testo integrale con note e bibliografia
1. Il principio di effettività e le tecniche di tutela del contraente-contendente debole nel licenziamento per giustificato motivo oggettivo, anche attraverso il repêchage, la distribuzione degli oneri probatori, la graduazione delle sanzioni.
L’argomento dei rimedi sanzionatori si colloca in una sorta di sezione aurea del diritto civile e processuale, in quanto -insieme al sistema degli oneri probatori- integra il moto di oscillazione continua, orientato a condurre il sistema ad un punto di equilibrio il più possibile armonico nella direzione del principio di effettività. Il tema si intreccia infatti strettamente con l’elaborazione, prevalentemente dottrinale ma anche giurisprudenziale, sviluppatasi in particolare a partire dagli anni ’70 e ’80 del secolo scorso, relativa al principio di effettività inteso come complesso di norme e strumenti che mirano a garantire l’efficace e concreta attuazione dei diritti.
L’obiettivo irrinunciabile per cui “il processo deve dare al titolare di una situazione soggettiva tutto quello e proprio quello che il diritto sostanziale riconosce” , e un assetto codicistico che aveva elevato “il momento della tutela giuridica a momento qualificante della vita dei diritti soggettivi” sono gli elementi concorrenti che hanno guidato la dottrina nel tentare di comporre le tradizionali distanze tra diritto sostanziale e processo. Ogni campo del diritto privato è stato indagato alla ricerca degli strumenti utili a rendere concreto ed attivo un principio di effettività della tutela dei diritti, non espressamente sancito nelle fonti interne, ma sempre ricavabile, ben prima della modifica dell’art. 111 Cost., dall’art. 24 Cost. . Il campo di controllo, assolutamente complesso ed a tratti insidioso, che la tutela dei diritti deve attraversare per essere realizzata è la prova in giudizio dei fatti costitutivi del diritto. Diritto sostanziale e emersione dello stesso nel contesto processuale non possono appartenere ad intangibili piani paralleli; perciò, vanno strutturati dei punti di intersezione qualificati, orientati alla concreta realizzabilità della tutela dei diritti.
Il principio di effettività è dunque elemento immanente ma non immutabile, con declinazioni variabili: deve sempre essere armonizzato con il tempo, con le vicissitudini normative ed interpretative poiché è indispensabile tener conto della “complessità di un contesto politico, sociale e culturale, che è necessariamente l’energia ordinante dell’ordinamento, il logos” .
Seppure nel processo del lavoro non si rinviene una specifica previsione normativa di richiamo al principio di effettività , la giurisprudenza non sembra dubitare che al principio medesimo occorra guardare per realizzare una maggiore aderenza tra fatto e diritto , tra esigenze del singolo caso e struttura rigida della fattispecie, tra diritto riconosciuto in astratto e concreta protezione dello stesso . Una particolare conformazione assume il principio di effettività nel campo del diritto del lavoro, risentendo tale campo -ed anzi essendo specificamente qualificato- della esigenza di tutela della parte debole nel mercato e nel rapporto contrattuale. L’obiettivo è spesso affidato a tecniche normative, a volte con correttivi interpretativi, di distribuzione degli oneri probatori, in cui la legge, cioè, stabilisce il soggetto onerato della prova di un fatto decisivo per il giudizio . Attraverso queste tecniche si realizza sul piano processuale la tutela del contraente debole che ispira la specialità stessa del diritto del lavoro rispetto al diritto civile, in funzione di riequilibrio della posizione dei contendenti che sono in posizione ìmpari, in quanto il datore di lavoro si trova in uno stato dominante ed il lavoratore in una condizione economicamente e socialmente più debole .
L'istituto dell’onere probatorio, il corredo delle sanzioni applicabili a fronte dell’atto illegittimo e il rispettivo concreto atteggiarsi nell’ambito della disciplina dei licenziamenti è stato definito “specchio dinamico… ad alta definizione” , e la sintesi espressiva è efficace, poiché effettivamente è il visore nel quale si riflette quale sia, in un dato tempo, il rilievo politico-giuridico riconosciuto al lavoro ed alla sua stabilità. Guardare dentro questo specchio, alla luce delle riforme del 2012 e 2015, ci rimanda innanzitutto l’immagine di un approccio legislativo (e quindi politico) progressivamente distante dall’obiettivo di fornire al licenziamento illegittimo quella tutela ripristinatoria prima considerata il rimedio principale. All’esito degli interventi di riforma, risulta impostato un impianto strutturale che pone la reintegrazione come strumento del tutto residuale rispetto alla tutela indennitaria ; si tratta di una vera e propria mutazione genetica, che involge anche la questione dell’effettività, attuata mediante una progressione di riforme che passa dalla legge n.92\12 ed approda al d.lgs. n. 23\15, letta dalle Sezioni unite quale «espressione della volontà del legislatore di attribuire alla cd. tutela indennitaria forte una valenza di carattere generale». Il percorso attraverso le più recenti riforme, introdotte dalla l. n.92\12 e dal d.lgs.23\15, che hanno inciso sull’assetto precedente, rende immediatamente evidente all’interprete che la scelta politico-legislativa di intervento sulla morfologia sanzionatoria abbia inevitabili ripercussioni, certamente consapevoli, sugli obiettivi e sui risultati di tutela.
