604/1966 – come invece a mio parere è necessario alla luce del sistema – avrebbe ristretto in modo significativo l’ambito del licenziamento per gmo di tipo economico e posto in capo al datore di lavoro un obbligo accessorio di formazione dai contorni (e costi) indeterminati.
I giudici hanno dunque preferito una lettura che non coordina, ma separa le due norme. Secondo l’orientamento prevalente il repêchage di licenziamento per gmo rimane circoscritto come in passato – pur in carenza di una norma positiva in tal senso – alle sole mansioni professionalmente “equivalenti” rispetto a quelle svolte dal lavoratore (o a quelle immediatamente inferiori) con riferimento alle quali egli già possegga le competenze necessarie. L’obbligo accessorio di formazione previsto dall’art. 2103 c.c. rimane così confinato alla sola ipotesi di esercizio discrezionale dello ius variandi in corso di rapporto.
A mio parere tale lettura non può essere condivisa.
Se infatti si conviene con l’idea per cui il repêchage nel licenziamento per gmo costituisce il nesso causale negativo fra riorganizzazione disposta dal datore e mansioni dovute dal lavoratore (così da verificare se effettivamente quelle mansioni cui il lavoratore si è obbligato non sono più utili nella nuova struttura organizzativa disposta dal datore) le mansioni da prendere a riferimento non possono essere arbitrariamente limitate solo ad alcune fra quelle dovute (cioè appunto le mansioni professionalmente “equivalenti”), ma devono essere tutte quelle che rientrano nell’obbligo assunto dal lavoratore (siano esse previste dal contratto o dovute ex art. 2103 c.c. nuovo testo).
Nel caso che nello spettro di tali compiti – in virtù delle tabelle classificatorie del contratto collettivo – rientrino anche mansioni per le quali il lavoratore necessita di acquisire nuove competenze e abilità, il nesso causale negativo si arricchisce dell’obbligo accessorio di formazione ex art. 2103 c.c. In tal modo il gmo di licenziamento in virtù di legge si trasforma in un vero e proprio obbligo per il datore di trasformare “qualitativamente “ l’organizzazione personale esistente (formando, appunto, il lavoratore).
4. Conclusione.
Le conclusioni raggiunte nel paragrafo che precede denotano come il nuovo testo dell’art. 2103 c.c. – espandendo da una parte l’area del debito del lavoratore e dall’altra il raggio ed i contenuti del repêchage – abbia spostato nel caso del licenziamento per gmo il punto di bilanciamento fra libertà di impresa e “stabilità al lavoro”. Ma con una particolarità: il punto esatto del bilanciamento – cioè la latitudine del “ripescaggio” – non è definito dalla legge una volta per tutte, ma è rimesso alle determinazioni del contratto collettivo tramite la definizione dell’inquadramento.
In definitiva nel nuovo scenario è il contratto collettivo che, individuando l’area delle mansioni da collocare sullo stesso livello, è deputato a segnare il bilanciamento fra i contrapposti interessi delle parti.
Si tratta a parere di chi scrive di una soluzione ragionevole: rimettendo al contratto collettivo l’esatto punto di bilanciamento fra i contrapposti interessi, vengono responsabilizzati i soggetti collettivi, gli unici in grado di intercettare i bisogni dell’impresa, di assecondarne le trasformazioni ed al contempo di valutare in qual misura anche il datore di lavoro, attore di quella trasformazione, ne debba sopportare oltre che i benefici i costi.