TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA
Il rilievo delle posizioni vacanti “poco dopo” il licenziamento: il principio di diritto espresso da Cass. 8 maggio 2023, n. 12132
Prendo le mosse da Cass. 8 maggio 2023, n. 12132, inedita a quanto consta ma subito circolata tra gli addetti ai lavori anche grazie ai social network professionali, la quale, all’esito di una vicenda processuale articolata (che aveva già visto la riforma in cassazione di una prima sentenza della Corte d’Appello di Milano e successivo procedimento di rinvio ), ha confermato la sentenza d’appello che aveva affermato l’illegittimità, per violazione dell’obbligo di repêchage, di un licenziamento intimato per ragioni organizzative, sulla base del rilievo che «al momento dell’intimazione del licenziamento … due dipendenti che svolgevano mansioni analoghe avevano rassegnato le dimissioni con un termine di preavviso destinato a scadere in un arco temporale brevissimo dall’intimazione del licenziamento e con necessità di provvedere alla loro sostituzione».
Secondo la Corte, tale circostanza assume rilievo in quanto, anche se al momento del licenziamento le posizioni lavorative valutabili ai fini del repêchage erano tutte coperte (in disparte la vexata quaestio relativa all’estensione dell’obbligo a mansioni diverse e/o inferiori, oggetto dei contributi di altri interventori), buona fede e correttezza imponevano di valutare la possibilità che altre posizioni “utili” si liberassero in futuro.
La Corte enuclea quindi il seguente, inedito, principio di diritto: «il datore di lavoro, nel valutare le possibilità di ricollocazione del lavoratore prima di procedere al suo licenziamento, de[ve] prendere in esame anche quelle posizioni lavorative che, pur ancora coperte, si renderanno disponibili in un arco temporale del tutto prossimo alla data in cui viene intimato il recesso», con l’ulteriore precisazione che «Quando, come nel caso in esame, tale circostanza sia ben nota al datore di lavoro questi ne deve tenere conto diversamente risultando il suo comportamento pur formalisticamente corretto in contrasto con i principi di correttezza e buona fede».
Ci dice la Corte, insomma, che la valutazione della sussistenza delle possibilità di riutilizzo della professionalità del lavoratore non deve avvenire in una prospettiva statica, sulla base di una “fotografia” dell’organizzazione aziendale scattata nell’istante del recesso, bensì in una prospettiva dinamica che apprezzi la mutevole organizzazione stabilita dal datore di lavoro nel moto costante che la caratterizza.
Il rispetto del repêchage, insomma, si può compiutamente valutare solo guardando tutto il “film”.
Il “grande ritorno” dei principi di buona fede e correttezza
Ciò che assume un particolare rilievo nell’ambito del principio di diritto enucleato è l’esplicito e reiterato riferimento ai canoni generali della correttezza e della buona fede, che paiono costituire nell’iter logico argomentativo della decisione il principale fondamento.
Ciò peraltro non era affatto necessitato, posto che in quel caso al medesimo risultato dell’illegittimità del licenziamento si poteva pervenire verificando che quelle due posizioni resesi vacanti fossero state coperte dopo il licenziamento, tradizionale elemento che comprova la violazione dell’obbligo .
L’accento sulle clausole generali di buona fede e correttezza in ambito di licenziamenti economico-organizzativi pare rappresentare un elemento di novità, posto che da sempre il repêchage è stato visto, in dottrina e in giurisprudenza, come espressione di principi e valori diversi da quelli espressi dalle regole di buona fede e correttezza che devono presiedere all’instaurazione (art. 1337 c.c.) e all’esecuzione di ogni rapporto obbligatorio (artt. 1175 e 1375 c.c.), così come all’interpretazione della relativa disciplina (art. 1362 c.c.).
E infatti il fondamento teorico del repêchage –in disparte la querelle circa la sua natura di elemento interno o esterno alla fattispecie del g.m.o. – era stato variamente rinvenuto in parametri giuridici diversi.
Per anni la giurisprudenza , da ultimo anche quella costituzionale , è stata solita ricondurre il repêchage alla lettura tradizionale del licenziamento quale extrema ratio, sull’onda della ricostruzione svolta dai primi commentatori dell’art. 18 St. lav. , mentre con maggiore sistematicità la dottrina vi aveva piuttosto scorto un riflesso del nesso di causalità che integra il g.m.o., del quale concreterebbe l’aspetto negativo (nel senso che se sussiste una posizione vacante cui adibire il lavoratore, non sussiste un adeguato nesso causale tra la soppressione della posizione lavorativa e il recesso), ovvero, secondo una lettura alternativa, una conseguenza di un’interpretazione del contratto di lavoro che ne estende l’oggetto all’intera gamma delle mansioni equivalenti a quelle di assunzione .