La regola generale introdotta dal legislatore, soprattutto per il licenziamento cd. economico, risulta(va) dunque quella della “invalidità efficace”, cioè del negozio, pur illegittimo e dunque invalido, comunque idoneo a realizzare il suo effetto (ed obiettivo) principale, cioè la definitiva risoluzione del rapporto di lavoro.
Le modifiche normative, soprattutto da ultimo con il d. lgs. n.23\2015 oltre ad escludere l’effetto ripristinatorio come rimedio principale, relegandolo al ruolo di eccezione, oltre a frammentare e frantumare le tutele sostanziali, hanno introdotto un silenzioso scivolamento dei piani, caricando sul lavoratore -soprattutto nel licenziamento disciplinare- oneri probatori complessi ed insidiosi, anche perché di contenuto quasi indecifrabile.
Tuttavia, come vedremo più avanti, le tensioni ricostruttive e conservative di una parte della dottrina e della giurisprudenza (soprattutto costituzionale) hanno reinvertito lo spostamento del baricentro con conseguenze sul rapporto tra le sanzioni ripristinatorie e quelle risarcitorie che si va inesorabilmente rivelando. E si rivela, come è ovvio, nel campo aperto dei processi dove le regole divengono dinamica e si svelano nei loro effetti.
2. Il repêchage: genesi, nozione, riconduzione all’interno del fatto e conseguenze sull’individuazione della sanzione applicabile. La discrezionalità del giudice nella applicazione della tutela reintegratoria ed il limite dell’eccessiva onerosità sopravvenuta.
Nell’ambito dei licenziamenti cd. economici per giustificato motivo oggettivo, il repêchage, con sintesi descrittiva minima, è l’onere posto a carico del datore di lavoro -che per effetto di una riorganizzazione aziendale, strutturale o funzionale, ritiene un determinato lavoratore in esubero e che intenda dunque rimuoverlo definitivamente dal ruolo soppresso o divenuto inutile- di procedere ad un vaglio generale sulle altre posizioni nello stesso contesto temporale disponibili nell’organigramma aziendale. In attuazione dell’obbligo di repêchage, dunque, l’imprenditore, prima di poter risolvere il rapporto per giustificato motivo oggettivo (ai sensi dell’art. 3, L. n. 604/1966), non può limitarsi a valutare il nesso di causalità tra la riorganizzazione operata e la posizione lavorativa specifica travolta, ma deve sottoporre ad un controllo contestuale tutta la struttura aziendale, al fine di valutare l’esistenza di ulteriori possibilità di collocazione utile del medesimo lavoratore. Laddove la verifica secondaria dia esito positivo e risultino posizioni disponibili, compatibili con il “profilo” (concetto complesso e di contenuto variabile, a seconda delle linee interpretative) del lavoratore, il datore sarà obbligato a conservare il rapporto di lavoro, collocando il dipendente nel diverso posto disponibile.
L’istituto, non espressamente previsto dall'art. 3 l. 604/66, di creazione sostanzialmente giurisprudenziale , è ormai inserito in modo strutturale nel fuoco di indagine sul licenziamento per g.m.o., nonostante sia privo di un esplicito fondamento positivo che risulta invece rintracciabile solo nel campo specifico della disciplina di garanzia del “diritto al lavoro dei disabili”. Infatti, solo nella L. n. 68/1999 compare la previsione testuale per cui l’infortunio e la malattia, quali cause di inidoneità soggettiva rispetto allo svolgimento dei compiti originariamente assegnati al prestatore, “non costituiscono giustificato motivo di licenziamento [ove lo stesso possa essere adibito] a mansioni equivalenti ovvero, in mancanza, a mansioni inferiori” (art. 4, comma 4); nella medesima prospettiva, l’art. 10, L. n. 68/1999 impone che il rapporto di lavoro possa essere risolto soltanto nel caso in cui, “anche attuando i possibili adattamenti dell’organizzazione”, risulti la definitiva impossibilità di reinserire il disabile all’interno dell’azienda (comma 3).
La giurisprudenza ha ormai interiorizzato il concetto del repêchage come verifica strutturale all’indagine sul g.m.o., tanto che le pronunce di merito o di legittimità non percorrono quasi mai la strada ricostruttiva dell’addentellato normativo dal quale ricavare l’obbligo in questione. Del resto, neppure in dottrina, le visioni sono unanimi, essendosi contrapposte, negli anni, ricostruzioni molto diverse : da quelle che vedono il repêchage come soluzione alternativa all’estremo rimedio del licenziamento ; a quelle che lo considerano espressione delle clausole di correttezza e buona fede nell’esecuzione del contratto di lavoro o ancora come risultato del disposto di cui all’art. 2103 c.c., per come novellato dall’art. 13, L. n. 300/1970 ; a quelle infine che lo considerano parte integrante del nesso eziologico con la posizione del lavoratore .
L’elaborazione dottrinale e l’evoluzione giurisprudenziale sul repêchage hanno pian piano costruito un criterio non a struttura lineare ma un modello tridimensionale, cioè uno spazio che non è più strumento “freddo”, cioè statico, ma contiene un criterio di valutazione mobile, dai contenuti variabili. Dunque, occorre indagare e descrivere l’andamento della dimensione e della estensione dell’onere di repêchage, nonché le interazioni tra l’obbligo stesso e lo ius variandi di cui all’art. 2103 c.c.
Ma, ancor prima e con ancora maggior rilievo sul tema che ci occupa, la questione ricostruttiva che ha impegnato gli interpreti, anche per la sua intuibile forza declinatoria sulla tipologia di sanzione applicabile, è stata la collocazione del repêchage rispetto al fatto: la giurisprudenza ha avuto infatti una prima incertezza su quale fosse il momento di emersione e di rilevanza del repêchage, se dovesse essere collocato all’interno o all’esterno degli elementi costitutivi del g.m.o. Si trattava di un’operazione apparentemente di sistemazione teorica dell’istituto ma che svelava immediatamente ricadute di ordine sostanziale sulle conseguenze sanzionatorie. L’opzione inclusiva vedeva il fatto sottostante al licenziamento per g.m.o. come composto, con pari efficacia costitutiva e legittimante, dai due termini dell’endiadi “soppressione del posto - insussistenza di possibili collocazioni alternative”; di contro, l’opzione riduttiva riteneva il fatto giustificativo del licenziamento collegabile al solo elemento fattuale della riorganizzazione e della ragione economica, rispetto al quale la possibile ricollocazione del lavoratore aliunde restava momento successivo ed eventuale, estraneo ed esterno al fatto inteso nel suo nucleo essenziale, rappresentando dunque, in difetto di prova, un profilo di mera illegittimità dell’atto espulsivo .
E’ evidente sul pian degli effetti che l’inclusione dell’obbligo di repêchage nel “fatto” legittimante, quale ulteriore elemento costitutivo alla base del licenziamento per g.m.o., rappresentava l’elemento discretivo decisivo per il riconoscimento della tutela reale poiché la violazione dell'obbligo di ricollocazione del lavoratore, laddove rientrasse nel «fatto posto a fondamento del licenziamento», determinava la (manifesta) insussistenza dello stesso richiesta dal 4° comma dell'art. 18 dello statuto dei lavoratori ai fini della reintegrazione del lavoratore.
La seconda ricostruzione invece mirava a scongiurare un'interpretazione della novella legislativa di sostanziale abrogazione della previsione di applicabilità della tutela indennitaria, poiché anche in caso di inadempimento all’onere di repêchage si declinava una mera ipotesi di fatto sussistente ma illegittimo, idoneo a dar luogo alla sola tutela indennitaria del comma 5 dell’art.18.
La querelle e il contrasto sono stati sostanzialmente risolti e superati in giurisprudenza a partire dalla pronuncia di Cassazione del 2 maggio 2018, n. 10435 che ha accolto la prima soluzione interpretativa ricostruendo l’istituto nel senso che “la legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo presuppone, da un lato, l'esigenza di soppressione di un posto di lavoro, dall’altro, la impossibilità di diversa collocazione del lavoratore licenziato (repêchage), consideratane la professionalità raggiunta, in altra posizione lavorativa analoga a quella soppressa” . Il riferimento normativo incluso nell’espressione pregnante del “fatto” deve intendersi effettuato alla nozione complessiva di giustificato motivo oggettivo, così come elaborata dalla giurisprudenza consolidata.