In questo senso, l’enfasi sul collegamento tra repêchage e principi di correttezza, ancorché non del tutto inedito , pare assai significativo anche considerato che buona fede e correttezza, quali clausole generali per antonomasia, erano da molti anni in buona parte usciti per così dire dall’”armamentario” della giurisprudenza del lavoro, molto attenta (forse troppo) a non esorbitare in sindacati discrezionali o di merito sulle scelte organizzative del datore di lavoro, ritenute insindacabili in considerazione di precisi limiti ordinamentali, a maggior ragione dopo che l’art. 30 della l. 183/2010 aveva espressamente previsto che «in tutti i casi nei quali le disposizioni di legge nelle materie di cui all’art. 409 c.p.c. … contengano clausole generali … il controllo giudiziale è limitato esclusivamente, in conformità ai principi generali dell’ordinamento, all’accertamento del presupposto di legittimità e non può essere esteso al sindacato di merito sulle valutazioni tecniche, organizzative e produttive che competono al datore di lavoro».
Non è un caso che gli studi specificamente destinati alle applicazioni lavoristiche dei principi di buona fede e correttezza siano effettivamente ormai piuttosto datati (ancorché, a ben vedere, ancora estremamente attuali) e già consapevoli della crescente “diffidenza” verso tali clausole generali , richiamate in giurisprudenza spesso solo incidentalmente e ad adiuvandum , secondo una linea di tendenza che negli anni a seguire avrebbe segnato il progressivo “irrigidimento” dell’ordinamento lavoristico e lo sfavore verso le norme “aperte” , che nella stagione del Jobs Act avrebbe poi raggiunto il suo apice.
Del resto, la vulgata tra gli addetti ai lavori notoriamente non vede di buon occhio le tesi difensive che facciano leva su pretese violazioni dei canoni buona fede e correttezza, considerate spesso e volentieri il refugium peccatorum di chi sia privo di migliori argomenti.
Ancora attualissime, sul punto, le considerazioni di chi aveva lucidamente osservato oltre mezzo secolo addietro che «Chi abbia esperienza giudiziale del diritto sa che non esiste, praticamente, decisione il cui risultato precettivo sia stato determinato dai criteri di buona fede, correttezza, diligenza, i quali vengono solo incidentalmente richiamati, talora quasi a finale conforto di una soluzione formalisticamente argomentata, e senza consapevolezza che quei principi o clausole generali non hanno senso alcuno se non vengono puntualmente riempiti di un loro peculiare contenuto, commisurato alla realtà del particolare momento storico» .
La valorizzazione dei principi di buona fede e correttezza nelle tendenze dell’ordinamento: il repêchage come espressione del principio di conservazione del contratto.
Parrebbe quindi a chi scrive che la giurisprudenza di legittimità inviti oggi l’interprete a un maggiore apprezzamento dei principi generali di buona fede e correttezza, anche a fronte di un «comportamento pur formalisticamente corretto».
In punto di repêchage, ne deriva che esso diventa qualcosa di più che (solo) una semplice verifica della congruità del nesso causale tra soppressione della posizione e licenziamento, configurando piuttosto (anche) un onere di collaborazione del creditore della prestazione lavorativa, che prima di interrompere il rapporto dovrà verificare se tale prestazione sia davvero inutile o se non possa invece essere utilmente spesa, con gli opportuni adattamenti, nell’ambito della propria mutevole organizzazione, pure insindacabilmente definita dall’imprenditore.
Il repêchage si colloca così nella prospettiva della modificazione conservativa del rapporto contrattuale, in maniera non dissimile da quanto l’ordinamento civile predilige, in generale, nei casi di sopravvenienze che impattino sul vincolo obbligatorio legittimandone la risoluzione: vale a dire gli istituti dell’impossibilità e dell’eccessiva onerosità sopravvenuta (istituti non a caso richiamati sin dal titolo di uno dei lavori monografici in materia di licenziamenti per ragioni oggettive ), che prevedono tuttavia meccanismi di conservazione (si pensi alla riduzione ad equità prevista dall’art. 1467 c.c.).