La ricostruzione ha dunque collocato sul medesimo piano di rilevanza sia la verifica sull’effettività della modifica organizzativa aziendale sia il controllo sull’inesistenza di possibilità di ripescaggio del lavoratore, descrivendo l'obbligo di repêchage come “l'altra faccia della medaglia della causa economica con la quale configura una fattispecie unitaria”.
Con questa lettura si impone dunque al datore di lavoro una valutazione complessiva ed unitaria della situazione dell’azienda: non è sufficiente un’analisi limitata all’area di collocazione del lavoratore da licenziare ma lo sguardo deve essere esteso all’intera compagine aziendale, con valutazione generale e contestuale. Si richiede “un’istantanea a colori” dell’organigramma e\o delle mansioni esistenti in struttura, almeno per tutti i profili astrattamente comparabili con quello fino a quel momento occupato dal lavoratore da licenziare: sul piano delle allegazioni, incombe sul datore la descrizione dei profili professionali esistenti in azienda equivalenti o astrattamente compatibili e la prova, anche indiziaria, dell’indisponibilità degli stessi. L’operazione ri-organizzativa compiuta dal datore non è di per sé sufficiente a costituire il “fatto fondante” del licenziamento. Il fatto presenta un contenuto complesso, incidente su diversi piani ma inscindibile nella sua valutazione unitaria: compiuta la scelta di riorganizzazione che sacrifica le mansioni di un certo lavoratore, il datore deve verificare l’ulteriore utilizzabilità in ciascuna delle ulteriori posizioni compatibili per equivalenza o compatibilità; solo dopo che il controllo dia esito negativo può ritenersi che esista nesso causale tra riorganizzazione e licenziamento. La riorganizzazione è solo il momento iniziale-genetico della fibrillazione che pone a rischio il rapporto di lavoro, un elemento strutturale del fatto con rapporto di parte ad unità: il posto di lavoro è stato soppresso ed il lavoratore non è ulteriormente collocabile né utilizzabile, solo l’insieme dei due elementi compie il fatto giuridico che legittima il provvedimento di recesso.
L’attrazione del repêchage nell’ombrello del fatto, pur aprendo la strada alla tutela in forma specifica, non determinava tuttavia, all’epoca della pronuncia in esame, conseguenze sanzionatorie automatiche. Dalla ricostruzione non discendeva infatti l’applicazione né fissa, né automatica, né scontata della reintegra, poiché il comma 7 dell’art. 18 aveva ancora l’impianto originario con il tenore letterale “Il giudice applica la medesima disciplina di cui al quarto comma del presente articolo nell’ipotesi in cui …. Può altresì applicare la predetta disciplina nell’ipotesi in cui accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustifico motivo oggettivo; nelle altre ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli estremi del predetto giustificato motivo, il giudice applica la disciplina di cui al quinto comma…”.
Dunque, in base alla formulazione in quel momento vigente, il 7° comma dell'art. 18 dello statuto dei lavoratori contemplava e forniva al giudice la mera possibilità di disporre la reintegrazione nel posto di lavoro, escludendo qualsiasi automatismo ed al tempo stesso omettendo di fornire chiare coordinate di selezione. Il sistema legislativo di graduazione delle sanzioni applicabili prevedeva che il giudice che ritenesse evidente la carenza di uno degli elementi costitutivi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo potesse ordinare la reintegrazione nel posto di lavoro; ma evidentemente al potere positivo di disporre la reintegra, faceva da contraltare il simmetrico potere di scegliere la sanzione solo economica.
Ed infatti, indagando sui profili sanzionatori, la giurisprudenza di legittimità riteneva che la norma attribuisse al giudice di merito un ambito di valutazione discrezionale che, mancando una specifica predeterminazione dei criteri utili al suo esercizio, dovesse orientarsi in base ai principi di equità immanenti all'ordinamento, codificati dagli art. 1384 e 2058, 2° comma, c.c., i quali prevedono che, se il rimedio ripristinatorio si rivela eccessivamente oneroso per il debitore, il giudice possa disporre il risarcimento del danno per equivalente in luogo di quello in forma specifica .
Secondo l’interpretazione giurisprudenziale conseguente, l'applicazione della tutela reale richiede, quindi, un ulteriore vaglio giudiziale, condotto alla luce del concetto di eccessiva onerosità al fine di valutare - per la scelta del regime sanzionatorio da applicare - se la tutela reintegratoria sia, al momento di adozione del provvedimento giudiziale, sostanzialmente incompatibile con la struttura organizzativa medio tempore assunta dall'impresa. Una eventuale accertata eccessiva onerosità di ripristinare il rapporto di lavoro può consentire, dunque, al giudice di optare - nonostante l'accertata manifesta insussistenza di uno dei due requisiti costitutivi del licenziamento - per la tutela indennitaria.
La tutela ripristinatoria restava dunque condizionata in senso spesso preclusivo da elementi successivi ed esterni al provvedimento espulsivo, risultando dirimente la conformazione organizzativa assunta dall’azienda nelle more del giudizio ed incidendo in modo rilevante anche i tempi del giudizio stesso.
La prospettiva interpretativa fin qui descritta è stata seguita e confermata dalla successiva giurisprudenza di legittimità, che ribadiva la necessità di un’indagine espressa e motivata sull’eventuale eccessiva onerosità della sanzione ripristinatoria, annullando con rinvio le pronunce che riconoscevano la reintegra senza specifici passaggi motivazionali sulla compatibilità del rimedio con la struttura aziendale nelle more consolidatasi . L'esercizio di tale “potere discrezionale del giudice”, commisurato al principio della “eccessiva onerosità” osservato al momento dell’adozione del provvedimento giudiziale, si riteneva sottratto al sindacato di legittimità, ove sorretto da motivazione completa plausibile .
In sintesi, in questa fase il campo d’intervento della sanzione ripristinatoria, pur ampliato della nozione unitaria del fatto, restava marginalizzato dalla necessità del carattere manifesto dell’insussistenza nonché dal limite esterno dell’eccessiva onerosità sopravvenuta.
3. Un primo punto di inversione nel rapporto tra tutela indennitaria e tutela reintegratoria: gli effetti della pronuncia Corte Cost. 59\2021 sul “può” che diventa “deve”. Il nuovo punto di slittamento: Corte Cost. 125\22 e lo svuotamento dell’aggettivo qualificante dell’insussistenza “manifesta”. Il ripristino del rapporto di regola-eccezione tra reintegra nel posto di lavoro e tutela indennitaria.
Una significativa progressione nella direzione dell’applicabilità generalizzata della tutela ripristinatoria si realizza a seguito dell’intervento della Corte cost. 1° aprile 2021, n. 59, che, nel disattendere espressamente la soluzione accolta dalla giurisprudenza di legittimità e incentrata sull'eccessiva onerosità della reintegra, ha dichiarato incostituzionale, per contrarietà all'art. 3 Cost., l'art. 18, 7° comma, dello statuto dei lavoratori nella parte in cui prevede che il giudice, quando accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, «può altresì applicare» — invece che «applica altresì» — la disciplina di cui all'art. 18, 4° comma, dello statuto dei lavoratori. L’intervento sostitutivo ha eliso ogni margine di discrezionalità precedentemente riconosciuto dalla norma in capo al giudice di merito, per cui la giurisprudenza ha dovuto abbandonare qualsiasi spazio valutativo sull’onerosità della reintegra e sugli aspetti organizzativi intanto assunti dall’azienda.
Nel medesimo contesto la Corte ha delineato una nozione unitaria, in senso giuridico e non materiale, del “fatto” di cui all’art. 18, 7 comma, St. lav. individuando- al punto 5 della parte in diritto- i “presupposti di legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, che è onere del datore dimostrare. Tali sono da intendersi le ragioni inerenti all’attività produttiva, alla organizzazione del lavoro ed al suo regolare funzionamento, il nesso causale che lega il recesso alle scelte organizzative del datore di lavoro e, infine, l’impossibilità di collocare altrove il lavoratore”.
La Corte precisa poi che il rimedio della reintegrazione deve operare quando la manifesta insussistenza riguardi anche uno solo di tali presupposti, posti evidentemente sul medesimo piano di efficacia e rilevanza, in quanto “Tali presupposti, pur nel loro autonomo spazio applicativo, si correlano tutti all’effettività della scelta organizzativa del datore di lavoro, che il giudice è chiamato a valutare senza sconfinare in un sindacato di congruità e opportunità”.
La tutela reintegratoria, dunque, in seguito all'intervento correttivo della Corte Cost. non è più rimedio facoltativo. Il lavoratore dovrà essere reintegrato in ognuna delle ipotesi di manifesta insussistenza dei presupposti di legittimità del g.m.o. ed in particolare la reintegra è vincolata anche nel caso in cui il profilo di manifesta illegittimità riguardi il repêchage omesso.