In questo senso, l’orientamento si ricollega alle evoluzioni della civilistica contemporanea che, tanto più a fronte degli eventi eccezionali del 2020, proprio sulla scorta di una valorizzazione dei canoni di correttezza e buona fede è arrivata a rivoluzionare il diritto dei contratti, arrivando a configurare inediti obblighi di rinegoziazione, quale meccanismo di gestione delle sopravvenienze privilegiato rispetto ai rimedi risolutori pure espressamente previsti dall’ordinamento .
In questo senso, anche l’aspetto che ci occupa pare rappresentare un ulteriore tassello di quel processo evolutivo che ha visto la civilistica “appropriarsi” degli strumenti di tutela del contraente debole tipici del diritto del lavoro delle origini, che oggi possono tornare a un diritto del lavoro che gli anni hanno irrigidito grazie agli sviluppi di un diritto civile ormai di “nuova” generazione .
Ma se davvero il repêchage è (anche) espressione degli obblighi di collaborazione che trovano fondamento nei canoni generali della correttezza e della buona fede e del principio di conservazione del contratto, ne derivano una serie di conseguenze quanto alla concreta operatività dell’istituto.
Primo corollario: l’estensione dell’obbligo e la necessità di declinare il repêchage al plurale.
Il primo corollario è che il rilievo dei canoni di correttezza e buona fede nella valutazione del repêchage fornisce ulteriori argomenti a supporto degli orientamenti, emerse in dottrina e in giurisprudenza, che hanno progressivamente esteso l’ambito del repêchage, dapprima –e sulla base di un percorso frastagliato che ha risentito della riscrittura dell’art. 2103 c.c.– alle mansioni inferiori , arrivando poi a configurare l’obbligo di predisporre un percorso formativo in vista dell’adibizione a mansioni di contenuto professionale diverso e non immediatamente fungibile , e quello di offrire un reimpiego mediante diverse tipologie contrattuali , il tutto con una valutazione da effettuarsi su tutte le sedi dell'attività aziendale e su tutte le società del gruppo caratterizzato da unicità d’impresa , con il (solo) limite di non costringere il datore di lavoro a modificare la propria organizzazione per creare una posizione di lavoro alternativa.
A fronte di un effettivo e innegabile ampliamento della posizione debitoria del datore di lavoro, si potrebbe rilevare che ormai quando si parla di ripescaggio si allude in realtà a due aspetti concettualmente diversi, potendosi distinguere tra il repêchage a posizioni vacanti relative a mansioni di contenuto professionale compatibile – che rappresenta semplicemente un riflesso del nesso causale e che non impone alcun obbligo ulteriore al datore di lavoro– e un repêchage in senso più ampio, che, anche attraverso la portata integratrice dei principi di buona fede e correttezza conduce alla configurazione di ulteriori e diversi obblighi sostanziali a carico del datore di lavoro.
Si tratta del resto di una distinzione conosciuta all’ordinamento francese, che conosce sia il reclassement alle mansioni equivalenti, il cui inadempimento indica l’assenza della cause réelle et sérieuse richiesta dalla legge, sia l’adaptation, che esprime l’ulteriore obbligo datoriale di adoperarsi per consentire il reimpiego in una posizione diversa .
In tale prospettiva, l’indistinto utilizzo dei termini “obbligo” e “onere”, in riferimento al repêchage, riflette il fatto che mentre il repêchage del primo tipo, quale corollario delle ragioni organizzative, si limita in effetti a integrare un onere probatorio (inerente al nesso di causalità), il repêchage del secondo concretizza, accanto agli oneri probatori, anche veri e propri obblighi sostanziali ulteriori.
Finiscono insomma, con buona pace di chi si duole di “licenziamenti impossibili” , per tornare attuali le parole di chi ammoniva –con formula che pure oggi nessuno oserebbe seriamente predicare avanti a un Giudice del Lavoro– che «è legittimo (valido) il solo licenziamento non socialmente inopportuno, il licenziamento che residua alle misure –repêchage, corsi di addestramento, tecniche di ristrutturazione del lavoro– in cui si concreta la socialità della politica imprenditoriale: in una parola, il licenziamento extrema ratio» .
Secondo corollario: le posizioni vacanti “poco prima” il recesso.
Dall’affermazione del principio per cui il datore di lavoro deve prendere in esame anche le posizioni lavorative che, “pur ancora coperte”, si renderanno disponibili “poco dopo” il licenziamento, deriva, ad avviso di chi scrive, la necessità di ritenere che nella valutazione del repêchage debbano essere prese in considerazione –specularmente– anche le posizioni che “pur già coperte”, fossero disponibili “poco prima” il licenziamento.