La giurisprudenza di legittimità successiva all’intervento correttivo ha dunque immediatamente deviato dall’esercizio di discrezionalità in cui si era fin qui cimentata in ordine all'applicazione della tutela reale, assestandosi su massime in base alle quali, ove fosse stata accertata la manifesta insussistenza del fatto, si affermava che andava sempre applicata la sanzione reintegratoria, senza che assumesse alcuna rilevanza la valutazione sulla non eccessiva onerosità del rimedio .
A questo punto dunque il discrimen residuale, utilizzato per orientare i giudici nella scelta tra tutela reintegratoria e tutela indennitaria, rimaneva ancora fissato sul concetto di manifesta insussistenza del fatto . Quindi, il giudice di merito, ai fini dell'individuazione del regime sanzionatorio da applicare, tendeva a verificare se l'insussistenza anche di uno solo degli elementi costitutivi del licenziamento fosse manifesta. Il concetto veniva utilizzato nella motivazione quale criterio a presidio della voluntas legis, ribadendosi la necessità di individuare criteri selettivi dal momento che il legislatore aveva voluto limitare ad ipotesi solo residuali il diritto ad una tutela reintegratoria. Non potendosi che far riferimento al piano probatorio sul quale il datore di lavoro, ai sensi dell'art. 5 della legge n. 604 del 1966, deve cimentarsi, il carattere manifesto dell’insussistenza veniva riferito ad una evidente e facilmente verificabile assenza dei presupposti giustificativi del licenziamento che consenta di apprezzare la chiara pretestuosità del recesso, accertamento di merito demandato al giudice ed incensurabile, in quanto tale, in sede di legittimità. A tale evidenza ed immediatezza della prova non possono essere equiparate né una prova meramente insufficiente, né l'ipotesi nella quale tale requisito possa semplicemente evincersi da altri elementi opinabili o non univoci .
Ebbene, il lungo percorso interpretativo dell'art. 18, 7° comma ha conosciuto un ulteriore punto di fragoroso slittamento proprio sull’aggettivo criptico in esame. Con la pronuncia n. 125\22 la Corte Cost ha nuovamente dichiarato incostituzionale la norma de qua nella parte in cui dispone che, ai fini dell'applicabilità della tutela reintegratoria, l'insussistenza del fatto posto a fondamento del licenziamento per giustificato motivo oggettivo debba essere appunto manifesta. La questione di legittimità sottoposta alla Corte muoveva dall’ordinanza di rimessione del Trib. Ravenna 6 maggio 2021, che, nell'argomentare in ordine all'impossibilità di adottare un'interpretazione adeguatrice, ha sottolineato l’inafferrabilità e l'evanescenza di tale criterio che dava causa ad una non componibile difformità delle soluzioni interpretative. La Consulta ha, dunque, ritenuto l'eccentricità della nozione di manifesta insussistenza del fatto tracciata dalla giurisprudenza di legittimità rispetto alla differenziazione dell'apparato di tutele conseguibili, la quale deve essere ancorata al disvalore del licenziamento impugnato e non già al grado di complessità dell'istruttoria.
La Corte costituzionale in alcuni passaggi finali dà anche riscontro alla censura sollevata dal giudice rimettente e relativa alla violazione del principio di effettività della tutela giurisdizionale. Il fenomeno dell’allontanamento dalla centralità dell’effettività è plasticamente descritto dal rapporto tra le forme di tutela previste in ipotesi di licenziamento illegittimo e, in particolare, tra la reintegra nel posto di lavoro e l'indennità risarcitoria, già ritenuta adeguata ed economicamente più efficiente .
Ma ciò valeva forse fino alle sentenze appena esaminate.
Nel richiamare il licenziamento quale extrema ratio, la pronuncia 125\22 della Corte restituisce alla reintegra un ambito d'applicazione d'elezione e, viceversa, riconduce la tutela indennitaria alle sole ipotesi che «esulano dal fatto giuridicamente rilevante, inteso in senso stretto, [quali] il mancato rispetto della buona fede e della correttezza che presiedono alla scelta dei lavoratori da licenziare, quando questi appartengono a personale omogeneo e fungibile». L’effetto dirompente è quello di ripristinare l'originario rapporto tra tutela in forma specifica e tutela per equivalente presidiato, in termini di regola-eccezione, dall'art. 24 Cost. attraverso la combinazione del principio di atipicità del diritto d'azione e il canone di effettività della tutela giurisdizionale .
4. La giurisprudenza successiva. Una soluzione interpretativa costituzionalmente orientata, alla luce del principio di effettività. Dubbi ed ipotesi di ripensamento ricostruttivo sul ruolo del repêchage.
La pronuncia ha prodotto immediati effetti sui giudizi in corso. La Corte di Cassazione, sulla base della ormai consolidata ricostruzione del fatto come inclusivo del repêchage ed espunta dalla norma qualsiasi rilevanza al grado di evidenza probatoria dell’elemento, ha proceduto a cassare con rinvio le pronunce di merito che avessero escluso la reintegra sulla base del grado di emersione dell’omesso repêchage, mandando alla Corte territoriale affinchè rivaluti la fattispecie alla luce del nuovo quadro normativo . In relazione a qualsiasi ipotesi di insussistenza dei presupposti del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, ivi compresa la violazione dell’obbligo di repêchage, risulta obbligata per il giudice l’applicazione della tutela ripristinatoria attenuata
Ebbene, a parere di chi scrive, l’esclusione per irragionevolezza dell’aggettivo manifesta dalla norma era pressochè scontato ed è assolutamente condivisibile. Nello specifico ambito dei licenziamenti, l’esplicitazione della disciplina sull’onere della prova è contenuta nell’art.5 l.n.604\66 che individua nel datore di lavoro il soggetto onerato di dare piena asseverazione della giusta causa o del giustificato motivo nelle azioni aventi ad oggetto l’illegittimità dell’atto di recesso datoriale. L’onere dunque è collocato quanto al profilo soggettivo espressamente ed esclusivamente sulla parte datoriale (“L'onere della prova della sussistenza della giusta causa o del giustificato motivo di licenziamento spetta al datore di lavoro”), sulla base della considerazione che la giustificazione del recesso sarebbe un elemento costitutivo del potere di licenziamento per cui l’esistenza di tale carattere qualificante inclina sulla parte che intendere far valere il diritto a licenziare, cioè sul datore .
Al difetto di prova della giustificatezza della causa di licenziamento, indipendentemente da qualsiasi graduazione interna o esterna dello stadio asseverativo raggiunto, nella formulazione storica dell’art. 18 si applicava la tutela reintegratoria ogni volta che ne ricorressero i requisiti dimensionali del datore. Considerato che anche la prova sulla consistenza e dimensione aziendale inclinava (ed inclina) pacificamente sul datore , allo stesso era in definitiva riferibile tutto il carico probatorio ed il correlato rischio, conseguente anche a moderati residui di incertezza sul fatto giustificativo.
Dopo la riforma introdotta con la l. n. 92\12 il quadro ricostruttivo si è invece frantumato, e il carico probatorio, pur nella perdurante operatività della regola di cui all’art.5, appariva disgregato, in linea con quanto accaduto per le tutele. Si è fatta avanti, non a fini meramente qualificatori, un’ipotesi di differenziazione del contenuto dell’onere che inclina sul datore distinguendosi, a seconda dei risultati probatori raggiunti, le ipotesi di insussistenza semplice rispetto alla cd. insussistenza qualificata dall’evidenza probatoria. Si sviluppava la contraddizione per cui l’onere, pur addossato sulla parte datoriale, poteva essere assolto anche solo parzialmente o minimamente, con elementi indiziari insufficienti o con principi di prova, che avevano tuttavia il rilevantissimo risultato di precludere la tutela specifica. La prova del fatto poteva non essere fornita in giudizio ma ciononostante l’ombra indiziaria offuscava ed escludeva la luce piena del vuoto (la manifesta insussistenza) e garantiva al datore la definitività dell’effetto dismissivo. Una contraddizione logicamente non sostenibile.
La struttura dei carichi così concepita violava, dunque, direttamente il principio di effettività e meritava consapevole revisione, in una prospettiva costituzionalmente orientata.
All’esito degli slittamenti realizzati dalle pronunce richiamate, per i lavoratori assunti sino al 6 marzo 2015, e che dunque non rientrano nell’ambito di applicazione del regime sanzionatorio introdotto dal d.lgs. n. 23/2015, risulta a questo punto la tutela reintegratoria a costituire il rimedio “ordinario” qualora il giudice accerti l’insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo.