In altri termini, risulterà illegittimo per violazione dell’obbligo di repêchage un recesso intimato poco dopo la copertura, mediante nuove assunzioni, di posti che avrebbero potuto essere ricoperti dal lavoratore (successivamente) licenziato.
La considerazione merita in realtà un distinguo, occorrendo differenziare l’ipotesi in cui la riorganizzazione che ha determinato la soppressione della posizione lavorativa fosse conosciuta o conoscibile nel momento in cui si è provveduto a effettuare le nuove assunzioni, dal caso in cui tale riorganizzazione si collochi in un momento successivo.
Nel primo caso, sulla falsariga del principio di diritto affermato dalla cassazione, si realizza ad avviso di chi scrive una fattispecie per cui il comportamento del datore di lavoro «pur formalisticamente corretto» si pone in contrasto con i principi di correttezza e buona fede: il licenziamento era evitabile, in quanto il lavoratore licenziato ben avrebbe potuto essere rioccupato, circostanza nota al datore di lavoro.
Ovviamente in questo caso il carattere della “conoscenza e/o conoscibilità” non attiene a un piano psicologico-individuale, bensì a un piano organizzativo-collettivo: una buona organizzazione è quella che, in una prospettiva di salvaguardia dei fini sociali (art. 42 Cost.) dell’iniziativa economica privata, adotta modelli che consentano di salvaguardare la continuità occupazionale dei propri addetti, compatibilmente con l’assetto organizzativo insindacabilmente adottato dall’imprenditore.
Diverso è il caso in cui la riorganizzazione, per quanto di poco successiva alla copertura di posizioni vacanti mediante nuove assunzioni, non potesse dirsi in precedenza conosciuta né conoscibile.
Qui ad avviso di chi scrive il rilievo dei principi di correttezza e buona fede si dovrebbe esplicare su un piano diverso, imponendo sostanzialmente di applicare lo standard anglosassone del last in, first out, che nell’ordinamento nazionale trova espresso riconoscimento, nella disciplina dei licenziamenti collettivi, nella valorizzazione del criterio di scelta dell’anzianità di servizio (art. 5, l. 223/1991), che attraverso il tramite proprio dei principi di buona fede e correttezza trova spazio anche in alcuni casi di licenziamenti individuali per g.m.o.
E infatti, nei casi di sussistenza di una pluralità di posizioni fungibili all’interno del complesso aziendale, secondo la giurisprudenza non è sufficiente l’accertamento dell’effettività della riorganizzazione e della soppressione della posizione, dovendosi giustificare l’individuazione del lavoratore licenziato sulla base di criteri trasparenti e non arbitrari, che possono individuarsi sulla base dell’applicazione analogica dei criteri di scelta di cui all’art. 5 l. 223/1991 , ovvero sulla base della loro applicazione mediata attraverso il tramite delle clausole generali di correttezza e buona fede .
In tal caso, tuttavia, la violazione non condurrebbe, secondo le ultime indicazioni della giurisprudenza costituzionale, all’applicazione della tutela reintegratoria, non trattandosi di una vera e propria violazione dell’obbligo di repêchage .
Terzo corollario: il repêchage nel licenziamento dirigenziale.
Un ulteriore effetto della rilettura del repêchage quale espressione dei canoni generali della correttezza e della buona fede si riverbera, ad avviso di chi scrive, sui principi in materia di licenziamento dirigenziale.
È noto infatti che, per giurisprudenza consolidata l’istituto non si applica al lavoro dirigenziale: «in caso di licenziamento del dirigente d'azienda per esigenze di ristrutturazione aziendale è esclusa la possibilità del repêchage in quanto incompatibile con la posizione dirigenziale del lavoratore, assistita da un regime di libera recedibilità del datore di lavoro» , e ciò a meno che, secondo una certa lettura, la lettera di licenziamento motivi espressamente il recesso anche in relazione all’impossibilità di ricollocare altrove il dirigente .
E infatti, per le note ragioni che non è certo questa la sede per approfondire, è noto che la giustificatezza del licenziamento dirigenziale è cosa ben diversa dal giustificato motivo di cui alla l. 604/1966 che da sempre esclude (art. 10) i dirigenti dal suo ambito di applicazione soggettivo.