Vale la pena accennare solo incidentalmente al fatto che, invece, l’assetto previsto dal d.lgs. n. 23/2015, e applicabile ai lavoratori assunti dal 7 marzo 2015, esclude sempre la tutela reintegratoria in caso di licenziamento economico ingiustificato: qualora risulti accertato che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo oggettivo (e, dunque, anche in caso di violazione dell’obbligo di repêchage, in base a quanto da ultimo affermato dalla Cassazione), difatti, il giudice dichiara estinto il rapporto alla data del licenziamento e — all’esito della sentenza n. 194/2018 della Corte costituzionale — condanna il datore al pagamento di un’indennità risarcitoria compresa entro un minimo di sei e un massimo di trentasei mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del tfr (art. 3, co. 1).
Lo scarto di tutele è notevolissimo: nel primo caso, il lavoratore avrà diritto alla reintegrazione e ad un’indennità risarcitoria di entità compresa fra un minimo di cinque e un massimo di dodici mensilità della retribuzione globale di fatto; nel secondo, solo ad un’indennità risarcitoria compresa fra un minimo di sei e un massimo di trentasei mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del tfr.
Sempre in relazione ai lavoratori assunti sino al 6 marzo 2015, restano collocate «nell’area della tutela indennitaria le ipotesi in cui il licenziamento è illegittimo per aspetti che, pur condizionando la legittimità del licenziamento, esulano dal fatto giuridicamente rilevante, inteso in senso stretto», e che sicuramente comprendono «il mancato rispetto della buona fede e della correttezza che presiedono alla scelta dei lavoratori da licenziare, quando questi appartengono a personale omogeneo e fungibile» .
Come era immaginabile, alcune impostazioni argomentative della sentenza Corte Cost.125\22, ma anche di quella n. 59/2021, che va letta congiuntamente, hanno destato critiche giunte fino a registrare la “eccedenza del discorso politico sull'interpretazione costituzionale” . Ci troveremmo di fronte, in sostanza, a sentenze figlie dell'“età della giurisdizione” .
Secondo una parte della dottrina la fattispecie del giustificato motivo oggettivo andrebbe a questo punto necessariamente riletta «per mantenere alla tutela indennitaria non solo uno spazio ma lo spazio principale che il legislatore le ha accordato e che è perfettamente conforme all’ordinamento interno e internazionale. Solo così si evita che le sentenze della Consulta sull’art. 18 co. 7 travalichino i limiti di intervento del giudice delle leggi, dando origine ad un assetto normativo sostanzialmente nuovo e diverso da quello immaginato dal legislatore, operazione che non è consentita neanche al giudice delle leggi» .
Secondo questa impostazione, la reintegrazione obbligata per insussistenza semplice, conseguente al “duplice ritaglio ablativo della Consulta”, sollecita una revisione del precedente orientamento della Cassazione. A molti commentatori è apparso subito quasi inevitabile che la ricaduta sistematica in senso restrittivo debba riportare ad espungere la mancata prova dell’impossibilità del repêchage dalla insussistenza del fatto, al fine di evitare che, in forza dell’«effetto sinergico» della giurisprudenza delle due Corti, il comma 7 dell’art. 18 sulla tutela indennitaria per l’ingiustificatezza del motivo oggettivo finisca per diventare una norma «apparente» .
Ebbene, forse appare più logico che il legislatore intervenga con una riformulazione tecnica puntuale, evitando sintesi espressive non autosufficienti, quali il fatto posto a base del licenziamento per giustifico motivo oggettivo poiché sarebbe difficile e comunque non generalizzato un ripensamento dell’elaborazione sull’unitarietà dell’operazione riorganizzativa includente il repêchage. Il percorso di inglobamento del repêchage nel fatto appare ormai cristallizzato.
Deve eventualmente procedersi con cautela nella ulteriore indagine sull’esistenza e sull’ampiezza di un diritto alla riqualificazione professionale o alla formazione specifica per la conservazione del posto di lavoro, quale possibile estensione del repêchage, obbligazione ricavata da una lettura dei principi di correttezza e buona fede costituzionalmente orientata agli artt. 4 e 35 Cost.
Siamo nella sezione aurea creata dall’art. 35 Cost comma 2 che, dopo aver espresso il principio fondamentale “La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni”, esprime il valore altrettanto fondamentale dell’impegno collettivo alla crescita professionale e formativa con il capoverso “Cura la formazione e l'elevazione professionale dei lavoratori”. Questo nuovo uno spazio deve essere, con cauta intuizione, strutturato con ruolo pregnante dell’autonomia collettiva: le categorie tradizionali vengono sottoposte ad una prova di carico e di sforzo estensivo\espansivo per essere adattate, ove necessario modificate per funzionare in un contesto normativo e tecnico-industriale nuovo. L’ampliamento indiscriminato, con la struttura attuale della norma, rischierebbe altrimenti di far saltare definitivamente il sistema.