Nondimeno, non si può non rilevare che la nozione di giustificatezza, concetto invero sfuggente solo richiamato dai contratti collettivi dirigenziali ai fini dell’attribuzione dell’indennità supplementare, è stata ricostruita proprio sulla falsariga del criterio fondamentale del rispetto dei canoni della correttezza e della buona fede nell’esecuzione del contratto (art. 1375 c.c.), affermandosi ripetutamente che «Il licenziamento ingiustificato del dirigente si verifica tutte le volte in cui il datore di lavoro eserciti il proprio diritto di recesso violando il principio fondamentale di buona fede che presiede all'esecuzione dei contratti (art. 1375 c.c.)» .
Sennonché, una volta che il repêchage viene a essere ricollegato proprio ai canoni di correttezza e buona fede, diventa assai più difficile affermare che al licenziamento dirigenziale non si accompagni alcun obbligo di ripescaggio, faticandosi in particolare a ritenere che in presenza di una evidente possibilità di ricollocazione del dirigente, il datore di lavoro non sia tenuto, in adempimento degli obblighi di correttezza e buona fede, a considerare la possibilità di consentire tale ricollocazione ovvero, in caso di esito negativo di tale valutazione, a esplicitare le ragioni che non la rendono praticabile.
In effetti, pur volendo salvare l’affermazione giurisprudenziale dell’inapplicabilità al lavoro dirigenziale del repêchage, non si può escludere che almeno in taluni casi, la mancata valutazione dell’evidente possibilità di utile ricollocazione del dirigente licenziando non integri una violazione di quei principi di correttezza e buona fede che presiedono alla verifica della giustificatezza del recesso, ovviamente a mente della disciplina contrattual-collettiva applicabile e con le conseguenze (meramente indennitarie) in essa previste.
Conclusione: chi ha paura delle clausole generali?
L’esame del “micro-argomento” prescelto costringe infine chi scrive ad abbandonare il sano proposito di non esorbitare dal tema e a svolgere in conclusione una riflessione circa le potenzialità e i rischi insiti nell’utilizzo delle clausole generali, quali certamente sono buona fede e correttezza, nella regolamentazione del rapporto di lavoro.
Dal dibattito scaturito anche in occasione della tavola rotonda e dai confronti con amici e colleghi, non mancano le voci di chi si pone, vuoi in termini interpretativi vuoi in una prospettiva di politica del diritto, in una posizione assai critica verso letture estensive del repêchage e, più in generale, verso le incertezze derivanti dall’utilizzo di clausole generali quali limiti esterni all’iniziativa economica privata.
Naturalmente è ben legittimo dissentire dalla valutazione relativa all’opportunità che il diritto del lavoro si affidi a clausole generali, e anzi il legislatore politico, per una lunga stagione, ha indirizzato i propri interventi verso la compressione degli spazi di discrezionalità dell’interprete, anche sull’onda di pur comprensibili e in parte condivisibili richieste di maggior certezza da parte degli operatori economici.
Nondimeno, nella valutazione di opportunità circa gli spazi di manovra che debbano essere concessi all’interprete (e, in ultima istanza, al Giudicante), residua il dilemma di fondo –carico di respiro politico– se il diritto debba essere (anche) strumento di trasformazione della realtà.
Il diritto del lavoro è stato, storicamente, veicolo di prodigiose trasformazioni che hanno modificato la società –ad avviso di chi scrive in senso progressivo, per mutuare il noto riferimento kantiano– e ciò anche per la volontà dei suoi interpreti, che hanno saputo utilizzare le clausole generali per realizzare «un’apertura verso le nuove esigenze di una società in trasformazione [...] e [...] l’ingresso nel sistema giuridico di contenuti meta giuridici» .
L’evoluzione del diritto vivente, in questo senso, richiede la presenza di clausole generali, purché accompagnate da parte degli interpreti un sufficiente grado di buona volontà, di coraggio e, perché no, di fantasia, affinché quelle clausole generali siano riempite di contenuto, e rapportate alle specificità di ciascun caso concreto.
Certo si introducono così nel sistema degli elementi di incertezza, non tali tuttavia, ad avviso di chi scrive, da rendere preferibile un’applicazione piana e formalistica delle norme, tale da trasformare il giudice in mero funzionario.
Del resto a chi lamenti la sussistenza di eccessivi margini di incertezza vale la pena di ricordare che alcuni dei sistemi giuridici più evoluti e raffinati del mondo, da qualche secolo a questa parte, non hanno timore di affidare le decisioni più delicate all’imprevedibile pronunciamento di non più di una dozzina di liberi cittadini, del tutto privi di nozioni giuridiche ed estratti a caso.